Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 14-06-2011) 28-07-2011, n. 30029 Reato continuato e concorso formale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 24 novembre 2009, la Corte d’Appello di Napoli confermava la sentenza con la quale, in data 26 maggio 2005, il Tribunale di Napoli condannava P.G., T. G. e P.F. per il reato di cui agli artt. 81 cpv. e 11., e L. n. 75 del 1958, art. 3, relativamente al favoreggiamento della prostituzione di diverse donne.

Avverso tale decisione i predetti proponevano ricorso per cassazione.

P.G. deduceva:

1. violazione degli artt. 270 e 271 c.p.p., relativamente all’ordinanza con la quale era stata disposta dal Tribunale l’utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, evidenziando la diversità tra il procedimento nell’ambito del quale dette operazioni vennero disposte e quello che li vedeva condannati. Aggiungeva che erroneamente la Corte d’Appello aveva ritenuto gravante sull’imputato l’onere di allegazione degli atti sui quali si fondava l’assunto difensivo poichè tale incombenza spettava all’organo dell’accusa.

2. violazione di legge con riferimento al computo della pena considerata per l’individuazione del termine massimo di prescrizione.

Rilevava, a tale proposito, che la Corte territoriale aveva ritenuto contestata in fatto l’aggravante di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 4, n. 7, che si risolveva, in assenza di una impugnazione del Pubblico Ministero, in una reformatio in pejus della decisione del giudice di prime cure.

L’aggravante, peraltro, non risultava applicabile nella fattispecie in quanto, prevedendo un danno a più persone, poteva ipotizzarsi soltanto con riferimento alle ipotesi di sfruttamento della prostituzione e non anche a quella di favoreggiamento contestata nella fattispecie.

3. violazione di legge con riferimento all’art. 521 c.p.p., e conseguente nullità della sentenza per la mancata contestazione della menzionata aggravante.

5. violazione dell’art. 192 c.p.p., e vizio di motivazione, non avendo la Corte territoriale utilizzato in maniera adeguata i criteri probatori fissati dal codice di rito, avendo valorizzato esclusivamente i risultati delle intercettazioni, sforniti di riscontri obiettivi, senza tener conto dell’incidenza di dati fattuali alternativi sottoposti all’attenzione dei giudici dell’appello.

6. omessa declaratoria dell’estinzione della pena per effetto dell’indulto che non risultava indicata in sentenza.

T.G. e P.F., con un unico ricorso, deducevano:

1. nullità della sentenza per inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, in quanto la Corte territoriale aveva violato il principio di correlazione tra fatto contestato e sentenza con riferimento alla circostanza aggravante di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 4, n. 7.

Lamentavano, altresì, che tale situazione aveva impedito loro la possibilità di ricorrere al rito alternativo del giudizio abbreviato.

2. erronea applicazione della disposizione concernente la menzionata aggravante, la cui applicabilità era riferibile ai soli casi di sfruttamento della prostituzione come chiaramente può desumersi dal tenore letterale della norma.

3. violazione di legge con riferimento alla ritenuta utilizzabilità delle intercettazioni disposte in un procedimento diverso.

4. violazione di legge con riferimento alla applicazione della disciplina della prescrizione nei termini già prospettati nel ricorso del P..

Tutti insistevano per l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.

Motivi della decisione

Occorre osservare, con riferimento alla questione inerente alla utilizzabilità delle operazioni di intercettazione (dedotte con il primo motivo di ricorso dal P. e con il terzo motivo di ricorso dal T. e dal P.) che le doglianze mosse dalla difesa appaiono infondate.

Correttamente, infatti, la Corte territoriale ha ritenuto, con argomentazione in fatto non censurabile in questa sede in assenza di manifesta illogicità, che la parte che aveva dedotto l’inutilizzabilità degli atti non aveva ottemperato all’onere di produzione sulla stessa incombente in ragione di una condivisibile lettura delle disposizioni processuali applicate fornita dalle Sezioni Unite di questa Corte, la cui decisione menzionava (SS. UU. n. 39061, 8 ottobre 2009) Tale pronuncia, a sua volta, richiama altra precedente decisione (SS. UU. n. 45189, 23 novembre 2004) con la quale si è affermato che "l’inutilizzabilità dei risultati di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni per violazione dell’art. 267 c.p.p., e art. 268 c.p.p., commi 1 e 3, è rilevata dal giudice del procedimento diverso da quello nel quale furono autorizzate solo quando essa risulti dagli atti di tale procedimento, non essendo tenuto il giudice a ricercarne d’ufficio la prova. Grava, infatti, sulla parte interessata a farla valere l’onere di allegare e provare il fatto dal quale dipende l’eccepita inutilizzabilità, sulla base di copia degli atti rilevanti del procedimento originario che la parte stessa ha diritto di ottenere, a tal fine, in applicazione dell’art. 116 stesso codice".

I giudici dell’appello evidenziano anche che l’eccezione era stata disattesa già dal Tribunale con argomentazioni ritenute condivisibili e che legittimamente richiamava, dalle quali risultava che gli imputati erano già stati sottoposti ad indagine in relazione ad ipotesi associativa e che le intercettazioni erano state effettuate fina dall’inizio su utenze a loro in uso.

Per quanto concerne, invece, la questione afferente alla aggravante di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 4, n. 7, e la questione relativa alla prescrizione dei reati (dedotta nel secondo, terzo e quarto motivo di ricorso dal P. e nel primo, secondo e quarto motivo di ricorso dal T. e dal P.) deve preliminarmente osservarsi che appare erronea l’affermazione secondo la quale detta aggravante sia riferibile soltanto alle ipotesi di sfruttamento della prostituzione, in ragione del fatto che la disposizione si riferisce ad un’azione commessa "ai danni" di più persone e che tale dato lessicale risulterebbe incompatibile con la diversa ipotesi di favoreggiamento in cui un "danno", evidentemente, non sussiste consistendo l’azione del reo nell’agevolazione dell’altrui meretricio.

Si è infatti osservato (Sez. 3^ n. 46456, 2 dicembre 2009) che il legislatore non ha effettuato alcuna distinzione tra le diverse ipotesi di condotta e che non esistono ragioni giuridicamente valide per circoscrivere l’applicazione dell’aggravante al solo delitto di sfruttamento.

E’ altrettanto evidente che la sussistenza dell’aggravante emergeva pacificamente dalla descrizione del fatto riportato in rubrica, dove si specifica che la condotta di favoreggiamento risultava posta in essere con riferimento a più donne, alcune delle quali indicate con nome e cognome.

L’imputazione non contiene, tuttavia, la menzione specifica del più volte citato L. n. 75 del 1958, art. 4, n. 7, e non risulta che il giudice di prime cure abbia valutato la sussistenza dell’aggravante medesima, tanto che, nel concedere le attenuanti generiche, non ha effettuato alcun giudizio di comparazione, applicando la riduzione sulla pena minima indicata dall’art. 3 (dato ricavabile dal dispositivo della sentenza appellata riportato dalla Corte d’Appello).

Data tale premessa, deve rilevarsi che si è più volte affermato come, ai fini del calcolo del tempo necessario alla maturazione della prescrizione del reato, non si può tenere conto, in difetto di specifica impugnazione sul punto, di circostanze aggravanti che non siano state oggetto di apposita contestazione, ovvero non siano state comunque valutate dal giudice nella quantificazione della pena inflitta (principio consolidato affermato, anche con riferimento alla recidiva, da Sez. 2^ n. 18595, 5 maggio 2009; Sez. 2^ n. 11008, 21 marzo 2005; Sez. 5^ n. 4412, 8 aprile 1999).

Ne consegue che, per il calcolo dei termini di prescrizione, non poteva assumere rilievo la richiamata aggravante, con la conseguenza che i termini di prescrizione devono essere calcolati con riferimento alla pena prevista dalla L. n. 75 del 1958, art. 3, ed indicata, nel massimo, in anni sei di reclusione.

Per quanto riguarda, invece, il regime applicabile, occorre ricordare che la L. 5 dicembre 2005, n. 251 ha modificato le disposizioni in materia di prescrizione, prevedendo anche una disciplina transitoria.

In base al disposto dell’art. 10 della legge predetta, la nuova disciplina non è applicabile ai procedimenti ed ai processi in corso alla data di entrata in vigore se i termini di prescrizione risultano più lunghi di quelli previgenti (comma 2) ma, se per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le stesse si applicano ai procedimenti ed ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della legge, ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonchè dei processi già pendenti in grado di appello o avanti la Corte di Cassazione (comma 3).

La Corte Costituzionale ha successivamente dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma predetto, limitatamente alle parole "dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonchè".

In ordine alla individuazione della pendenza in appello, le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito che ai fini dell’operatività delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione, la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado determina la pendenza in grado d’appello del procedimento, ostativa all’applicazione retroattiva delle norme più favorevoli (SS. UU. n. 47008,10 dicembre 2009).

Tale decisione ha, come osservato anche dalla Corte territoriale, eliminato ogni contrasto sul punto ed appare pienamente condivisibile (v. anche Sez. 6^ n. 8983, 5 marzo 2010).

Date tali premesse, si osserva che, nella fattispecie, la sentenza di primo grado risulta pronunciata il 26 maggio 2005, quindi antecedentemente all’entrata in vigore della L. 5 dicembre 2005, n. 251 con la conseguenza che, essendo il procedimento pendente in appello in ragione delle disposizioni sopra richiamate, risulta applicabile la disciplina previgente.

Considerando la pena applicabile, previa applicazione delle attenuanti generiche riconosciute dal giudice di prime cure, considerata la data del commesso reato ((OMISSIS)), nonchè i periodi di sospensione conseguenti alle astensioni dei difensori ed ai rinvii su istanza degli stessi il termine massimo di prescrizione non risulta ancora spirato.

Infondati risultano, infine, il quinto ed il sesto motivo di ricorso del P..

Con riferimento alle valutazione del dato probatorio, infatti, la decisione impugnata si presenta del tutto immune da cedimenti logici ed appare coerentemente argomentata con riferimenti alle dichiarazioni delle dichiarazioni dei testimoni escussi, all’esito degli accertamenti espletati e mediante un legittimo richiamo per relationem alla sentenza di primo grado.

Del tutto corretta appare inoltre la mancata applicazione dell’indulto in quanto a tutti gli imputati era stato concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena.

Come recentemente ricordato dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza di condanna, non può essere contestualmente applicato l’indulto e disposta la sospensione condizionale della pena, in quanto quest’ultimo beneficio prevale sul primo (SS. UU. n. 36837, 15 ottobre 2010).

I ricorsi devono pertanto essere rigettati con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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