T.A.R. Veneto Venezia Sez. II, Sent., 18-08-2011, n. 1362 Costruzioni abusive Edilizia e urbanistica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

La società ricorrente – con scrittura privata con firme autenticate del 6 giugno 2000, notaio Paolo Chiaruttini di Venezia – acquistò dal sig. R.V., titolare dell’ omonima ditta individuale, l’azienda costituita da un chioscobar situato a Venezia, Campo San Polo, esercente l’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande di tipo "B".

A seguito del citato acquisto d’azienda la società ricorrente è divenuta titolare, per subingresso del precedente titolare R.V., della licenza n. 7872 per la somministrazione al pubblico di alimenti e bevande di tipo C con chiosco sito a Venezia, Campo San Polo, con superficie di mq 8, rilasciata dal Comune di Venezia in data 22.05.2001.

Per quanto interessa il presente giudizio, la società ricorrente evidenzia che il dante causa della stessa, sig. R.V., per l’esercizio dell’azienda compravenduta ed avente ad oggetto il chioscobar di Campo San Polo, era a sua volta già titolare: a) di autorizzazione igienicosanitaria prot. 4283/87 rilasciata dal Comune di Venezia in data 14.09.1987, con la quale veniva espressamente attestato che il "Chiosco sito a Venezia – Campo S. Polo, di fronte al civico 2011" soddisfaceva i requisiti d’igiene per l’esercizio dell’attività (cui è ricollegabile anche il nulla osta igienico per i locali siti sempre in Campo S. Polo 1997 destinati a "Deposito sostanze alimentari e bevande (per uso del chiosco e bar in Campo S. Polo)" rilasciato dall’amministrazione in data 30.09.1987;.b) di autorizzazione all’occupazione di spazio pubblico, rilasciata dal Comune di Venezia in data 01.01.1995; c) di autorizzazione prot. n. 6277 all’esecuzione dei lavori previsti dal Piano di adeguamento scarichi per il Chiosco di Campo S. Polo, rilasciato dal Comune di Venezia in data 30.09.1994 e con il quale l’amministrazione autorizzava la ditta Vianello Roberto "ad eseguire i lavori edilizi previsti dal piano di adeguamento scarichi presentato" con prot. 94/058938 il 28.04.1994); d) di licenza n. 6342 per la somministrazione al pubblico di alimenti e bevande di tipo B con chiosco sito a Venezia, Campo San Polo, con superficie di mq 8, rilasciata dal Comune di Venezia in data 04.06.1997.

Sempre ai fini del presente ricorso,la ricorrente rappresenta che il chiosco di Venezia, Campo S. Polo (per cui è causa) risulta in opera – nella medesima posizione, nonché con la conformazione, con la tipologia dei materiali e con le misure di oggi – quanto meno sin dal 1965 allorché era gestito dal sig. Lorenzo M., dante causa del Sig. R.V., e concessionario, secondo quanto attestato dal Sindaco del Comune di Venezia (prot. n. 15534/02742 del 11.04.1975), di posteggio con chiosco proprio in Campo S. Polo, con autorizzazione ad occupare suolo pubblico nel medesimo Campo già dal 1958, come da nota Comune di Venezia pro t. n. 443/82 del 29.09.1982.

Così ricostruita la serie di passaggi che hanno contraddistinto la titolarità del suddetto chiosco nel tempo, la ricorrente espone che con nota 25.03.2008, prot. gen. 2008/130903, il Comune di Venezia comunicava a P.S. s.r.l. l’avvio del procedimento per l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 35 del D.P.R. 6/6/2001 n. 380 e successive modifiche ed integrazioni e dall’art. 167 D. Lgs. n. 42/04, sulla premessa che in data 14.03.2008 il funzionario incaricato dell’Ufficio Tecnico aveva accertato l’esecuzione di opere in assenza del titolo abilitativo e precisamente: "il mantenimento in opera senza atto abilitativo di un chiosco in legno, per la vendita di alimenti e bevande, dalle misure a terra di mt 2,50 per mt. 3,10 circa per un’altezza di mt 2, 70 circa".

Rimaste disattese le doglianze proposte da P.S. S.r.l. con apposita memoria difensiva, il Comune di Venezia, con provvedimento prot. gen. 2009/0166084 a firma del Dirigente dell’Area dell’Edilizia Centro Storico e Isole, datato 29 aprile 2009 e notificato in data 06.05.2009, diffidava quindi, la ricorrente a demolire il chiosco in legno per la vendita di alimenti e bevande sito a Venezia, Campo S. Polo fronte anagrafici 20092010.

Tutto quanto sopra in fatto premesso, avverso il suddetto provvedimento datato 29 aprile 2009 prot. gen. 2009/0186084, la società ricorrente propone i seguenti motivi di gravame:

1) Violazione del diritto alla difesa; eccesso di potere per contraddittorietà e incongruenza; eccesso di potere per illogicità, genericità della contestazione; violazione e falsa applicazione dell’art. 19 N.T.A. della Variante al P.R.G. per la Città Antica, eccesso di potere per difetto di presupposto e mancanza di motivazione.

Sostiene preliminarmente la ricorrente che la diffida gravata è illegittima perché caratterizzata da evidente contraddizione sia con la comunicazione di avvio del procedimento, notificata alla ricorrente il 25.03.2008, sia con il richiamato e presupposto accertamento compiuto in data 14.03.2008 dal funzionario dell’Ufficio tecnico comunale, in quanto, per un verso, nella comunicazione ex artt. 7 e 8 L. 241/90 viene dato atto che il succitato funzionario avrebbe accertato il "mantenimento in opera senza atto abilitativo di un chiosco… ", così individuando il preteso comportamento oggetto di censura, laddove la diffida alla demolizione, pur rifacendosi a quella medesima attività di accertamento, riferisce in premessa che il comportamento censurato, per come verificato dal funzionario, consisterebbe nella "installazione di un chiosco… "; che tale contraddittorietà ed incongruenza tra atti della stessa amministrazione non permette alla ricorrente di comprendere quale comportamento le venga effettivamente contestato precludendole il pieno diritto alla difesa; che inoltre l’impugnato provvedimento è affetto da genericità ed illogicità nella parte in cui diffida la ricorrente alla demolizione dell’opera sulla base di premesse tra loro non univoche, quali, da un lato, la presunta convinzione che il chiosco in oggetto sia da considerarsi costruzione da assoggettare a titolo edilizio, e dall’altra il richiamo all’art. 167, comma l, del Codice dei Beni Culturali, senza tuttavia in alcun modo esplicitarne il rilievo e quali sarebbero gli obblighi e gli ordini eventualmente ritenuti violati; che infine, la diffida risulta viziata anche perché riferisce erroneamente di un presunto contrasto del chiosco con le prescrizioni dell’art. 19 N.T.A. della Variante al P.R.G. per la Città Antica che non possono ritenersi applicabili ad un’opera che risulta in loco già dalla metà degli anni sessanta e che non sono tali da escluderne la permanenza, posto che la stessa norma al punto 10, prevede, a determinate condizioni, l’installazione di chioschi anche per la somministrazione di cibi e bevande.

2) Violazione dei principi di cui alla Legge 17.08.1942, n. 1150; violazione e falsa applicazione dell’art. 35 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 e dell’art. 167 comma 1^ D.Lgs. 22.01.2004; eccesso di potere per difetto di presupposto, per travisamento dei fatti e carenza di istruttoria nonché per difetto di motivazione.

Si sostiene che il chiosco oggetto di demolizione è stato eretto prima del 1967; che pertanto la normativa urbanistica applicabile è la legge 1150/1942 e che, all’epoca, per la costruzione del chiosco non si richiedeva il rilascio di alcun titolo abilitativo, trattandosi di un manufatto precario strumentale all’attività di somministrazione di alimenti e bevande; che la stessa amministrazione comunale che ha ordinato la demolizione, nell’anno 1975 ha riconosciuto che al sig. Lorenzo M., a suo tempo proprietario del manufatto, era stata rilasciata una concessione per posteggio con chiosco; che pertanto è certo che il Comune di Venezia, dalla data della posa in opera del chiosco (prima del 1967) e sino alla diffida non ha mai contestato la legittimità del chiosco sotto il profilo urbanistico edilizio pur trattandosi dello stesso chiosco, fatto degli stessi materiali e struttura; che nessuna istruttoria, infine, è stata esperita per stabilire o contestare la verità di tale affermazione.

3) Violazione del principio di buon andamento; eccesso di potere per difetto di presupposto, per travisamento dei fatti e carenza di istruttoria e di motivazione, incongruenza, irragionevolezza e difetto di motivazione.

Si sostiene che nel lungo periodo trascorso dalla realizzazione del chiosco il Comune di Venezia ha assunto un gran numero di determinazioni, relative sia all’attività economica esercitata in esso sia alle prescrizioni igienico sanitarie occorrenti per svolgere tale attività e che tali autorizzazioni risultano avere a presupposto la legalità del manufatto sotto l’aspetto urbanistico edilizio; che la regolarità del chiosco è confermata dal provvedimento con cui il Comune di Venezia ha autorizzato la ditta Vianello ad eseguire lavori edilizi di adeguamento degli scarichi; che altrettanto può dirsi per il parere della Sovrintendenza sulla richiesta di collocare una tenda parasole avvolgibile; che pertanto deve ritenersi contraddittoria la condotta del Comune di Venezia che ignorando le anzidette autorizzazioni ha ordinato la demolizione dell’immobile ritenuto abusivo.

4) Violazione dei principi di proporzionalità, di buon andamento e di correttezza della P.A.; eccesso di potere per violazione del principio di affidamento, per difetto di motivazione e di interesse pubblico al ripristino.

Si sostiene che il provvedimento impugnato è illegittimo in quanto adottato dopo quarant’anni dalla posa in opera del manufatto, passato di proprietà, nel tempo, dal sig. M. al sig. V. e alla società P.S.; che il provvedimento demolitorio non motiva sull’interesse pubblico a sacrificare posizioni giuridiche consolidate da tempo, come quelle della ricorrente.

Nelle more del giudizio instaurato con il ricorso principale il Comune di Venezia, con provvedimento del 12 marzo 2010 a firma del Dirigente dell’Area dell’Edilizia del centro Storico e Isole ha ordinato la demolizione e il ripristino coattivo delle opere abusive, rappresentate dal chiosco in legno per la vendita di alimenti e bevande sopra descritto.

Avverso tale provvedimento, impugnato con motivi aggiunti, la ricorrente deduce i seguenti ulteriori motivi:

5) Illegittimità derivata dal provvedimento presupposto.

6) Eccesso di potere per contraddittorietà, incongruenza, genericità; violazione e falsa applicazione dell’art. 19 N.T.A. della variante al PRG per la città antica (iterazione del motivo sub 1)).

7) Violazione dei principi di cui alla l. 17.08.1942, n. 1150; violazione dell’art. 35 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 e dell’art. 167, comma 1 D. Lgs. 22.01.2004; etc. (iterazione del motivo sub 2))..

8) Violazione del principio di buon andamento; eccesso di potere per difetto di presupposto, per travisamento dei fatti e carenza di istruttoria e di motivazione (iterazione del motivo sub 3)).

9) Violazione dei principi di proporzionalità e di buon andamento della P.A.; eccesso di potere per violazione del principio di affidamento, etc. (iterazione del motivo sub 4)).

Si è costituito in giudizio il Comune di Venezia che con apposita memoria ha contrastato i motivi di ricorso e ne ha chiesto la reiezione con vittoria di spese.

Alla pubblica udienza del 20 aprile, previa audizione delle parti, il ricorso è stato posto in decisione.

Motivi della decisione

1. I ricorsi, principale e per motivi aggiunti sono infondati e vanno respinti per le ragioni che seguono.

1.1 Con il primo motivo di censura, parte ricorrente sostiene che il provvedimento di diffida è inficiato da svariati profili di illegittimità, tra cui, in primis, la contraddittorietà tra i diversi provvedimenti impugnati – nella comunicazione ex artt. 7 e 8 L. 241/90 viene dato atto che il funzionario ispettore avrebbe accertato il "mantenimento in opera senza atto abilitativo di un chiosco. ", così individuando il preteso comportamento oggetto di censura, laddove la diffida alla demolizione, pur rifacendosi a quella medesima attività di accertamento, riferisce in premessa che il comportamento censurato consisterebbe nella realizzazione del chiosco – in quanto i suddetti conterrebbero enunciati diversi e tali da rendere difficoltosa la comprensione dell’oggetto della diffida e il comportamento sanzionato.

In particolare sarebbero contraddittori gli enunciati "mantenimento in opera" del manufatto e "l’installazione" del medesimo: la prima contenuta nella comunicazione ex artt. 7 e 8 L. 241/90, la seconda nella diffida alla demolizione.

1.2. Il motivo è destituito di fondamento.

Infatti, sebbene formalmente diversi gli enunciati di cui in premessa si riferiscono chiaramente e in modo esplicito al medesimo oggetto ed alla medesima violazione edilizia; ambedue descrivono, infatti, la natura abusiva del chiosco in oggetto, sia in quanto realizzato senza titolo abilitativo idoneo sia perché è stato mantenuto in essere nonostante il rigetto della domanda di sanatoria del medesimo (cfr. doc. n. 3 dep. dal Comune di Venezia il 27 maggio 2010).

1.3. Parimenti infondata è la doglianza relativa alla presunta inapplicabilità, e, comunque, alla violazione, dell’art. 19 delle NTA della Variante al PRG per la Città Antica,

La documentazione dimessa in atti evidenzia, infatti, che la ditta ricorrente ha ignorato fatti rilevanti e taciuto o travisato gli stessi assumendo di essere in possesso (per averla conseguita dal dante causa Roberto V., che a sua volta l’avrebbe conseguita da L. M., originario proprietario del chiosco) del titolo edilizio necessario a legittimare la presenza della struttura di vendita, laddove percorrendo a ritroso il procedimento amministrativo si rileva che nella richiesta di regolarizzazione del chiosco fisso, presentata il 22 settembre 1980 dallo stesso L. M. emerge che la ditta era titolare (solo) dell’autorizzazione per l’esercizio del commercio ambulante per la vendita di frutta secca, castagne, bibite e dolciumi e che la stessa risultava essere iscritta a ruolo per un posteggio fisso di mt. 2,50 x 1,5 per il chiosco e di mt. 1,55 x 0,70 per il congelatore, laddove la richiesta di regolarizzazione riguardava un chiosco fisso con dimensioni effettive a terra di mt. 3,10 x 2,55 pari a mq. 7,90 ed una copertura di mq. 12.

1.4. Ne consegue che non solo il manufatto non era legittimato da alcun titolo edilizio ma che la stessa autorizzazione al commercio ambulante non era rispettata in quanto, già da molto tempo e prima dell’istanza di sanatoria del 1980, il sig. M. utilizzava una struttura "avente delle dimensioni effettive da terra di m. 3, 10 x 2,55 pari a mq. 7,90 ed una copertura di oltre 12 mq." e quindi diversa e ampliata anche rispetto al posteggio fisso iscritto a ruolo.

E infatti, in sede di istruttoria venne rilevato il contrasto con le norme urbanistiche vigenti e quindi l’insanabilità del chiosco anche di fronte ad una eventuale domanda di sanatoria ".

1.5. Non è quindi solo il preteso contrasto con la norma invocata dalla ricorrente (vale a dire l’art. 19 N.T.A. della Variante al P.R.G. per la Città Antica) a sorreggere l’ordine di demolizione ma l’assenza di titolo edilizio legittimante l’erezione del chiosco e, a seguire, la presa d’atto che l’opera non avrebbe potuto essere sanata per contrasto con la norma sopraccitata a farne conseguire la diffida e il successivo ordine di demolizione.

Peraltro, a differenza di quanto erroneamente sostenuto dalla ricorrente, l’art. 19 menzionato non prevede in alcun modo l’installazione di chioschi inamovibili "a determinate condizioni", prevedendo espressamente la sola possibilità di installare "chioschi per la vendita di beni e/o per la somministrazione di cibi e bevande, e simili, nelle unità di spazio scoperto di cui al presente articolo" i quali "devono essere in ogni caso amovibili, se non mobili, e realizzati secondo forme tradizionali, o in forme che reinterpretino quelle tradizionali, nonché con materiali tradizionali per quanto possibile e comunque nei rivestimenti esterni.

Come correttamente dedotto dall’amministrazione resistente, pertanto, la norma non prevede alcunché in ordine all’installazione di chioschi come quello in esame, inamovibile e infisso al suolo.

1.6. Quanto alla contestata applicabilità dell’art. 167 del Codice dei Beni Culturali, il Collegio osserva che il richiamo alla norma anzidetta è perfettamente appropriato: come noto, infatti, la conterminazione lagunare, comprensiva del centro storico veneziano, è stata assoggettata dal D.M. 1 agosto 1985, al vincolo di cui alla L. 1497/1939 e, dunque, dichiarata dallo stesso "di notevole interesse pubblico".

Il richiamo dell’art. 167 del D.Lgs. 42/2004, è dunque pertinente e il motivo va quindi respinto.

2. Con il secondo motivo di impugnazione, parte ricorrente sostiene che l’amministrazione avrebbe proceduto ad elevare alla ditta ricorrente una sanzione ultronea e del tutto disancorata dai riferimenti normativi pertinenti al caso in esame: in particolare parte ricorrente assume che il chiosco, con le odierne fattezze sussisteva fin dal 1967 e che avrebbero dovuto trovare applicazione, pertanto, una serie di normative risalenti a quell’epoca, anche se ormai abrogate.

2.1. Senonchè, tali difese sono prive di fondamento perchè erronee sono ambedue le premesse di fatto che le sorreggono, vale a dire: il possesso in capo ai danti causa della ricorrente di un valido titolo edilizio alla realizzazione del chiosco e la successiva legittimazione del chiosco per effetto dei numerosi provvedimenti autorizzativi rilasciati dal Comune all’allora titolare della struttura.

Infatti, come già rilevato nella disamina del motivo che precede, in capo all’originario titolare del chiosco ricorreva solo "un’autorizzazione per l’esercizio di commercio ambulante" e a tutto concedere per un chiosco di mt. 2,50 x 1,50.

Il che significa solo che il ricorrente disponeva di un’autorizzazione commerciale per attività di commercio ambulante e nessun titolo per realizzare un chiosco fisso ed inamovibile quale quello che trovasi in sito e che è oggetto dei provvedimenti impugnati.

2.2. Ne consegue che il chiosco in questione deve ritenersi abusivo sin dal momento della sua realizzazione con le caratteristiche di inamovibilità che ancora oggi conserva.

E che, anche in base all’invocato principio del tempus regit actum, la normativa applicabile al manufatto abusivo non sarebbe stata diversa da quella vigente al momento in cui l’amministrazione è venuta a conoscenza dell’abuso medesimo, ossia nell’anno 2008, o ancora prima e cioè quando ha respinto la domanda di regolarizzazione del chiosco, nell’anno 1082.

E infatti già sin dall’anno 1982, al tempo del diniego della sanatoria, il comune aveva applicato la normativa all’epoca vigente, diffidando la ditta al mantenimento del chiosco.

Solo successivamente, a seguito dell’accertamento della permanenza dell’abuso, l’amministrazione ha proceduto nel proprio iter sanzionatorio, applicando, in conformità al principio suddetto, la normativa oggi vigente.

2.3. Invero, come da costante giurisprudenza, l’attività sanzionatoria dell’amministrazione in casi consimili è ritenuta attività vincolata "in quanto non può ammettersi alcun legittimo affidamento alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può avere legittimato, con la conseguenza che ove sussistano i presupposti per l’adozione del provvedimento di riduzione in pristino, detto provvedimento costituisce atto dovuto sufficientemente motivato con l’affermazione dell’abusività dell’opera" (ex multis, Tar Sicilia, 20 ottobre 2009, n. 1665).

L’amministrazione, quindi, in presenza di un accertamento contravvenzionale attestante l’abuso non poteva far altro che attivare il procedimento sanzionatorio previsto dal DPR 380/01, provvedendo, come ha correttamente fatto, alla. comunicazione dell’avvio del procedimento, alla diffida e, infine, all’ordine di demolizione del fabbricato, siccome abusivo dal 1967.

2.4. Né può condividersi l’assunto della ricorrente in ordine all’irrilevanza, sotto il profilo edilizio, della necessità di un apposito titolo abilitativo per il manufatto in questione.

Infatti, anche a prescindere dalla richiesta confessoria di regolarizzazione, non basta l’assenza di un qualche ancoraggio al terreno dal chiosco per sostenere che lo stesso manufatto non potesse in alcun modo configurarsi quale "costruzione edilizia".

Ciò in quanto, nella definizione del concetto di precarietà dell’intervento, l’orientamento di questo Tribunale, dal quale non vi sono ragioni per discostarsi, è restrittivo ed è nel senso che la precarietà ricorre solo in presenza di un uso specifico e temporalmente limitato del bene, in modo tale da poter emergere per le sue obiettive caratteristiche (CdS Sez V, n. 5566/2007). In tale contesto, viene anche in evidenza che la precarietà delle opere non s’identifica con l’assenza d’ancoraggio del bene al suolo ovvero con la stagionalità del suo uso, allorquando, come avviene nella specie, prevale l’aspetto della sua utilizzazione per il soddisfacimento di esigenze non già contingenti ma perduranti nel tempo, come nel caso di specie.

E questo è quanto emerge anche dalla lettura della riportata norma del T. U. dell’edilizia, dove è evidente la preoccupazione di evitare eccezioni alla necessità del permesso di costruire se non per i casi di interventi rivolti a soddisfare obiettive "esigenze meramente temporanee", vale a dire interventi che non determinano immutazione dei luoghi e che, quindi, non hanno incidenza sul territorio" (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV 22 dicembre 2007, n. 6615).

2.5. Appare evidente, da quanto sopra riportato, che l’insistenza di un manufatto quale quello in esame, di dimensioni importanti e stabile nel medesimo sito fin dagli anni "70 del 2000", non possa in alcun modo ritenersi un manufatto precario, o comunque estraneo dalla nozione di "costruzione edilizia", necessitando, pertanto, di un apposito titolo abilitativo ai fini del suo mantenimento in essere.

2.6. Quanto alla concessione rilasciata al sig. M. nel 1975, come evidenziato dalla stessa ricorrente, questa riguardava una concessione di posteggio con chiosco di determinate dimensioni ("mt. 2,50 x 1,50 per il chiosco e mt. 1,55 x 0,70 per il congelatore; per la vendita di frutta secca, dolciumi, etc., e non l’autorizzazione alla realizzazione di un chiosco fisso, delle odierne dimensioni, realizzato ai fini della somministrazione di alimenti e bevande; autorizzazione espressamente negata e tuttora insussistente.

Ne consegue che il chiosco che ne occupa, pertanto, nelle sue attuali fattezze è abusivo ed il provvedimento qui impugnato del tutto legittimo.

3. Con il terzo motivo parte ricorrente, sostiene, ancora, che la legittimità del chiosco in esame potrebbe farsi derivare da una serie di nulla osta igienicosanitari e dal rilascio di autorizzazioni commerciali per l’esercizio dell’attività di somministrazione ad esso relative, assumendone, la natura di titoli legittimanti il manufatto in questione sotto il profilo edilizio.

3.1. Il motivo è destituito di fondamento.

Com’è noto i provvedimenti che autorizzano la somministrazione, quelli che attestano la conformità igienico sanitaria e quelli che comportano un’abilitazione di carattere edilizio sono del tutto autonomi in quanto perseguono scopi diversi.

Pertanto a nulla rileva che il titolare del chiosco abbia richiesto ed ottenuto, nel tempo, svariate autorizzazioni igienico sanitarie o commerciali, posto che il chiosco in esame costituisce intervento implicante trasformazione urbanistica ed edilizia e dunque tale da richiedere un titolo abilitativo edilizio, trattandosi di un manufatto che inerisce stabilmente al suolo e modifica in modo apprezzabile l’assetto territoriale.

3.2. Da quanto precede risulta evidente l’assoluta distinzione che intercorre tra il titolo abilitativo richiesto ai fini urbanisticoedilizi e le autorizzazioni o gli altri provvedimenti amministrativi che possono avere ad oggetto il medesimo chiosco ma sotto diversi profili funzionali (occupazione suolo con tende, autorizzazioni igienico sanitarie, autorizzazioni commerciali): tali provvedimenti, infatti, lungi dal legittimare sotto il profilo edilizio il manufatto, si riferiscono a settori che sono del tutto distinti e del tutto privi di incidenza rispetto al primo.

Per quanto detto, si palesa l’infondatezza anche del suddetto motivo di impugnazione.

4. Con l’ultimo motivo di censura, la ricorrente eccepisce, infine, la lesione dell’affidamento insorto in capo alla stessa ditta a seguito del mantenimento della situazione esistente per un lungo periodo di tempo, senza alcun intervento da parte dell’amministrazione.

4.1. In realtà va evidenziato che il diniego di sanatoria risale all’anno 1982, e non a circa 40 anni or sono, come affermato dalla ricorrente, che semmai potrà dolersi con il proprio dante causa R.V. laddove questi avesse nascosto all’acquirente P.S. il reale stato delle cose in punto di legittimazione del chiosco alienato.

Peraltro come più volte chiarito in ordine all’obbligatorietà, per l’amministrazione, dell’adozione del provvedimento di demolizione in seguito all’accertamento dell’abusività di un manufatto, la demolizione, quale atto sanzionatorio volto al ripristino di una situazione modificata senza previo titolo autorizzatorio non costituisce esercizio di un potere discrezionale dell’amministrazione comunale, dovendo quest’ultima tutelare necessariamente in via primaria l’interesse pubblico al rispetto della normativa in materia urbanistica.

4.2. E quantunque la repressione dell’abuso sia avvenuta a distanza di tempo dall’insorgenza del medesimo, ciò non esclude l’abusivìtà del manufatto il quale, anche a distanza di 30 anni è comunque privo dell’idoneo titolo edilizio (cfr per analogia TAR Veneto, sez. 2^ n. 1179/09); la prevalenza dell’interesse pubblico sussiste, peraltro, anche nel caso in cui l’abuso sia stato commesso in epoca risalente nel tempo, e ciò non solo perché non ricorre alcun legittimo affidamento in capo al contravventore che giustifichi la conservazione di una situazione di fatto contra ius, ma anche perché la repressione degli abusi edilizi costituisce un preciso obbligo dell’Amministrazione, la quale non gode, al riguardo, di alcuna discrezionalità (cfr., da ultimo, CdS, IV, 1.10.2007 n. 5049, id. TAR Veneto sez. 2^ n. 569/08).

Il mero decorso del tempo non basta, infatti, a far insorgere nel privato l’affidamento sul consolidarsi dell’interesse alla conservazione del bene, né, di conseguenza, è sufficiente ad implicare una specifica motivazione sull’esistenza di un interesse pubblico attuale e prevalente"(TAR Toscana n. 1457/08).

5. Il ricorso principale è quindi, in conclusione, infondato e va respinto.

Analoga sorte merita per derivazione il ricorso per motivi aggiunti che si basa solo sulla riproposizione dei motivi del ricorso principale, tutti già esaminati e respinti.

6. Le spese seguono, come d’ordine, la soccombenza e sono liquidate nella misura di cui al dispositivo

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Seconda)

definitivamente pronunciando sul ricorso principale e per motivi aggiunti, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna la parte ricorrente al pagamento in favore del Comune di Venezia delle spese e delle competenze di causa che liquida in euro 3000,00 (tremila euro/00) oltre ad iva e cpa.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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