Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 14-06-2011) 28-07-2011, n. 30026

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 4 marzo 2010, la Corte d’Appello di Venezia confermava la sentenza con la quale, il 30 aprile 2008, il Tribunale monocratico di Venezia condannava B.A., legale rappresentante della Arborea srl, per l’abbandono ed il deposito incontrollato, su area detenuta in locazione e senza alcuna protezione dall’azione di dilavamento degli agenti atmosferici, di rifiuti pericolosi e non pericolosi, quali fusti metallici contenenti scarti di olio motore, batterie al piombo deteriorate, lastre contenenti amianto, veicoli e pneumatici fuori uso, rifiuti urbani non differenziati, imballaggi vari, materiali vegetali da sfalcio e potatura, residui di vernici e solventi, traversine ferroviarie dismesse.

Avverso tale decisione il B. proponeva ricorso per cassazione.

Con un primo motivo di ricorso deduceva l’erronea qualificazione giuridica del fatto, asserendo che i materiali rinvenuti nell’area non potevano essere qualificati come rifiuti in quanto destinati al riutilizzo, poichè la società della quale era legale rappresentante stava procedendo alla smobilitazione dell’attività con trasferimento dei materiali in luogo diverso.

Aggiungeva che parte del materiale era costituito da scarti vegetali che potevano essere riutilizzati, mentre l’altro materiale classificato come rifiuto dagli accertatori non era stato sottoposto ad alcun accertamento "in ordine al discrimen tra residuo e rifiuto" e che anche terzi estranei avrebbero potuto trasportare sul posto parte del materiale.

Con un secondo motivo di ricorso deduceva la eccessività della pena e la errata applicazione dell’art. 133 c.p., lamentando anche la mancata concessione delle attenuanti generiche.

Insisteva, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile perchè basato su motivi manifestamente infondati.

Va preliminarmente osservato che la decisione impugnata ha correttamente qualificato i materiali oggetto di accertamento come rifiuti secondo principi ormai consolidati, mentre il ricorrente propone una inaccettabile valutazione soggettiva della natura dei materiali rinvenuti sul terreno da lui detenuto in locazione poichè, come ormai dovrebbe essere noto, è rifiuto non ciò che non è più di nessuna utilità per il detentore in base ad una sua personale scelta ma, piuttosto, ciò che è qualificabile come tale sulla scorta di dati obiettivi che definiscano la condotta del detentore o un obbligo al quale lo stesso è comunque tenuto.

Tali dati obiettivi erano nella disponibilità dei giudici di merito e dagli stessi sono stati opportunamente valorizzati.

Si è infatti posto in evidenza lo stato in cui versavano le cose rinvenute sul terreno nella disponibilità del ricorrente, che ne evidenziava il degrado, l’esposizione agli agenti atmosferici e la mancanza di qualsivoglia accorgimento per impedire dispersione di agenti inquinanti. La Corte territoriale ha altresì rilevato la natura eterogenea dei materiali medesimi e la permanenza in loco da lungo tempo evidenziata dalla presenza di vegetazione spontanea.

Tutti questi elementi appaiono più che sufficienti per dimostrare la natura di rifiuto delle cose rinvenute e la condizione di abbandono o di deposito incontrollato che consentivano di ricondurre la condotta accertata nella fattispecie di reato contestata.

Altrettanto correttamente la Corte territoriale ha escluso la possibilità che la condotta posta in essere dal ricorrente potesse diversamente qualificarsi come finalizzata alla realizzazione di un deposito temporaneo, richiamando puntualmente i requisiti richiesti dalla vigente normativa del tutto inesistenti nella fattispecie.

Va peraltro osservato che l’onere di dimostrare l’effettiva sussistenza di tutte le condizioni per l’applicazione di un diverso regime gestionale in condizioni di favore quale, appunto, quello del deposito temporaneo, incombe comunque su colui che l’invoca.

Il quadro probatorio acquisito nel giudizio di merito, inoltre, non era suscettibile di alcuna valutazione alternativa atta a suffragare la veridicità della tesi difensiva, che resta una mera affermazione priva di riscontri, non avendo in alcun modo il ricorrente offerto all’attenzione dei giudici alcun dato obiettivo che dimostrasse l’effettivo riutilizzo dei materiali o quantomeno l’intenzione di procedervi.

La decisione impugnata appare poi immune da censure anche con riferimento alla quantificazione della pena ed alla mancata concessione delle attenuanti generiche.

A tale proposito occorre ricordare che per il corretto esercizio del potere discrezionale di determinazione della pena e dei criteri di valutazione fissati dall’art. 133 c.p., non è richiesto al giudice di procedere ad una analitica valutazione di ogni singolo elemento esaminato, ben potendo assolvere adeguatamente all’obbligo di motivazione limitandosi anche ad indicarne solo alcuni o quello ritenuto prevalente (v. Sez. 2^ n. 12749, 26 marzo 2008).

La concessione delle attenuanti generiche presuppone, invece, la sussistenza di positivi elementi di giudizio e non costituisce un diritto conseguente alla mancanza di elementi negativi connotanti la personalità del reo, cosicchè deve ritenersi legittimo il diniego operato dal giudice in assenza di dati positivi di valutazione (Sez. 1^ n. 3529, 2 novembre 1993; Sez. 6^ n. 6724, 3 maggio 1989; Sez. 6^ n. 10690, 15 novembre 1985; Sez. 1^ n. 4200, 7 maggio 1985).

Alla luce di tali principi, che il Collegio condivide, deve osservarsi che la Corte d’Appello ha posto in evidenza la gravità della condotta, protrattasi per un lungo periodo di tempo, quale dato giustificativo della congruità della pena ed ha specificato che la negazione delle attenuanti generiche era conseguenza non solo dei precedenti penali gravanti sul ricorrente, ma anche per la condotta susseguente al reato e concretatasi nel non aver approntato, come dimostrato dalla corrispondenza con l’amministrazione provinciale, un adeguato programma di bonifica o messa in sicurezza del sito.

Tali argomentazioni risultano del tutto sufficienti a giustificare il corretto esercizio del potere discrezionale di determinazione della pena e dei criteri di valutazione fissati dall’art. 133 c.p., nonchè una condivisibile lettura dell’art. 62 bis c.p..

Il ricorso, conseguentemente, va dichiarato inammissibile e, a norma dell’art. 616 c.p.p., alla declaratoria di inammissibilità – non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186) – consegue l’onere delle spese del procedimento, nonchè quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti, di Euro 1000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende, oltre alla rifusione delle spese in favore della parte civile costituita che liquida in complessivi Euro 2.000,00 oltre ad accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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