Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 20-05-2011) 28-07-2011, n. 30132

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La Corte di Appello di Lecce, con sentenza del 10 giugno 2010, ha confermato la sentenza del Tribunale di Brindisi del 4 febbraio 2008, nei confronti di P.C. amministratore unico della Fenice s.r.l., dichiarata fallita il (OMISSIS), che è stato condannato per bancarotta fraudolenta per distrazione e documentale.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del proprio difensore, il quale lamenta:

a) una violazione di legge in ordine all’accertamento della penale responsabilità;

b) la mancanza dell’elemento soggettivo dei reati ascritti.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è inammissibile.

2. I due motivi del ricorso, infatti, sia pur intitolati in maniera diversa in realtà propongono una generica contestazione sull’affermazione della penale responsabilità dell’imputato e ripropongono doglianze già affrontate e correttamente esaminate dai Giudici del merito.

Tale precisazione non sposta, però, minimamente i termini della questione avendo la Corte territoriale ben motivato sia sulla non necessità del dolo specifico per integrare gli estremi soggettivi degli ascritti delitti di bancarotta fraudolenta che sulla esistenza delle condotte idonee a integrare sia la bancarotta per distrazione che quella documentale.

3. E’, ormai, giurisprudenza del tutto maggioritaria quella che afferma il principio secondo il quale per la integrazione del reato di cui alla seconda ipotesi del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 216, comma 1, n. 2, ravvisabile nella condotta dell’aver tenuto i libri e le altre scritture contabili in modo tale da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio della società o del movimento degli affari, sia sufficiente il dolo generico, ossia la consapevolezza che la confusa tenuta della contabilità renderà o potrà rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio, considerato che la locuzione "in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari", formulata appunto in relazione alla fattispecie della irregolare tenuta delle scritture contabili, connoti la condotta e non la volontà dell’agente, sicchè è da escludere che configuri il dolo specifico, (v. Cass. Sez. 5^ 13 giugno 2007, n. 34933 e da ultimo, Sez. 5^ 25 marzo 2010 n. 21872).

In definitiva, occorre l’intenzione di impedire la mera conoscenza relativa al patrimonio o al movimento degli affari ma non occorre, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, l’intenzione di recare pregiudizio ai creditori e nemmeno la rappresentazione di questo pregiudizio.

4. Essendo provate le distrazioni, ai fini della sussistenza del reato contestato non ha, poi, alcun rilievo la mancanza del nesso causale con il pregiudizio ai creditori, in quanto i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in qualunque tempo essi siano stati commessi, e quindi anche se la condotta si sia realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza o nella prospettata ipotesi di "imprudenza gestionale dettata dalla necessità cogente di far fronte a situazioni debitorie createsi a seguito del cambiamento dell’oggetto sociale dell’impresa" (per usare le medesime parole del ricorrente), non richiedendo le legge un nesso causale o psichico tra la condotta dell’autore e il dissesto dell’impresa, e, quindi il pregiudizio dei creditori, previsto soltanto per l’ipotesi di cui alla L. Fall., art. 223, comma 2 (v.

Cass. Sez. 5^ 15 luglio 2008, n. 39546 e da ultimo Sez. 5^ 14 gennaio 2010 n. 11899).

Ne discende che, ai fini dell’elemento soggettivo, non è, neanche in tale fattispecie, necessario il dolo specifico, e cioè la consapevolezza di portare al dissesto la società, ma è sufficiente il dolo generico, consistente nella consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte.

5. Il ricorso deve, in conclusione, essere dichiarato inammissibile con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma di denaro in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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