Cons. Stato Sez. VI, Sent., 24-08-2011, n. 4800 Esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con la sentenza appellata, il TAR del Lazio – Sede di Roma – ha parzialmente accolto il ricorso con il quale era stato chiesto dalla società appellante l’annullamento del provvedimento adottato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato in data in data 6 agosto 2009, con la quale le era stata comminata una duplice sanzione pecuniaria, pari a Euro 160.000,00 più Euro 165.000,00 per pratiche commerciali scorrette.

Più in particolare, nella delibera l’ Autorità aveva affermato che la pratica commerciale descritta al punto II, numero 1), posta in essere dalla società I. S. S.p.A., costituiva una pratica commerciale scorretta ai sensi degli artt. 20, 21 e 23, co. 1, lett. t), del d.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, e ne aveva vietato l’ulteriore diffusione, irrogandole una sanzione amministrativa pecuniaria pari ad Euro 160.000 (centosessantamila/00), e che la pratica commerciale descritta al punto II, numero 2), parimenti posta in essere dalla medesima società, costituiva una pratica commerciale scorretta ai sensi degli artt. 20, 24, 25, co. 1, lett. d), e 26, co. 1, lett. d), del d.Lgs 6 settembre 2005, n. 206, e ne aveva vietato l’ulteriore diffusione, irrogandole una sanzione amministrativa pecuniaria pari a Euro 165.000 (centosessantacinquemila/00).

La società I. S. ha proposto appello, prospettando i vizi di violazione di legge ed eccesso di potere e chiedendo l’annullamento della impugnata deliberazione.

Essa aveva in primo luogo rammentato (lamentando la violazione dell’art.27, co. 7, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206) che con la comunicazione in data 15 giugno 2009 di rigetto della proposta di impegni l’Autorità avrebbe considerato unitariamente la condotta contestata.

Tale impostazione era stata contraddetta dal provvedimento sanzionatorio, laddove venivano descritte due distinte pratiche commerciali scorrette, dotate di propria autonomia e, come tali, autonomamente sanzionate.

La delibera di rigetto degli impegni era di conseguenza illegittima, perché nessuna delle due distinte fattispecie presentava, singolarmente considerata, i caratteri congiunti della manifesta scorrettezza e gravità.

Del pari era viziata la susseguente delibera contenente la comminatoria di due distinte sanzioni, in quanto presupponente una duplicità di pratiche commerciali scorrette in origine invece esclusa dalla prima determinazione di rigetto degli impegni proposti.

La società ha poi proposto doglianze avverso i capi del provvedimento impugnato che avevano contestato le distinte fattispecie di condotta anticoncorrenziale.

Il TAR ha esaminato le censure ed ha in primo luogo respinto quella fondata sull’asserita contraddizione tra il provvedimento assunto nell’adunanza del 4 giugno 2009 con cui l’Autorità aveva deliberato di non accogliere gli impegni presentati dalla I. S. S.p.a. ed il successivo provvedimento di irrogazione della sanzione.

Il TAR ha evidenziato che la motivazione reiettiva degli impegni si basava nella considerazione che ci si trovava al cospetto di " condotte che, ove accertate, potrebbero integrare fattispecie di pratiche commerciali manifestamente scorrette e gravi, per le quali l’articolo 27, comma 7, del d.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, non poteva trovare applicazione".

Specificati i profili di offensività e di gravità caratterizzanti le condotte contestate, l’AGCM, pertanto, aveva ritenuto sussistere l’interesse a procedere all’accertamento dell’eventuale infrazione: a prescindere dalle espressioni in concreto utilizzate ("elevato grado di offensività" e "manifesta scorrettezza" per la prima condotta e "particolare gravità" per la seconda condotta): risultava evidente che l’Autorità aveva fatto riferimento a due distinte condotte e che in relazione ad entrambe ha manifestato l’interesse a procedere all’accertamento dell’eventuale infrazione.

Nessuna contraddizione era rilevabile con riferimento alla duplicità di contestazioni cristallizzata nel provvedimento sanzionatorio: la percezione della gravità dell’infrazione costituiva parametro inibitorio dell’accettazione degli impegni.

Il primo giudice ha poi preso in esame le due pratiche commerciali scorrette poste a base della delibera sanzionatoria.

Quanto alla prima, ha rammentato che essa si basava sul "consiglio" indirizzato ai consumatori di rivolgersi ad un notaio a proprie spese per ottenere la cancellazione dell’ipoteca, piuttosto che attivare, ai medesimi fini, la procedura semplificata delineata dall’art. 13, co. 8 da 8 sexies a 8 quaterdecies del d.l. 31 gennaio 2007 n. 7, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 aprile 2007, n. 40.

Quanto alla seconda, essa si basava sull’adozione di comportamenti dilatori con riferimento alle richieste dei clienti di cancellazione dell’ipoteca ovvero nella sistematica omissione di fornire risposta alla corrispondenza a tal fine inoltrata dai consumatori.

In riferimento alla prima condotta, il TAR ne ha escluso la scorrettezza, alla stregua del rilievo per cui la nota della Direzione Servizi Operativi, Ufficio Back Office di Roma, di I. S. del 26 marzo 2008 (con cui la banca aveva fatto presente che, "fermo restando il diritto da parte Sua a chiedere la restrizione ipotecaria con la Legge Bersani", che "è consigliabile richiedere l’intervento del Notaio nominato da Lei ed a Sue spese. Infatti le necessità temporali da Lei indicate nella lettera, non consentono di evadere con ragionevole certezza la Sua richiesta considerando che le norme d’attuazione della predetta Legge non sono ancora operative") era stata trasmessa in riscontro ad una specifica richiesta formulata da clienti in relazione ad una particolare fattispecie.

Non sussisteva prova alcuna che analoghe comunicazioni fossero state altrimenti trasmesse.

Ne discendeva che la predetta comunicazione, in quanto unica, non poteva ragionevolmente essere considerata come contenente indicazioni aventi valenza di carattere generale sulla prassi adottata in merito dal professionista.

E’ stato pertanto annullato il provvedimento impugnato, nella parte in cui era stata irrogata la sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 160.000.

Il TAR ha di seguito preso in esame le doglianze attingenti il capo della delibera che aveva considerato scorretta la seconda pratica commerciale contestata.

Esso ha in primo luogo escluso la fondatezza delle doglianze infraprocedimentali contestate, sul rilievo che nella comunicazione di avvio del procedimento del 13 febbraio 2009 era stato sufficientemente specificato l’oggetto del procedimento, con l’espresso riferimento all’adozione di comportamenti dilatori relativamente alle richieste dei clienti di cancellazione dell’ipoteca ovvero delle richieste, a tal fine, di adempimenti non giustificati a carico del consumatore.

Se ne desumeva che in detta comunicazione erano stati quindi indicati gli elementi essenziali per consentire un efficace e completo contraddittorio e per un pieno esercizio del diritto di difesa né essa avrebbe dovuto necessariamente avere un maggiore grado di dettaglio in quanto l’analiticità delle argomentazioni riguardava la fase conclusiva del procedimento).

In parziale accoglimento del ricorso, il primo giudice ha di seguito rilevato che il comportamento contestato non poteva dare luogo alla violazione dell’art. 26, co. 1, lett. d), del d.Lgs. 6 settembre 2005 n.206 (tipizzante una fattispecie di pratica commerciale aggressiva, con specifico rifermento ai diritti dei consumatori relativi a polizze di assicurazione), precisando però che l’accoglimento della doglianza doveva ritenersi sostanzialmente irrilevante in quanto non determinava il venire meno della illiceità della condotta in relazione alle altre disposizioni contestate.

Nel merito, il TAR ha rammentato che ai sensi dell’art. 19 del d.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, era ammissibile che una pratica commerciale scorretta potesse essere realizzata anche dopo un’operazione commerciale relativa ad un prodotto.

La disposizione di cui al d.l. 31 gennaio 2007, n. 7, costituiva una fonte eteronoma di integrazione dei contratti di mutuo immobiliare, introducendo un’obbligazione accessoria a carico del soggetto mutuante, da adempiere una volta che il mutuatario avesse estinto l’obbligazione principale.

Detta obbligazione accessoria a carico del soggetto mutuante implicava che questi nell’ambito della propria organizzazione aziendale avrebbe dovuto prevedere un sistema di monitoraggio idoneo a consentire il puntuale adempimento del dettato legislativo; il beneficio economico derivante all’impresa dalla condotta scorretta era conseguentemente ravvisabile nel non sopportare i costi derivanti dalla dotazione del predetto sistema (o nel procrastinare gli stessi).

La condotta del soggetto mutuante che differiva gli adempimenti di cui alla norma di legge citata (attraverso i quali veniva resa riconoscibile ai terzi l’avvenuta cancellazione dell’ipoteca – c.d. pubblicità notizia) costituiva pertanto un elemento di disturbo nella corretta circolazione dei beni immobili.

In tal senso, la medesima condotta era altresì idonea a falsare in modo apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio, il quale poteva essere indotto a preferire un soggetto erogante un mutuo piuttosto che un altro anche sulla base dell’affidabilità nel tempestivo adempimento delle obbligazioni accessorie al contratto.

Il primo giudice, valutati i dati contabili raccolti in fase istruttoria, e distinti gli stessi secondo un criterio temporale avente quale discrimen l’entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge n. 31 gennaio 2007, n. 7, ha ritenuto non sufficiente ad escludere l’ascrizione di una diretta ed autonoma responsabilità al professionista la considerazione che gli adempimenti previsti dalla legge ponessero consistenti difficoltà applicative o talune complessità interpretative.

Il dovere di diligenza avrebbe richiesto lo sviluppo da parte del professionista di un sistema operativo idoneo sin da subito a consentire il tempestivo adempimento dell’obbligo accessorio ex lege (in presenza del quale la responsabilità dell’inadempimento avrebbe potuto essere esclusa, o almeno mitigata, costituendo comprova della circostanza che l’operatore economico si era diligentemente attivato).

In ultimo, il Tribunale amministrativo ha escluso la fondatezza della doglianza di incompetenza dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ad adottare i provvedimenti impugnati, affermando il convincimento per cui la sua competenza coesisteva con la competenza dell’Autorità di vigilanza preposta allo specifico settore dei servizi bancari e finanziari (la Banca d’Italia), in ragione della differente finalità delle funzioni svolte dai due Istituti.

Il TAR ha conseguentemente accolto l’impugnativa proposta avverso la seconda pratica commerciale scorretta, nella sola parte in cui la lett. b) della delibera impugnata indicava anche l’art. 26, co. 1, lett. d), del d.Lgs. 6 settembre 2005 n.206, respingendo per il resto le proposte doglianze e confermando la sanzione applicata con riferimento a tale fattispecie.

L’originaria ricorrente di primo grado – rimasta parzialmente soccombente – ha censurato la sentenza, chiedendone la riforma in quanto viziata da errori di diritto.

La società ha all’uopo riproposto tutti i motivi di censura contenuti nel ricorso di primo grado ed ha chiesto altresì la declaratoria di nullità dell’appellata sentenza per omessa motivazione in quanto quest’ultima si era limitata a recepire acriticamente il quadro probatorio versato in atti.

La società ha preliminarmente rammentato la innovatività della procedura semplificata delineata dall’art. 13, co. 8 da 8 sexies a 8 quaterdecies del d.l. 31 gennaio 2007, n. 7, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 aprile 2007, n. 40, ed ha fatto presente che l’istituto bancario appellante (che in quel momento storico viveva una delicata fase interna) aveva incontrato non poche difficoltà per adeguare tempestivamente la propria struttura alle suddette disposizioni innovative ed al carico di lavoro da esse discendente (circa 160.000 pratiche di cancellazione semplificata di ipoteche).

Il procedimento era stato avviato sulla scorta (unicamente) di tre segnalazioni di clienti; sia in sede endoprocedimentale che, successivamente, nel sub procedimento valutativo degli impegni proposti ai sensi dell’art. 27 comma 7 del d.Lgs. 6 settembre 2005 n.206, l’appellante aveva rappresentato e chiarito che nessun intento dilatorio o decettivo era ravvisabile nel proprio comportamento.

La reiezione degli impegni presentati avrebbe presupposto il positivo riscontro dei due elementi negativi della "manifesta scorrettezza e gravità".

Nel caso di specie, con riferimento alle contestate condotte dilatorie asseritamente poste in essere dall’appellante, non erano stati individuati profili di manifesta scorrettezza, di guisa che l’Autorità non avrebbe potuto rigettare gli impegni proposti.

Sotto altro profilo, era riscontrabile il vizio relativo alla violazione del diritto di difesa (sub species della violazione del principio del contraddittorio), posto che la "condotta dilatoria" contestata riguardava condotte commissive mentre, successivamente, la contestazione venne modificata nella "omessa tempestiva risposta alla corrispondenza dei clienti".

Il mero ritardo nel rispondere ai clienti non poteva costituire pratica commerciale scorretta già sotto il profilo astratto: nel caso concreto non lo era certamente a cagione dell’imponente opera di riorganizzazione interna avviata per fare fronte agli incombenti imposto dalla sopravvenuta normativa in materia di cancellazione semplificata delle ipoteche.

Le disposizioni di cui al d.Lgs n. 206/2005 non potevano trovare applicazione, perché il mutuo erogato in passato non poteva integrare il concetto di "prodotto" previsto ex lege: sotto altro profilo, i (non contestati) ritardi accumulati dall’appellante nell’evadere le richieste dei clienti erano nocivi per la stessa impresa bancaria, cui i clienti insoddisfatti non si sarebbero successivamente rivolti: l’appellante non aveva alcun interesse a tenere intenzionalmente una condotta dilatoria (né il profilo del "risparmio dei costi" poteva giustificare una simile opzione comportamentale auto lesiva).

L’appellante si era addirittura dotata di una struttura esterna di "service" gestita da una impresa specializzata sopportando un costo pari a 9 milioni di euro (oltre ai costi derivanti dalla ristrutturazione interna con la predisposizione di uffici dedicati esclusivamente a tali compiti).

Neppure era stato dimostrato in che modo la condotta del consumatore fosse stata falsata.

Del pari la società ha riproposto la doglianza incentrata sulla incompetenza dell’appellata Autorità garante della concorrenza e del mercato ad irrogare sanzioni per condotte esclusivamente rientranti nell’esercizio dell’attività bancaria.

Con memorie datate 17 giugno 2011 e 5 luglio 2011, l’appellante istituto bancario ha puntualizzato e ribadito le proprie doglianze, facendo presente che non era ravvisabile alcuna pratica commerciale scorretta, né alcuna pratica aggressiva ai sensi dell’art. 25 co.I lett. D) del d.Lgs 206/2005. L’appellante non versava in dolo, né aveva posto in essere condotte gravemente negligenti come sostenuto dall’appellata Autorità.

L’appellata amministrazione si è costituita in giudizio, depositando una articolata memoria e chiedendo la reiezione del gravame perché infondato: la pratica commerciale e pubblicitaria posta in essere era certamente scorretta ed in grado di falsare le scelte consumeristiche.

Alla pubblica udienza del 5 luglio 2011 la causa è stata posta in decisione.

Motivi della decisione

1. L’appello è infondato e deve essere respinto, con conseguente integrale conferma della impugnata sentenza.

2. Premesso che non è stato appellato dall’Autorità il capo della gravata sentenza che ha annullato parzialmente il provvedimento impugnato in primo grado con riferimento alla condotta contestata al capo I (sul consiglio rivolto ai consumatori di rivolgersi ad un notaio a proprie spese per ottenere la cancellazione dell’ipoteca piuttosto che attivare, ai medesimi fini, la procedura semplificata), l’unico elemento da approfondire riguarda la determinazione della Autorità di sanzionare la società, con riferimento al secondo capo del provvedimento impugnato in primo grado.

2.1. La prima censura da esaminare in ordine logico è quella di incompetenza, formulata nel quarto ed ultimo motivo di doglianza: ivi si sostiene che l’Agcm sarebbe incompetente, in quanto la normativa che regola la fattispecie è quella di cui al d.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, con conseguente competenza della Banca d’Italia a sanzionare l’eventuale condotta illecita perpetrata dall’Istituto bancario appellante.

Si deduce in proposito che l’appellante ha motivato la propria tesi facendo richiamo al contenuto del parere della I Sezione del Consiglio di Stato n. 3999/2008.

2.2. Ritiene la Sezione che la censura così riassunta vada respinta, posto che non è riscontrabile la denunciata oggettiva incompatibilità della normativa sostanziale di cui d.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, rispetto a quella in materia di servizi bancari e neppure la sovrapponibilità degli interessi sostanziali sottesi alle disposizioni in materia di pratiche commerciali scorrette rispetto a quelli protetti dalla normativa speciale invocata ed affidati alla tutela della Banca d’Italia.

E’ questo, ad avviso del Collegio, la considerazione posta a base del sopra richiamato parere della I Sezione del Consiglio di Stato n. 3999/2008 (che ha chiarito i rapporti intercorrenti tra il c.d. "Codice del consumo" ed il d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni "Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria", TUF), richiamato dall’appellante Istituto bancario a supporto della dedotta censura di incompetenza, soprattutto laddove ivi si fa riferimento al principio di specialità e si lumeggia la circostanza che la Consob agisce per la tutela degli investitori e della efficienza, trasparenza e sviluppo del mercato mobiliare.

Perciò il beneficiario tipico ne è l’"investitore" e che quest’ultimo "si presenta, conformemente alla tendenza del diritto comunitario, in sostanza come una specie del genere consumatore, in quanto destinatario finale di un prodotto standardizzato seppur finanziario: un consumatore di servizi finanziari."

Le invocate disposizioni del d.Lgs 1° settembre 1993, n. 385, non perseguono direttamente la tutela del consumatore; non integrano una previsione normativa esclusiva e tale da costituire autonoma ed autosufficiente determinazione delle forme di illecito in danno del consumatore; esse tendono a tutelare un diverso interesse giuridico, che seppur può talvolta coincidere con la tutela del consumatore se ne discosta soggettivamente ed oggettivamente, posto che è indubitabile che le norme contenute nel citato Testo Unico perseguano in prima battuta il fine (principio cardine della vigilanza bancaria esplicitato dall’art. 5, d.lg. n. 385 del 1993) della sana e prudente gestione dei soggetti vigilati, dalla stabilità complessiva del sistema finanziario, dall’osservanza delle disposizioni in materia creditizia).

Del resto, la dedotta "sovrapponibilità normativa" che costituirebbe il presupposto dell’applicabilità del principio di specialità e, quindi, della lamentata incompetenza dell’Agcm è stata oggettivamente esclusa anche dalla giurisprudenza della Cassazione civile (Sez. I, 6 giugno 2007, n. 18743, in materia di prestito al consumo), per la quale, se non vi è dubbio sul fatto che le condizioni di esercizio del prestito al consumo possano trovare fonte regolatrice nelle previsioni di cui al D.Lgs. n. 385 del 1993, e D.Lgs. n. 58 del 1998, (con le modifiche apportate dal D.Lgs. n. 37 del 2004) altrettanto indubbio è che il contraente del prestito al consumo, in quanto consumatore, sia fatto segno alla tutela nel momento della contrattazione apprestata in via generale (ma anche e con significativo riguardo al contraente dei servizi finanziari) dal capo 14^ bis c.c., introdotto dalla L. n. 52 del 1996, e dalle norme successivamente approvate (alle prime sostituite per effetto del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 142).

Conclusivamente, la doglianza è priva di fondamento.

3. Proseguendo nella verifica della fondatezza delle censure proposte avverso la statuizione confermativa del primo giudice, appare opportuno muovere dalla disamina delle doglianze di natura infraprocedimentale in quanto postulanti la radicale illegittimità dell’azione amministrativa spiegata).

Le censure così riassunte sono infondate.

3.1. La prima di esse è incentrata sul comma 7 dell’art. 27 del d.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 ("Ad eccezione dei casi di manifesta scorrettezza e gravità della pratica commerciale, l’Autorità può ottenere dal professionista responsabile l’assunzione dell’impegno di porre fine all’infrazione, cessando la diffusione della stessa o modificandola in modo da eliminare i profili di illegittimità. L’Autorità può disporre la pubblicazione della dichiarazione dell’impegno in questione a cura e spese del professionista. In tali ipotesi, l’Autorità, valutata l’idoneità di tali impegni, può renderli obbligatori per il professionista e definire il procedimento senza procedere all’accertamento dell’infrazione")

Essa si fonda sull’affermazione per cui le condotte poste in essere dall’appellante non erano né gravi né manifestamente scorrette, di guisa che l’Autorità non avrebbe potuto esimersi dall’accettare gli impegni proposti.

Ulteriore articolazione della censura è quella per cui soltanto attraverso la indebita commistione dei due profili di accertamento trasfusi nel procedimento ed a cagione della "unificazione" di due distinte fattispecie poi separate al momento della conclusione del procedimento si era potuti pervenire a tale giudizio di gravità: ove essi fossero stati tenuti distinti (come era necessario, in quanto sprovvisti di profili di connessione) ugualmente l’Autorità avrebbe dovuto accettare gli impegni proposti e chiudere l’istruttoria.

3.1.1. Le doglianze sono inaccoglibili sotto ogni angolo prospettico.

Nel premettere che la pratica censurata, complessivamente considerata, aveva lo stesso oggetto in quanto, secondo l’ipotesi di accusa, diretta ad impedire (ovvero a rendere maggiormente disagevole ai consumatori) che ci si avvalesse delle medesime innovative disposizioni di legge (generali, in materia di portabilità dei mutui, e particolari, in materia di procedura semplificata di cancellazione delle ipoteche accese sugli immobili a garanzia delle somme mutuate, a seguito della estinzione del rapporto ad esse sotteso), rileva il Collegio che la critica dell’appellante, non tiene adeguatamente conto di due piani che, anche temporalmente, devono essere tenuti ben distinti.

Il piano della verifica istruttoria, infatti, precede logicamente e temporalmente quello relativo all’avvenuto positivo riscontro della fattispecie e della irrogazione della sanzione.

La presentazione degli impegni avviene nella prima, embrionale, fase del procedimento.

Laddove l’Autorità (come avvenuto nel caso di specie) abbia ritenuto a conclusione della fase istruttoria fondata l’originaria ipotesi di accusa, è certamente sindacabile, in via di principio, la deliberazione contraria all’accettazione degli impegni proposti.

Il parametro valutativo, tuttavia, non può essere svolto avendo riferimento alla conclusione del procedimento (o, addirittura, all’ esito delle impugnazioni giurisdizionali proposte), ma deve essere contestualizzato secondo il criterio della c.d. "prognosi postuma".

Esso, cioè, deve tenere conto dei dati in possesso dall’Autorità al momento in cui furono presentati gli impegni e del progredire dell’istruttoria che era lecito aspettarsi al momento in cui la proposta fu avanzata e respinta.

Se non può ignorarsi che la ratio della disposizione citata è quella deflattiva volta a "risparmiare energie amministrative", neppure può essere svalutata la circostanza che all’accoglimento dell’impegno consegue la chiusura dell’istruttoria e la impossibilità di irrogare una sanzione, ed obliare che tale aspetto costituisca un incentivo per i professionisti sottoposti ad istruttoria che assume ex se portata indirettamente "premiale".

La premialità indiretta della norma può essere tanto più evidente in relazione allo stato ed al progresso compiuto dall’istruttoria, posto che, laddove più delineato e pregno di supporto probatorio si presenti il quadro d’accusa formato, maggiore sarà la incentivazione per le imprese a ricorrere all’istituto,mentre, a fronte di un compendio più labile, all’evidenza, la scelta potrebbe essere recessiva.

Ne consegue che due sono gli aspetti che devono essere valutati al fine di verificare se potesse considerare illegittima la opzione seguita dall’ Autorità di non accettare gli impegni: gravità e scorrettezza della condotta, ed idoneità dell’impegno proposto a rimuovere la illegittimità.

E che, soprattutto, detta valutazione va fatta avendo presente il quadro probatorio acquisito al momento in cui pervenne la richiesta di accettazione degli impegni.

Orbene, a parte l’assenza di specifiche deduzioni sulla idoneità dell’impegno assunto a scongiurare le conseguenze della illegittimità rimuovendone gli effetti, non è possibile ad avviso del Collegio trarre conseguenze negative dal richiamo dell’Autorità ad uno soltanto dei parametri reiettivi di natura oggettiva (gravità della condotta) per inferirsene che non si era in presenza di un giudizio di manifesta scorrettezza tale da legittimare la statuizione reiettiva.

Traspare, al contrario, dal provvedimento impugnato in primo grado che – unitamente ai profili di gravità della condotta, anche in relazione alla dimensione del professionista -l’Autorità ha tenuto in massima considerazione, e sin dall’inizio del procedimento, il profilo della "scorrettezza", tanto che il predetto termine e la corrispondente aggettivazione ricorrono numerose volte (ben più di dieci) nel corpo del provvedimento predetto.

Nessuna carenza di motivazione, e nessuna insufficienza di giudizio è pertanto riscontrabile nel provvedimento impugnato.

3.1.2. Al contempo, la censura avversante la valutazione (unitaria) iniziale della pratica, e la successiva "scissione" della medesima in due separate condotte, non appare utile alla tesi difensiva, in relazione alla circostanza che ciascuna delle due condotte fu ex ante percepita, oltre che in termini di scorrettezza, in termini di rilevante gravità, da parte dell’Autorità: la circostanza che, con la impugnata sentenza in parte qua regiudicata, sia stata ex post esclusa la sanzionabilità – in quanto episodica – della prima condotta non vale ad escludere la fondatezza e condivisibilità del giudizio formulato dall’amministrazione, ad istruttoria aperta, in ordine alla impossibilità ad accettare gli impegni.

Per concludere sul punto, le censure basate sulla relazione di inferenza tra la omessa accettazione degli impegni e la conclusione dell’istruttoria vanno disattese.

3.2. Va anche respinta la censura volta a postulare una lesione del contraddittorio in relazione alla asserita discrasia tra la fattispecie descritta nella contestazione degli addebiti e quella contenuta nel provvedimento finale.

Il concreto dipanarsi del procedimento ha consentito alla società coinvolta di articolare pienamente le proprie difese; non esiste un principio generale in base al quale la concreta modulazione delle garanzie difensive -comunque da assicurare in fase infraprocedimentale- debba strutturarsi attraverso la immediata formulazione della ipotesi "d’accusa", nè attraverso la integrale ostensione delle fonti di prova a carico (circostanza quest’ultima comunque avvenuta).

La qualificazione giuridica della condotta ascritta ad un soggetto giuridico del quale si postula il coinvolgimento in un illecito -anzi- può risentire della iniziale fluidità della impostazione accusatoria, per poi compiutamente definirsi con l’atto finale (che non a caso tiene conto delle precisazioni e delle eventuali discolpe fornite dalla impresa medesima).

Tale evenienza è proprio quella verificatasi nel caso in esame laddove il riferimento all’illecito perpetrato avrebbe semmai subito una riduzione nel corso del procedimento.

Sostiene la difesa che per "comportamento dilatorio" (contestato ab initio) dovesse necessariamente intendersi una condotta attiva e che il mero "ritardo nel rispondere ai consumatori" (oltre a non potere costituire pratica scorretta, secondo l’impostazione seguita con il terzo motivo di censura) integri mera condotta omissiva mai contestata in precedenza.

Osserva in contrario il Collegio che, per il vero, sotto il profilo semantico dilatorietà implica ritardo, omesso rispetto dei termini, e tale "condotta" può pacificamente essere realizzata anche semplicemente restando inerti e non fornendo alcuna collaborazione alla controparte (si veda, sul punto, la copiosa giurisprudenza civilistica in tema di mora accipiendi).

Nel caso di specie, sin dalla fase iniziale della procedura sanzionatoria, l’Autorità si diede carico di precisare quale fosse l’ elemento materiale della condotta e per quali motivi la condotta ascritta in esame apparisse violare le regole di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206.

Tale modus procedendi risulta legittimo (Cassazione civile, sez. un., 30 settembre 2009, n. 2093 in tema di sanzioni irrogate dalla Consob in materia di intermediazione finanziaria): ritiene il Collegio che nella fase di avvio debbano essere con precisione identificati unicamente i profili della pratica commerciale, oggetto dell’indagine al fine di mettere in grado l’operatore di poter proficuamente partecipare all’istruttoria e che ciò sia certamente avvenuto nel caso di specie, dal che discende che nessuna lesione al diritto di difesa ed ai principi del giusto procedimento sia ravvisabile.

4. Quanto agli ulteriori profili dedotti, ritiene innanzitutto opportuno il Collegio richiamare il nucleo centrale della contestazione rivolta all’appellante società dall’Autorità, all’uopo riportando un breve passaggio del provvedimento impugnato in primo grado, nel quale sono state indicate le emergenze documentali acquisite all’esito dello svolgimento dell’istruttoria.

In esso, in particolare, è dato riscontrare che "per quel che concerne le obbligazioni estinte prima dell’entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge n. 7/07 (per le quali il consumatore è tenuto a presentare richiesta di rilascio di quietanza attestante la data di estinzione dell’obbligazione con raccomandata a/r, data a partire dalla quale l’istituto di credito ha trenta giorni di tempo per procedere al rilascio della stessa quietanza e per trasmettere al conservatore la relativa comunicazione),risulta che le procedure informatiche della banca non sono in grado di rilevare la data di presentazione dell’istanza di cancellazione da parte del mutuatario. Al riguardo, il professionista ha evidenziato che la richiesta di cancellazione presentata dal cliente può pervenire a più strutture della banca, le quali provvedono a trasmetterla agli uffici di direzione centrale preposti alla lavorazione di cui si è detto. A questo punto la direzione centrale ne cura l’invio al service incaricato della verifica dei dati relativi all’ipoteca da cancellare. Di conseguenza è solo da tale data che è possibile stabilire se nei successivi trenta giorni sia stata rilasciata al cliente la quietanza attestante la data di estinzione dell’obbligazione e trasmessa al conservatore la relativa comunicazione. La Banca, pertanto, pur riconoscendo la giuridica doverosità del rispetto della tempistica dettata dal legislatore con riferimento agli adempimenti connessi alla procedura semplificata di cancellazione dell’ipoteca, non è in grado di monitorare l’iter di lavorazione delle pratiche in questione. Ne consegue una violazione potenzialmente generalizzata

dei tempi fissati dal legislatore per l’espletamento della pratica, tale da creare ostacoli e ritardi di carattere sproporzionato in caso di richiesta di rilascio di quietanza attestante la cancellazione del gravame. Peraltro, anche l’esame manuale dei documenti cartacei effettuato dalla banca in relazione ad un arco temporale ridotto non ha consentito di individuare la data effettiva di presentazione delle istanze di cancellazione da parte dei mutuatari e, tale circostanza, è stata motivata dal professionista "in considerazione della frequente mancata apposizione sulle lettere, da parte delle strutture riceventi, della data di ricevimento".

Parimenti, per le obbligazioni principali estinte dopo l’entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge n.7/07, la banca – su un totale di 106.128 posizioni estinte considerando sia i mutui ordinari che i mutui frazionati – ha rilasciato in 29.038 casi la quietanza attestante la data di estinzione dell’obbligazione e ha trasmesso in 29.059 casi la relativa comunicazione al conservatore entro trenta giorni.

Pertanto, in circa 77.000 casi la banca ha omesso di inviare le quietanze alla conservatoria per la cancellazione dell’ipoteca nei termini di legge.

Ciò posto, appare censurabile la condotta tenuta dal professionista che ha comportato una dilatazione dei tempi per il rilascio della quietanza al debitore e per la trasmissione al conservatore della relativa comunicazione o che è consistita nel mancato invio all’Agenzia del territorio della relativa comunicazione, con la conseguente impossibilità per il conservatore di procedere alla cancellazione dell’ipoteca (e per il consumatore di disporre dell’immobile libero da

gravame).".

Il vaglio in ordine alle dette censure di merito deve tenere conto della circostanza – senz’altro di per sé rilevante – che l’appellante Istituto bancario ha ammesso, sia in fase procedimentale, che in primo grado, e anche nel proprio ricorso in appello (pag. 21), la effettiva sussistenza di ritardi nell’adeguarsi alla sopravvenuta normativa in tema di procedura semplificata di cancellazione dell’ipoteca.

4.1. La critica contenuta nell’atto di appello si articola in due versanti.

In via radicale si prospetta la non ricorrenza (neppure sotto il profilo astratto) della violazione contestata per carenza dell’elemento oggettivo e strutturale.

Secondariamente, si invoca a titolo di esimente la situazione concreta in cui l’Istituto si venne a trovare e la oggettiva impossibilità di adeguarsi in tempi solleciti ai nuovi oneri imposti dalle sopracitate disposizioni.

4.2. Quanto al primo profilo, rileva il Collegio che l’art. 19, comma I, del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, stabilisce che costituiscono pratiche commerciali scorrette, assoggettate alle disposizioni del decreto legislativo, quelle intercorse"tra professionisti e consumatori poste in essere prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto."

La piana lettura della disposizione in oggetto presenta indici del tutto antitetici rispetto alla tesi sostenuta in proposito dall’appellante.

In particolare, appare evidente al Collegio che la disposizione ricomprenda anche le condotte attive o commissive legate ad una operazione commerciale, abbracciando quelle successive alla conclusione del negozio giuridico ("dopo una operazione commerciale relativa ad un prodotto"), purché a quest’ultimo finalisticamente riconducibili.

Se così è, essa ben può investire gli incombenti successivi all’esaurimento della fattispecie negoziale con riguardo alle prestazioni "tipiche" che individuano la natura del negozio ed a quelle che, seppur ad esso accessorie, si accompagnano necessariamente alla operazione commerciale conclusa.

La lettura dell’appellante muove da una scomposizione del rapporto intercorso con il consumatore, giunge ad escludere che il "prodotto" possa essere individuato nel mutuo in precedenza concesso e successivamente estinto, e considera tutti gli incombenti gravanti sulle parti e successivi alla risoluzione, distinti dalla fattispecie negoziale.

Posto che non si nega neppure da parte dell’appellante che la disciplina di cui dall’art. 13, co. 8, da 8 sexies a 8 quaterdecies del d.l. 31 gennaio 2007, n. 7, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 aprile 2007, n. 40 abbia eterointegrato quella pattizia sottesa al mutuo, dalla premessa contenuta nell’appello dovrebbe discendere sotto il profilo strettamente civilistico la inammissibile conseguenza per cui la condotta dell’istituto bancario dovrebbe essere considerata postfactum avulso dal rapporto negoziale.

La stessa appellante, però (si veda pag. 24 del ricorso in appello), inquadra la condotta quale eventuale fonte di responsabilità contrattuale, dal che discende la contraddizione dell’atto di appello e, conclusivamente, la riconducibilità delle condotte (o delle inerzie) in materia di cancellazione delle ipoteche al rapporto ad esse sotteso riposante nella concessione del mutuo.

D’altro canto la tesi difensiva appare collidere, oltre che con la ratio, anche con la lettera dell’art. 19 citato nella parte in cui, dopo avere fornito la indicazione omnicomprensiva di cui al comma I, essa stabilisce al comma successivo, chiaramente collegato al precedente, che "Il presente titolo non pregiudica:l’applicazione delle disposizioni normative in materia contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità od efficacia del contratto.".

La lettura combinata delle due disposizioni induce a ritenere pratica commerciale oggetto della disciplina di cui al codice del consumo qualsivoglia pratica finalisticamente legata ad un rapporto negoziale istaurando, già instaurato ed esaurito, ovvero in corso di esecuzione.

Nel caso di specie non può concordarsi con la tesi difensiva (pag. 27 del ricorso in appello) secondo cui "manca il prodotto, ossia una prestazione propria della banca da piazzare al cliente".

Il "prodotto" c’è, e consiste nel contratto di mutuo precedentemente stipulato.

Ad abundantiam si evidenzia che per la giurisprudenza (Cassazione civile, sez. II, 4 marzo 2003, n. 3185) la condotta consistente nella omessa cancellazione dell’ipoteca su un immobile è una fonte di responsabilità (extracontrattuale in quel caso) laddove posta in essere dal promittente venditore di un immobile che tale cancellazione si era obbligato a compiere, con clausola inserita nel preliminare, "entro il rogito definitivo" la buona fede nell’esecuzione del contratto si sostanzia, tra l’altro, in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del "neminem laedere", trovando tale impegno solidaristico il suo limite precipuo unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico.

Lo stretto legame tra l’estinzione del mutuo e la cancellazione dell’ipoteca già accesa giustifica a fortiori il giudizio di accessività di detta obbligazione al contratto di mutuo precedentemente stipulato.

4.2.1. Per altro verso, il risparmio di costi conseguente alla omessa tempestiva attivazione da parte dell’Istituto bancario di una struttura idonea a soddisfare il dettato legislativo (ed i conseguenti diritti spettanti ai consumatori) viene svalutato dall’appellante, che lo considera inidoneo a configurare il "vantaggio commerciale" necessario ad integrare la fattispecie. Al contempo, ad avviso dell’appellante ci si troverebbe in carenza di qualsivoglia "decisione commerciale" del consumatore suscettibile di essere alterata (ciò perché i mutui per i quali doveva attivarsi il procedimento di cancellazione semplificata dell’ipoteca erano già estinti)

Il Collegio non concorda con tali affermazioni.

Quanto alla seconda di esse, si deve osservare che il generalizzato e massificato ritardo a procedere alla cancellazione semplificata dell’ipoteca avrebbe potuto indurre i consumatori addirittura a non procedere alla trasposizione o alla estinzione del mutuo, nella considerazione dei defatiganti fastidi che ne sarebbero discesi e dell’ostacolo alla corretta circolazione del bene immobile che ne rischiava di discendere (ovvero,ad esempio, laddove essi avessero intrattenuto un altro rapporto di mutuo con un diverso Istituto bancario ad estinguere quel mutuo piuttosto che un altro, laddove fossero stati convinti che non ne sarebbero discesi problemi in fase esecutiva).

Quanto alla prima, in disparte la circostanza che detto vantaggio economico è in fondo ammesso dalla stessa appellante allorché da atto dei costi che la banca ha dovuto sopportare per smaltire le pratiche di cancellazione semplificata accumulatesi, la censura comporta la seguente precisazione.

Non è rispondente al vero che qualsivoglia inadempimento ad obbligazioni negoziali possa o debba sempre e comunque costituire pratica commerciale scorretta.

Il Codice del consumo non consente detta automatica commistione di profili: allorché però si sia in presenza di un preordinato e seriale venir meno agli obblighi negoziali contratti (ovvero anche in fase antecedente alla conclusione del contratto si prometta una prestazione che si sa essere impossibile da fornire), si è ben lungi dal trovarsi al cospetto di un singolo inadempimento, od inesatto adempimento reprimibile in via (esclusivamente) negoziale ai sensi degli artt. 1176, 1453 del codice civile, ma, ove sussista il pericolo di uno sviamento della scelta commerciale del consumatore la fattispecie integra pienamente (anche) quella della pratica commerciale scorretta.

Il caso di specie ne è dimostrazione paradigmatica, ad avviso del Collegio.

4.3. Con la ulteriore doglianza formulata alle pagg. 2729 del ricorso in appello, l’Istituto bancario critica la riscontrata sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito.

Secondo tale prospettazione, la negligenza idonea a violare il precetto di cui all’art. 18 del d.Lgs n. 206/2005 e sufficiente ad integrare la contestata violazione a titolo di colpa, deve intendersi limitata realizzazione oggettiva della fattispecie.

Essa sarebbe comunque inidonea ad integrare le contestate violazione ove non accompagnata da un elemento volitivo intenzionale (dolo diretto), finalizzato ad alterare le scelte consumeristiche.

La fonte di tale convincimento si rinviene nel considerando n. 7 della Direttiva CE dell’11 maggio 2005 n. 29 che costituisce il parametro comunitario di interpretazione del codice del consumo.("la presente direttiva riguarda le pratiche commerciali il cui intento diretto è quello di influenzare le decisioni di natura commerciale dei consumatori relative a prodotti. Non riguarda le pratiche commerciali realizzate principalmente per altri scopi, comprese ad esempio le comunicazioni commerciali rivolte agli investitori, come le relazioni annuali e le pubblicazioni promozionali delle aziende.

Non riguarda i requisiti giuridici inerenti al buon gusto e alla decenza che variano ampiamente tra gli Stati membri.

Le pratiche commerciali quali ad esempio le sollecitazioni commerciali per strada possono essere indesiderabili negli Stati membri per motivi culturali.

Gli Stati membri dovrebbero di conseguenza poter continuare a vietare le pratiche commerciali nei loro territori per ragioni di buon gusto e decenza conformemente alle normative comunitarie, anche se tali pratiche non limitano la libertà di scelta dei consumatori. In sede di applicazione della direttiva, in particolare delle clausole generali, è opportuno tenere ampiamente conto delle circostanze del singolo caso in questione).

4.3.1. Osserva in proposito il Collegio che la tesi sostenuta dall’appellante disposizione non è condivisibile.

Tale frazionamento dell’elemento soggettivo idoneo ad integrare la violazione non è affatto contenuto nel citato considerando, che si limita a perimetrare il campo oggettivo delle pratiche commerciali valutabili (escludendovi quelle relative alle comunicazioni agli investitori, etc, evidentemente adottate per meri fini informativi).

L’intento, ivi menzionato, si riferisce alla genesi della pratica, non già ad un elemento soggettivo intenzionale necessariamente preordinato a falsare le scelte del consumatore elemento, (quest’ultimo, che, non a caso, non si rinviene né nell’art. 5 della direttiva citata, né nell’art. 20 del d.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, laddove si fa riferimento esclusivamente al concetto di "idoneità" a falsare le scelte, dal quale restano estranee considerazioni in ordine all’intento soggettivo dell’autore della condotta).

4.3.2. Per altro verso, costituisce ad avviso del Collegio un errore prospettico l’affermazione contenuta nel ricorso in appello secondo cui la sanzionabilità della condotta in oggetto postulerebbe il pieno riscontro probatorio della sussistenza del dolo in capo ai protagonisti della condotta, costituendo invece jus receptum che per la punibilità di condotte punite con una sanzione amministrativa (come del resto per le condotte penalmente rilevanti punite a titolo di contravvenzione), salvo eccezioni normativamente previste, è indifferente che sussista dolo o colpa, purché l’uno o l’altro elemento psicologico vi sia (cfr. Cassazione civile, sez. III, 8 maggio 2001, n. 6383).

Il punto dal quale occorre trarre le mosse riposa nella circostanza pacifica della applicabilità al procedimento in esame di talune disposizioni che si rinvengono nella legge generale in materia di illecito amministrativo 24 novembre 1981, n. 689.

L’art. 27 del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, stabilisce infatti, al comma XIII che "Per le sanzioni amministrative pecuniarie conseguenti alle violazioni del presente decreto si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni contenute nel capo I, sezione I, e negli articoli 26, 27, 28 e 29 della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni."

Nella sezione I della richiamata legge n. 689, si rinviene l’art. 5 che così prevede "Quando più persone concorrono in una violazione amministrativa, ciascuna di esse soggiace alla sanzione per questa disposta, salvo che sia diversamente stabilito dalla legge.".

Ha precisato la giurisprudenza che, in tema di sanzioni amministrative, l’art. 5 l. 24 novembre 1981, n. 689, che contempla il concorso di persone, recepisce i principi fissati in materia dal c.p., rendendo così applicabile la pena pecuniaria non soltanto all’autore o ai coautori dell’infrazione, ma anche a coloro che abbiano comunque dato un contributo causale, pure se esclusivamente sul piano psichico (cfr. Cassazione civile, sez. I, 22 settembre 2006, n. 20696).

Osserva il Collegio che anche sotto il profilo del contributo causale richiesto per configurare i requisiti minimi della responsabilità concorsuale la giurisprudenza è concorde nel ritenere che, ai fini della configurabilità della fattispecie del concorso di persone nell’illecito amministrativo, a norma dell’art. 5 l. 24 novembre 1981 n. 689, il contributo concorsuale assume rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione indefettibile della violazione, ma anche quando assuma la forma di un contributo agevolatore, e cioè quando l’illecito, senza la condotta di agevolazione, sarebbe egualmente commesso, ma con maggiori incertezze di riuscita o difficoltà (cfr. Cassazione civile, sez. I, 13 luglio 2006, n. 15929).

Ne consegue che anche laddove si versi semplicemente in colpa, di tali condotte illecite deve essere affermata la responsabilità.

Le generali condizioni di "difficoltà" ad adeguarsi alle sopravvenute disposizioni di legge in materia di cancellazione delle ipoteche, assertivamente addotte dall’appellante, non integrano certamente, ad avviso del Collegio, una esimente rilevante, posto che l’Istituto bancario ebbe più di due mesi di tempo per predisporre una struttura idonea ad evadere gli incombenti sopravvenuti, non apparendo legittima la traslazione dei medesimi sugli incolpevoli consumatori.

5. Conclusivamente l’appello va respinto.

Alla soccombenza consegue la condanna alle spese ed agli onorari del secondo grado del giudizio e pertanto l’appellante deve essere condannata al pagamento delle stesse, in favore dall’appellata Autorità, in misura che, avuto riguardo alla natura della controversia, appare congruo determinare in euro quattromila (Euro 4.000), oltre accessori di legge se dovuti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) respinge l’appello n. 9195 del 2010.

Condanna l’appellante al pagamento delle spese e degli onorari del secondo grado del giudizio in favore dell’appellata Autorità, nella misura di euro quattromila (Euro 4.000), oltre accessori di legge se dovuti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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