Cons. Stato Sez. VI, Sent., 24-08-2011, n. 4799 Sanzione amministrativa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con la sentenza in epigrafe appellata, il TAR del Lazio – Sede di Roma – ha respinto il ricorso con il quale era stato chiesto dalla società odierna appellante l’annullamento del provvedimento adottato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato in data 27 dicembre 2007 n. 17813, con il quale quest’ultima aveva ritenuto ingannevoli i messaggi pubblicitari da essa diffusi "laddove lasciano intendere che per svolgere le professioni di pedagogista clinico, pedagogista, reflector, psicomotricista funzionale e mediatore relazionale e per conseguire le specializzazioni in psicomotricità in acqua, disegno onirico e psicodramma olistico sia requisito necessario la partecipazione ai corsi di formazione pubblicizzati dalla citata società" e le aveva irrogato la sanzione amministrativa pecuniaria di euro 21.100,00.

L’odierna appellante I. Srl ha impugnato l’atto, deducendo tre distinti ed articolati motivi di censura.

Il TARha respinto le dedotte censure, dopo avere premesso che la decodifica della comunicazione pubblicitaria costituiva una valutazione tecnico – discrezionale spettante all’Autorità e sindacabile sul piano della legittimità solo nei limiti della ragionevolezza e della congruità della valutazione (parametri, questi, rispettati nel caso di specie, ad avviso del primo giudice).

Più in dettaglio, il primo motivo di doglianza era incentrato sulla violazione dell’art. 26, comma 2, del d. Lgs. n. 6 settembre 2005, n.206, nel testo previgente alle modifiche di cui al d. Lgs. 2 agosto 2007, n. 146.

Secondo l’argomentare dell’odierna appellante, posto che l’Autorità era priva di autonomo potere d’iniziativa ma agiva su segnalazione di parte (nel caso di specie dell’ Ordine degli psicologi della Toscana), essa avrebbe dovuto contestare (unicamente) le violazioni ipotizzate dal segnalante.

L’essersi discostata dai profili di illegittimità indicati dal segnalante implicava che la detta denuncia fosse stata ritenuta, dalla stessa Autorità, infondata: ciò implicava che essa, in ultima analisi, avesse agito ex officio, contestando ulteriori profili di decettività, il che concretava una inammissibile violazione di legge.

Il primo giudice ha escluso la fondatezza della censura, evidenziando che la norma di riferimento non prevedeva che l’Autorità, una volta evocata, fosse tenuta a limitare la propria attività di verifica ai soli profili evidenziati dall’istante, in applicazione di una sorta di principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Quanto al merito della condotta contestata, il Tribunale amministrativo ha respinto le censure articolate nel secondo motivo, evidenziando che l’appellante aveva veicolato un messaggio che per espressioni e contesto, e per le affermazioni ed omissioni ivi contenute, era in grado di suscitare la errata impressione che la frequenza dei corsi pubblicizzati costituisse prerequisito necessario per essere in possesso di una specifica abilitazione (tenuto altresì conto della natura privatistica dell’albo cui ci si sarebbe potuti iscrivere e della adesione del tutto volontaria al medesimo).

Quanto alle doglianze investenti la graduazione della sanzione (terzo motivo di censura del ricorso di primo grado), esse sono state disattese alla stregua del convincimento per cui la potenzialità pregiudizievole di una pubblicità ingannevole non poteva essere il risultato di una valutazione meramente quantitativa dei soggetti destinatari, considerati in termini assoluti, ma doveva tener conto dei potenziali destinatari nell’ambito della categoria cui il messaggio si riferiva.

L’originaria ricorrente di primo grado ha censurato la predetta sentenza chiedendone l’annullamento, deducendo che il provvedimento impugnato in primo grado si era discostato dal parere reso in data 18 dicembre 2007 dall’AGCOM, che aveva ritenuto non sussistessero profili di ingannevolezza o decettività nel messaggio diffuso ed oggetto di istruttoria.

Essa ha all’uopo riproposto tutti i motivi di censura contenuti nel ricorso di primo grado ed ha in particolare evidenziato che nessuno dei profili sottesi alla denuncia di intervento dell’Ordine degli Psicologi della Toscana era stato accolto dall’Autorità: ne era discesa non soltanto la violazione del principio della iniziativa su istanza di parte, pprevisto nell’antevigente testo dell’art. 26 d. lgs. n. 6 settembre 2005, n. 206, ma anche la violazione del diritto di difesa dell’appellante che, nella fase procedimentale, non era stata messa in grado di difendersi dalla prospettiva accusatoria.

Nel merito, era errato affermare che il messaggio fornisse all’utente la falsa informazione per cui la frequenza dei corsi costituiva prerequisito necessario per essere in possesso di una specifica abilitazione: detta informazione non era affatto contenuta nel messaggio predetto.

Non era chiaro né condivisibile il percorso logico in base al quale si era giunti ad affermare che il messaggio presentasse profili di ingannevolezza: la sanzione, infine, era sproporzionata ed abnorme e pari a due terzi dell’intero guadagno annuale della società: nè l’appellata Autorità né il primo giudice avevano supportato tale severissima determinazione facendo ricorso a criteri determinativi convincenti.

Con memorie datate 9 giugno 2011 e 26 giugno 2011, l’appellante I. ha puntualizzato le proprie doglianze, ribadendo la sproporzionata severità della sanzione applicatale, soprattutto ove comparata con quelle (assai più lievi) applicate in ipotesi similari.

L’appellata amministrazione si è costituita in giudizio depositando una articolata memoria e chiedendo la reiezione del gravame perché infondato: la pratica commerciale e pubblicitaria posta in essere era certamente scorretta; i profili decettivi ed omissivi del messaggio diffuso erano numerosi ed evidenti.

Sotto altro profilo non poteva dubitarsi della circostanza che quest’ultimo, seppur rivolto ad un pubblico settoriale, fosse in grado di falsarne le scelte consumeristiche e, in quanto pubblicizzato mediante internet ed apposita brochure, possedesse elevata capacità di diffusione al pubblico.

Alla pubblica udienza del 5 luglio 2011 la causa è stata posta in decisione.

Motivi della decisione

1. L’appello è infondato e va respinto, con conseguente conferma della impugnata sentenza.

2. Va respinta, anzitutto, la doglianza incentrata sulla asserita difformità del provvedimento sanzionatorio impugnato in primo grado rispetto ai profili di sospetta illegittimità contenuti nella segnalazione che aveva dato origine all’avvio del procedimento sanzionatorio.

E’ certamente vero che l’antevigente d.Lgs. n. 74 del 1992, come anche l’originario testo del comma II dell’art. 26 del d.Lgs 6 settembre 2005 n.206 prevedevano che in seno al procedimento disciplinante l’azione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato fosse esclusa la possibilità di un’iniziativa d’ufficio a favore di un maggior rilievo della funzione arbitrale da questa svolta.

Tuttavia, nelle citate disposizioni erano stati corrispondentemente limitati gli oneri del denunciante alla formulazione di un (mero) atto di impulso, diretto ad ottenere l’inibizione della pubblicità ingannevole e quindi non di un vero e proprio ricorso, ma solo di una denuncia, preordinata a portare a conoscenza dell’Autorità l’esistenza di una pubblicità ingannevole. Pertanto, una volta investita della questione dell’ingannevolezza di un determinato messaggio pubblicitario mediante la necessaria precisa indicazione di questo in seno alla denuncia, l’Agcm non era in alcun modo vincolata nel suo accertamento ai motivi indicati in tale atto di iniziativa e ben poteva censurare la pubblicità anche per aspetti ivi non segnalati.

L’appellante postula l’affermazione di un principio di "corrispondenza tra chiesto e pronunciato" in realtà non contenuto nella legge e che, soprattutto, colliderebbe con la circostanza che non era stato limitato il novero dei possibili "segnalanti" ad organismi qualificati in possesso di particolari cognizioni tecniche e neppure a ben individuati organismi associativi.

Al contrario, il comma II del citato art. 26 del d.Lgs 6 settembre 2005 n.206 ("I concorrenti, i consumatori, le loro associazioni ed organizzazioni, il Ministro delle attività produttive, nonché ogni altra pubblica amministrazione che ne abbia interesse in relazione ai propri compiti istituzionali, anche su denuncia del pubblico, possono chiedere all’Autorità che siano inibiti gli atti di pubblicità ingannevole o di pubblicità comparativa ritenuta illecita ai sensi della presente sezione, che sia inibita la loro continuazione e che ne siano eliminati gli effetti"), nel contemplare una amplissima platea di soggetti legittimati attivi all’inoltro della segnalazione, rende evidente che quest’ultima costituiva un generico atto di sollecitazione all’avvio dell’indagine, ma che l’Autorità non era vincolata ai profili "investigativi" ivi suggeriti: se è vero quindi che secondo l’antevigente quadro normativo l’Autorità non possedeva il potere di avviare l’istruttoria ex officio, è pur vero che la segnalazione poteva provenire da qualsiasi soggetto interessato e che l’Autorità, una volta investita della questione, non era vincolata ai profili di decettività oggetto di segnalazione, ben potendo esaminare la condotta anche sotto angoli prospettici non pedissequamente coincidenti con quelli descritti dal segnalante.

2.2. Non è accoglibile aAnche la seconda articolazione della predetta doglianza (tesa ad evidenziare un supposto deficit in materia di contraddittorio e la violazione del proprio diritto di difesa in considerazione del fatto che le contestazioni originarie non sono state recepite dall’Autorità che ha invece individuato ulteriori e diversi profili di decettività).

Il concreto dipanarsi del procedimento ha consentito all’impresa coinvolta di articolare pienamente le proprie difese; non esiste un principio generale in base al quale la concreta modulazione delle garanzie difensive -comunque da assicurare in fase infraprocedimentale- debba strutturarsi attraverso la immediata ed immodificabile cristallizzazione della ipotesi d’accusa nè attraverso la integrale ostensione delle fonti di prova a carico (circostanza quest’ultima comunque avvenuta).

La qualificazione giuridica della condotta ascritta ad un soggetto giuridico del quale si postula il coinvolgimento in un illecito -anzi- può risentire della iniziale fluidità della impostazione accusatoria, per poi compiutamente definirsi con l’atto finale (che non a caso tiene conto delle precisazioni e delle eventuali discolpe fornite in sede infraprocedimentale).

Tale evenienza è proprio quella verificatasi nel caso in esame, laddove il riferimento all’illecito perpetrato avrebbe semmai subito una riduzione nel corso del procedimento.

Nel caso di specie, sin dalla fase iniziale della procedura sanzionatoria, l’Autorità si diede carico di precisare quale fosse l’elemento materiale della condotta e per quali motivi la condotta ascritta in esame apparisse violare le regole di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n.206.

Per giurisprudenza, è legittimo detto modus procedendi (Cassazione, Sezioni Unite, 30 settembre 2009, n. 2093 in tema di sanzioni irrogate dalla Consob in materia di intermediazione finanziaria): anche il Collegio ritiene che nessuna lesione al diritto di difesa ed ai principi del giusto procedimento sia ravvisabile.

3. Nel merito, osserva il Collegio che l’Autorità, pur escludendo taluni dei profili di decettività segnalati, ha individuato nella pubblicità oggetto di istruttoria la sussistenza di profili di ingannevolezza in relazione al possesso del prerequisito essenziale per lo svolgimento della professione (vale a dire il titolo di laurea in psicologia).

In particolare, l’Autorità ha rilevato che, il messaggio risultava idoneo a indurre in errore i consumatori con riguardo alle caratteristiche e ai risultati conseguibili mediante la frequenza dei corsi pubblicizzati. Infatti, dalle risultanze istruttorie era emerso che la frequenza dei suddetti corsi consentiva esclusivamente di acquisire una competenza specifica nelle diverse materia e che gli albi ai quali ci si riferiva nei messaggi erano, in realtà, privi di rilievo pubblicistico.

I messaggi, dunque, erano idonei a ingenerare false convinzioni rispetto ai destinatari specifici degli stessi, potendone in tal modo condizionare il processo di scelta.

Costoro, infatti, potevano essere indotti a iscriversi ai corsi pubblicizzati sulla base di presupposti in realtà inesistenti: nel messaggio, si rinveniva l’ affermazione "titolo per l’iscrizione all’Albo Professionale di Pedagogista Clinico", riferita al risultato conseguibile al termine del corso, che per il contesto in cui era inserita lasciava intendere che esso fosse un prerequisito necessario per essere in possesso di una specifica abilitazione e che proprio a tal fine fosse stato predisposto il corso pubblicizzato.

L’Autorità ha in proposito rilevato che l’esercizio dell’attività di pedagogista clinico non risultava condizionato al possesso di un titolo ufficiale che abilitasse alla suddetta professione; che l’adesione all’ANPEC era volontaria e non obbligatoria per chi intendesse svolgere la professione e che l’albo cui si faceva riferimento nel messaggio aveva natura privatistica, e consisteva in un registro nel quale erano riportati i nominativi dei soci che operavano nel settore della pedagogia clinica.

Peraltro, dall’esame dello Statuto e del Regolamento ANPEC emergeva che, per poter essere iscritto all’associazione, il candidato doveva essere in possesso di titoli accademici, culturali,scientifici e professionali e doveva sostenere un esame di idoneità. Pertanto, la qualifica conseguita a seguito del corso di formazione pubblicizzato, non consentiva di acquisire in via automatica la qualità di socio ANPEC e quindi di essere inserito nel registro denominato "Albo", ma forniva esclusivamente i requisiti di formazione necessari per poter presentare la domanda d’ammissione all’esame di idoneità previsto ed attuato dalla Commissione istituita dal consiglio direttivo nazionale dell’ANPEC.

Tutte le evidenze sinora indicate risultano dalla documentazione acquisita.

Appare altresì del tutto ragionevole quanto osservato dall’Autorità, per cui analoghe valutazioni dovevano essere formulate per tutte le altre specializzazioni (qualifica di pedagogista, reflector, psicomotricista funzionale e mediatore relazionale, ed anche le specializzazioni in psicomotricità in acqua, disegno onirico e psicodramma olistico), come riportate nel messaggio per cui è causa.

3.1. La sintesi delle valutazioni dell’Autorità, ritenute legittime dal primo giudice, si basa sulla considerazione per cui le affermazioni riportate nel messaggio in esame, "titolo per l’iscrizione all’Albo Professionale di", riferite al risultato conseguibile al termine del corso, per il contesto in cui erano inserite lasciavano intendere che esse integrassero un prerequisito necessario per essere in possesso di una specifica abilitazione e che a tal fine fosse stato predisposto il corso pubblicizzato.

3.2. Le contestazioni dell’appellante a tale convincimento espresso dall’Autorità non appaiono persuasive.

Va richiamata la pacifica giurisprudenza secondo cui il convincimento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato sulla complessiva ingannevolezza di un messaggio pubblicitario, in quanto espressione della sua discrezionalità tecnica, non è sindacabile, in caso di corretta e completa acquisizione degli elementi di fatto rilevanti, se non sul piano della ragionevolezza e della congruità della valutazione, con l’esclusione di interventi di carattere sostitutivo incompatibili con l’opinabilità dei giudizi e con la non oggettività ed esattezza delle discipline di riferimento.

(cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 25 febbraio 2003, n. 1054).

Nel caso di specie, le censure proposte si limitano a criticare il convincimento dell’Autorità, non contestando la completezza delle acquisizioni istruttorie, la natura privatistica degli albi professionali, e neppure, in ultima analisi il legame logico tra frequentazione del corso ed iscrizione agli albi che dal messaggio traspare.

3.3. Il Collegio ritiene altresì ragionevole la ricostruzione contenuta nel provvedimento impugnato e non rileva che dalla pubblicità oggetto di indagine emerge un automatismo tra la frequentazione dei corsi e l’iscrizione agli "albi" privati ivi menzionati in realtà non sussistente, posto che essa permetteva invece, unicamente, di poter presentare domanda d’ammissione all’esame di idoneità previsto ed attuato dalla Commissione istituita dal consiglio direttivo nazionale dell’ANPEC.

Al contempo, viene enfatizzata la circostanza della possibilità di iscrizione a detti Albi, ma non si chiarisce né evidenzia la natura privatistica degli stessi.

Il legame tra le informazioni fornite, il contesto delle stesse e le omissioni in punto di natura e funzione di detti albi professionali giustificano pienamente il giudizio di ingannevolezza formulato dall’Autorità, la cui sussistenza è stata già riscontrata dal primo giudice.

3.4. Né può assumere portata scriminante (ovvero anche soltanto effetto attenuante sulla sanzione applicata) la circostanza che la platea di consumatori potenzialmente interessata dalla pubblicità potesse possedere cognizioni avanzate in materia di iscrizione agli albi, esercizio della professione, etc.

Tale evenienza (mutuata dalla dissenting opinion dell’Agcom), infatti, da un canto appare assertivamente formulata; sotto altro profilo non tiene conto della circostanza che proprio coloro i quali potevano in astratto essere maggiormente interessati all’annuncio (id est: i soggetti privi di esperienze lavorative pregresse e che cercavano di inserirsi nel mondo del lavoro) è plausibile non possedessero le cognizioni per adeguatamente discernere le conseguenze reali della iscrizione in albi privatistici e, soprattutto, che ignorassero l’assenza di un automatismo tra la frequentazione dei corsi e le iscrizioni agli albi.

L’istruttoria svolta appare completa e puntuale: anche detta censura, pertanto, va respinta.

4. Quanto all’ultima doglianza, investente la quantificazione della sanzione operata dall’Autorità, si osserva che i criteri generali di cui fare applicazione in sede di commisurazione delle sanzioni pecuniarie nelle materie di cui al d.lgs. 206 del 2005 sono rinvenibili nell’ambito dell’art. 11 della l. 689 del 1981, per il quale, "nella determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo ed un limite massimo e nell’applicazione delle sanzioni accessorie facoltative, si ha riguardo alla gravità della violazione, all’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche".

Tale disposizione risulta applicabile per la determinazione del quantum della sanzione (ed infatti, per le sanzioni amministrative pecuniarie conseguenti alle violazioni in tema di tutela dei consumatori, si osservano – inter alia – le disposizioni di cui agli articoli da 1 a 12, l. 689, cit.).

Ancora dal punto di vista generale, va richiamato il consolidato – e qui condiviso – orientamento secondo cui l’attività determinativa del quantum della sanzione irrogata (nonché, più a monte, il giudizio di sussunzione delle peculiarità del caso di specie entro i criteri determinativi normativamente indicati) costituisce esplicazione di una lata discrezionalità, con la conseguenza che l’operazione valutativa in tal modo posta in essere non possa essere sindacata in sede di giudizio di legittimità, laddove risulti congruamente motivata e scevra da vizi logici (Cass. Civ., I, 16 aprile 2003, n. 6020).

Impostati in tal modo i termini sistematici della questione, il Collegio ritiene che l’attività determinativa posta in essere dall’Autorità risulti esente dai vizi denunciati dall’appellante, se solo si osservi che:

– l’Autorità ha puntualmente tenuto conto, ai fini determinativi, di un complesso di circostanze certamente compatibili con la litera e la ratio dell’art. 11, cit;

– in particolare, la motivazione del provvedimento sanzionatorio appare conforme al paradigma di riferimento, laddove ha tenuto conto sia del profilo valutativo relativo al mezzo di diffusione utilizzato (con riferimento alla riscontrata "ampiezza e della capacità di penetrazione" ascrivibile al sito Internet ed alla brochure), che della consistenza temporale della pratica pubblicitaria (a far data dal giugno 2007, e sino alla adozione del provvedimento impugnato).

Tali incontestabili evidenze, rendevano la pubblicità, ad avviso dell’Autorità, ragionevolmente "suscettibile di raggiungere un numero considerevole di consumatori".

4.1. Tale valutazione appare immune da critiche. In particolare, non coglie nel segno la censura articolata dall’appellante, che tende a dimostrare come, tutto sommato, ben pochi utenti econsumatori potessero essere interessati al messaggio da essa veicolato.

Ciò può essere vero in via generale, posto che è indubbio che la campagna pubblicitaria tendeva a raggiungere utenti facenti parte di una ben precisa e ristretta categoria professionale.

Tale circostanza, tuttavia, non assume alcun rilievo, posto che la pervasività del mezzo deve essere valutata proprio con riguardo alla categoria cui si riferisce, e tenuto conto della consistenza (anche modesta in termini assoluti) della medesima e non certo rapportandola alla generalità degli utenti.

E’ chiaro infatti che la pervasività di un messaggio pubblicitario, che per la natura del prodotto pubblicizzato si dirige ad un pubblico ristretto, non può che essere valutata relativisticamente, facendo riferimento proprio alla platea che si propone di raggiungere.

Avuto riguardo a detto criterio relativistico (che non consente di assumere come base di raffronto la generalità dei consumatori, ovvero degli utenti di internet), i parametri di gravità individuati dall’autorità risultano congrui e conferenti alle evidenze processuali acquisite.

Con riferimento a tale profilo, infatti, la non breve durata della campagna e la pubblicizzazione della stessa su un apposito sito internet (oltre alla predisposizione di una brochure) rendono evidente che i mezzi utilizzati garantivano, secondo un giudizio ex ante, che la stessa avrebbe avuto piena efficacia, essendo idonea a raggiungere un rilevante numero di utenti tra quelli interessati al settore.

La quantificazione operata dall’Autorità non appare censurabile, pertanto, ed è d’obbligo ribadire in proposito che non possono indurre a contrario convincimento le affermazioni in ultimo formulate nella memoria conclusionale dell’appellante, relative ad una non meglio specificata "clemenza valutativa" dimostrata dall’Autorità con riferimento ad altre fattispecie di pubblicità ingannevole, relative a differenti aree merceologiche e poste in essere da altri soggetti.

In assenza di alcun elemento unificante che consenta di pervenire ad una valutazione comparativa della condotta dell’Autorità medesima (valutazione comparativa possibile, a tutto concedere, soltanto laddove, differentemente dall’ipotesi in esame, i casi prospettati presentino spiccatissime analogie se non addirittura identità), la censura appare palesemente inaccoglibile (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 17 gennaio 2011, n. 236, sulla prospettabilità del il vizio di disparità di trattamento "solo in presenza di situazioni identiche.").

5. Conclusivamente, la sentenza impugnata resiste alle censure di cui all’appello, che deve essere, pertanto, respinto.

Alla soccombenza consegue la condanna alle spese ed agli onorari del secondo grado del giudizio e pertanto l’appellante va condannata al pagamento delle stesse, in favore dall’appellata Autorità, in misura che, avuto riguardo alla natura della controversia, appare congruo determinare in Euro duemilacinquecento (Euro 2.500) oltre accessori di legge se dovuti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), respinge l’appello n. 10433 del 2010.

Condanna l’appellante al pagamento delle spese e degli onorari del secondo grado del giudizio, in favore dell’appellata Autorità, nella misura euro duemilacinquecento (Euro 2.500), oltre accessori di legge se dovuti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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