Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 11-05-2011) 28-07-2011, n. 30106

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propongono ricorso per cassazione:

– il Procuratore generale della Repubblica di Catanzaro;

– D.B.U.;

avverso la sentenza della Corte di appello di Catanzaro in data 8 gennaio 2010 con la quale è stata ribadita la condanna di D.B. U. in relazione alla imputazione di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale concernerete il fallimento della Deco Appalti srl dichiarato il (OMISSIS); con la stessa sentenza, in riforma di quella di primo grado, è stato assolto D.B. F. dalla imputazione di concorso in bancarotta fraudolenta col padre, per non avere commesso il fatto.

La bancarotta per distrazione era stata invero contestata con riferimento alla vendita che si assumeva simulata, di un ramo di azienda che la Deco Appalti (di cui D.B.U. era amministratore unico) aveva effettuato in favore della D&B srl amministrata invece da D.B.F., figlio di U. e amministratore della Deco per un periodo.

In particolare si era affermato, da parte della accusa, che la distrazione era data dalla somma di 119 mila Euro pari al prezzo della vendita simulata, da 90 mila Euro circa pari all’importo di debiti che erano stati falsamente contabilizzati dalla Deco e che erano stati fatti apparire quindi altrettanto falsamente come passività che la cessionaria D&B si accollava, essendo invece quei debiti (che avevano concorso a determinare il prezzo altrimenti vile, della vendita) inesistenti; infine da circa 30 mila Euro che erano stati contabilizzati come importi di pagamenti fatti dalla fallenda ad imprese creditrici, in realtà mai effettuati.

In seguito, la istruttoria esperita aveva dimostrato che la vendita non era stata simulata ma si era comunque realizzata posto che il prezzo – comunque vile – pagato dalla cessionaria, pari a 119 mila Euro e che risentiva come detto del calcolo delle passività della cedente, era stato incassato personalmente da D.B.U. e non destinato agli scopi della impresa. Degli assegni dati in pagamento da D.B.F. non vi era traccia in contabilità ed anzi in questa (precisamente nel bilancio chiuso al 2001) la somma in questione era indicata come "credito per cessione" ossia come non incassata dalla società.

Era rimasto anche accertato che i debiti della Deco presi in considerazione per la determinazione del prezzo di cessione del ramo di azienda erano inesistenti perchè estinti in epoca antecedente alla stipula della cessione medesima.

Era rimasto infine provato il terzo segmento della distrazione costituito dal fatto che nelle scrittura contabili risultava annotata la estinzione di altri debiti invece non avvenuta.

Quanto alla bancarotta documentale era stato appurato che i debiti dei soggetti che avevano attivato la procedura fallimentare non erano stati annotati nei libri contabili obbligatori. Quindi risultavano contabilizzati pagamenti mai effettuati e, per converso, anche realizzati inserimenti, in contabilità, di passività inesistenti:

ciò che integrava il delitto di bancarotta fraudolenta documentale.

La circostanza dell’avvenuto pagamento del prezzo dell’acquisto del ramo di azienda aveva indotto la Corte a ritenere che D.B. F. non fosse raggiunto da piena prova riguardo al concorso nella condotta fraudolenta del padre, essenzialmente estrinsecatasi nell’utilizzo della somma personalmente incassata.

Deduce il Procuratore Generale, avverso la statuizione di assoluzione di D.B.F., la violazione di legge e il vizio di motivazione.

Ad avviso dell’impugnante era stato sopravvalutato il fatto del pagamento del prezzo dell’acquisto da esso effettuato, dal quale era conseguito il danno per i creditori della Deco.

Avrebbe dovuto considerarsi, per delineare esattamente il grado della sua compartecipazione al fatto del padre, la circostanza che egli, appunto, ne era stretto congiunto ed aveva anche ricoperto la carica di socio della fallenda per qualche tempo, lasciandola appena quale mese prima dell’acquisto. Egli non poteva non essere a conoscenza dello stato di decozione della Deco nè del carattere vile del prezzo stesso.

Era conseguita d’altra parte, a quella cessione, la impossibilità per la Deco di compiere utile attività aziendale.

La difesa dell’imputato ha presentato, in data 26 aprile 2011, una memoria di replica chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

In favore di D.B.U. è stato dedotto:

1) la nullità della sentenza per violazione dell’art. 522 c.p.p..

Era stato contestato, nella formulazione del capo di imputazione, la cessione simulata del ramo di azienda mentre la condanna era stata basta sull’accertamento di un fatto diverso. E cioè, posto che la cessione è risultata non simulata ma effettiva, la distrazione sarebbe consistita in un fatto ontologicamente differente: l’utilizzo personale del prezzo della cessione da parte dell’imputato;

2) il vizio di motivazione.

La sentenza aveva ignorato un fatto decisivo ad avviso della difesa, che lo aveva sottolineato anche nei motivi di appello: e cioè che la cessione aveva riguardato non l’intera azienda ma solo il ramo della attività edile e non anche quello della commercializzazione (teste S.): questa trascuratezza aveva portato ad una inammissibile confusione anche nella trattazione e nella considerazione di quelli che erano stati i creditori della Deco pagati dalla D&B in base al contratto di cessione del ramo di azienda e nella affermazione della esistenza di un collegamento tra la cessione e il fallimento che invece era stato causato dai debiti della Deco.

La situazione dei debiti di ciascuna società, in altri termini, non si prestava ad interpretazioni equivoche, come detto dal teste S.. Invece la Corte aveva affermato che vi erano crediti della Deco che, in virtù delle pattuizioni, la D&B avrebbe dovuto pagare, così conseguendo la fissazione di un prezzo di acquisto del ramo di azienda più basso: ma l’accusa non aveva dimostrato di quali debiti si trattasse, essendo rimasto accertato che non erano stati inseriti nell’atto allegato alla cessione.

Quanto alla somma di 90 mila Euro circa pari all’importo dei debiti della Deco che la D&B si sarebbe impegnata a pagare senza farlo, la difesa contesta che possa trattarsi di voce rilevante ai fini della configurazione del reato di bancarotta fraudolenta.

Intanto, precisa la difesa, non vi è nella imputazione la contestazione della distrazione di tali somme, che invece figurano come contabilizzate per giustificare un prezzo di vendita del ramo di azienda particolarmente basso e comunque simulato.

In secondo luogo non era stata data risposta alla difesa che aveva chiesto al giudice dell’appello la dimostrazione della fittizietà delle voci in questione, come da imputazione.

In terzo luogo non era stata commentata la deduzione della difesa sul contenuto di testimonianze di A., P., Pr., T. riguardo alle modalità di estinzione dei crediti da essi vantati nei confronti della Deco, ed effettivamente pagati dalla D&B. Non era stata neppure adeguatamente valutata la critica della difesa sulla deposizione del curatore che aveva negato la estinzione del mutuo o l’incasso degli assegni pagati al momento del rogito notarile.

In conclusione la Corte avrebbe dovuto rilevare che vi era prova in atti che la cessione aveva riguardato solo un ramo di azienda e non l’intera azienda; che i creditori rimasti non soddisfatti erano solo quelli del ramo non ceduto ; che i creditori delle sue distinte società erano in elenco chiarissimo come testimoniato da S. e che in conclusione nessuna distrazione poteva configurarsi con riferimento alla indicazione dei debiti e dei crediti indicati nell’atto di cessione.

3) Il vizio di motivazione sull’elemento soggettivo del reato.

La presunta distrazione era stata realizzata attraverso un atto di cessione soggetto a revocatoria e senza alcun pregiudizio per i terzi. Era infatti stato concordato l’accollo di debiti rilevanti quali un mutuo ipotecario ed era stata richiamata la operatività dell’art. 2560 c.c., che faceva salvi i diritti dei creditori.

Mancava dunque la consapevolezza di recare pregiudizio ai creditori.

Tale ultima circostanza peraltro valeva ad escludere anche lo stesso elemento oggettivo del reato.

Infine la affermazione della Corte di appello secondo cui non sarebbe stata annotata, nella contabilità della azienda, la riscossione del prezzo della cessione, sarebbe stata contrastata nei motivi di appello con il riferimento alla diversa testimonianza di A..

Sul punto la Corte nulla aveva osservato;

4) il vizio di motivazione sulla bancarotta fraudolenta documentale.

La motivazione era da ritenere insufficiente alla luce delle opposte osservazioni del teste S. che aveva dichiarato di avere stilato un elenco preciso e dettagliato dei creditori delle due diverse società, ricavato dalle scritture contabili.

Il ricorso del Procuratore Generale è inammissibile.

Invero l’impugnante prospetta come violazione di legge o vizio della motivazione, critiche che si risolvono nella richiesta di autonoma valutazione, da parte della Cassazione, delle risultanze probatorie.

Infatti il ragionamento esibito dalla Corte d’appello risponde, in sè, ai canoni della logica, della completezza ed è plausibile sicchè, anche ove fosse il frutto di una ricostruzione opinabile da taluno, non potrebbe per tale sola ragione essere censurato da questa Corte che non è giudice del fatto ma si limita ad un vaglio di pura legittimità.

Il fatto che il D.B.N. fosse figlio dell’altro imputato ritenuto responsabile, o che fosse stato socio della fallenda per un periodo, o ancora che potesse essere a conoscenza dello stato di difficoltà della Deco integrano altrettanti elementi di fatto il cui inserimento nella trama della sentenza non varrebbe di per sè ad inficiarne obiettivamente la tenuta. Essi non possono definirsi infatti prove assolutamente decisive o tali, se valutate, da scardinare la logica dell’intero ragionamento esibito sicchè con la loro deduzione si è fuori dall’area della manifesta illogicità della motivazione del giudice del merito o della contraddittorietà della motivazione da esso presentata, rispetto al contenuto di specifici atti del processo.

Il ricorso del Procuratore Generale va dunque ritenuto inammissibile.

Infondato è il ricorso dell’imputato.

Lo stesso lamenta con il primo motivo la nullità derivante dalla diversità tra la condotta contestata e quella ritenuta in sentenza.

Si tratta però della mera ripetizione del corrispondente motivo di appello al quale la Corte di merito ha già dato esauriente risposta.

Lo stato della giurisprudenza di legittimità in materia – da ultimo ribadita dalle Sezioni unite – è esattamente quello evocato nella sentenza in esame, essendosi rilevato che in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’"iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (SSUU Carelli, Rv. 248051).

Nel caso di specie non vi è stata alcuna sostanziale immutazione del fatto in contestazione dal momento che, come bene sottolineato dalla Corte, di merito, le voci delle somme che si assumono distratte nella prospettiva del reato di bancarotta fraudolenta sono rimaste quelle indicate nel capo di imputazione e in relazione ad esse la difesa è stata posta sin dall’inizio in grado di predisporre i propri argomenti. E ciò soprattutto in considerazione del fatto che nella sentenza di primo grado si evidenzia come la testimonianza del M.llo R. e l’esame delle scritture contabili avessero reso evidente che il distacco del ramo di azienda era avvenuto senza contropartita per la società: infatti il prezzo pagato dalla cessionaria non è stato incassato dalla società sicchè sotto tale profilo, la corrispondente perdita di garanzia per i creditori societari è rimasta della stessa entità e origine di quella indicata nel capo di imputazione.

Infondati sono anche gli ulteriori motivi di ricorso invero sviluppati ai limiti della relativa ammissibilità.

La parte lamenta infatti presunte mancanze di motivazione su argomenti prospettati nei motivi di gravame senza però considerare la loro non decisiva influenza nell’ottica della ricostruzione operata ed accreditata dalla Corte di appello.

La tesi affermata dai giudici di secondo grado è infatti in primo luogo quella della avvenuta distrazione determinata dall’incasso personale, da parte dell’imputato, di buona parte del prezzo della vendita del ramo di azienda appartenuto alla fallenda.

E sul punto non si rinvengono nel gravame motivi puntuale e specifici, risultando che il difensore si è limitato ad affermare in maniera del tutto generica e pertanto inammissibile che al riguardo avrebbe articolato un non meglio precisato motivo di appello con la deduzione della deposizione del teste A., la cui rilevanza non viene affatto illustrata nel ricorso.

Quanto alle ulteriori voci, elencate nel capo di imputazione, v’è da rilevare che la tesi accreditata in sentenza è stata quella di una distrazione che si è realizzata non attraverso la dissipazione della somma come nel caso precedente, ma nella valorizzazione di corrispondenti debiti della società (in realtà inesistenti perchè già estinti) al fine di consentire la vendita del ramo di azienda ad un prezzo altrimenti qualificabile come sottostimato.

La conclusione è sempre la stessa. La distrazione si è verificata, con riferimento alle voci in questione perchè i creditori della fallenda sono stati privati del bene aziendale senza adeguato sinallagma, essendo stato quel ramo,ceduto per un prezzo assolutamente inferiore a quello reale e ciò attraverso il meccanismo della valorizzazione di debiti inesistenti.

Non rileva dunque che la distrazione della somma di 90 mila Euro circa, contestata nella forma della personale apprensione, non sia stata apprezzata come tale dai giudici del merito.

Invece il fatto che la difesa lamenti la mancata elencazione dei debiti che sono stati considerati inesistenti e che avrebbero concorso a realizzare la distrazione – nella forme dette – della somma di circa 90 mila Euro si sostanzia in una censura inammissibile per la sua genericità.

La sentenza impugnata infatti attesta che si tratta di debiti presi in considerazione nel contratto di cessione del ramo di azienda al fine di ridurre il prezzo della cessione ed inesistenti perchè in realtà già estinti in epoca precedente.

La critica della difesa secondo cui non sarebbe chiara la natura e la riferibilità di tali debiti non vale a integrare una censura apprezzabile nella sede della legittimità posto che avrebbe postulato la deduzione in appello di specifiche critiche al riguardo, tali da incidere in maniera rilevante sul costrutto accusatorio come sopra specificato e comunque da innestare il dovere di motivazione del giudice di secondo grado.

Anche in merito alla configurazione del reato di bancarotta fraudolenta documentale, la tesi accreditata dalla Corte di appello è trascurata nei motivi di impugnazione che pertanto vanno qualificati come generici e per tale aspetto inammissibili.

La Corte ha infatti ritenuto decisivo il fatto che i debiti vantati dai creditori che poi avevano attivato la procedura fallimentare non erano stati annotati nei libri contabili obbligatoli.

Si tratta di una considerazione decisiva nell’ottica del reato in esame che consiste nella tenuta di scritture in guisa da non consentire la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari.

Rispetto a tutti gli assunti ricordati alcun rilievo decisivo sembra potersi attribuire alla modalità di redazione dell’atto di cessione del ramo di azienda con la menzione della assunzione di responsabilità dei debiti della cedente.

Rilevante e decisiva è infatti la condotta consistita nell’avere personalmente lucrato del corrispettivo della cessione di un bene il cui valore avrebbe dovuto fungere da garanzia per le aspettative dei creditori.

Del tutto irrilevante, d’altra parte, ai fini della configurazione del reato di bancarotta anche dal punto di vista soggettivo è la circostanza della vendita con accollo di debiti, una volta che tali debiti non risultino onorati.

Il dolo del reato di bancarotta fraudolenta è infatti quello generico, dato dalla consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte ed a nulla rilevando che le condotte indicate dalla L. Fall., art. 216, comma 1, n. 1, si pongano in rapporto di stretta conseguenzialità -anche dal punto di vista meramente soggettivo – con la dichiarazione di fallimento o con lo stato di decozione, trattandosi di comportamenti che vengono considerati nell’implicita capacità di sottrarre beni alla loro naturale destinazione di supporto economico dell’impresa e tanto basta a giustificare un collegamento con lo stato di decozione e la conseguente procedura esecutiva. Non è quindi necessario cercare un vero e proprio nesso di causalità (Sez. 5, Sentenza n. 8038 del 03/06/1998 Ud. (dep. 07/07/1998) Rv. 211638; conforme Sez. 1, Sentenza n. 40172 del 01/10/2009 Ud. (dep. 16/10/2009) Rv. 245350) e tantomeno una consapevolezza di tale possibile nesso.

Infine irrilevante deve ritenersi la assunzione di responsabilità da parte dell’amministratore della cedente in ordine ai debiti della fallenda o la esposizione ad azione revocatoria del contratto stipulato.

Come è noto la giurisprudenza di questa Corte evidenzia che in tema di bancarotta fraudolenta, il recupero del bene distratto a seguito di azione revocatoria non spiega alcun rilievo sulla sussistenza dell’elemento materiale del reato di bancarotta, il quale – perfezionato al momento del distacco del bene dal patrimonio dell’imprenditore – viene a giuridica esistenza con la dichiarazione di fallimento, mentre il recupero della "res" rappresenta solo un "posterius" – equiparabile alla restituzione della refurtiva dopo la consumazione del furto – avendo il legislatore inteso colpire la manovra diretta alla sottrazione, con la conseguenza che è tutelata anche la mera possibilità di danno per i creditori (Rv. 248658;

conformi: N. 6168 del 1987 Rv. 175976, N. 4739 del 1999 Rv. 213120, N. 4150 del 2001 Rv. 219663, N. 17384 del 2005 Rv. 231853).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso dell’imputato D.B.U. e lo condanna al pagamento delle spese del procedimento.

Dichiara inammissibile il ricorso del Procurare generale.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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