Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 14-07-2011) 29-07-2011, n. 30237Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 9 dicembre 2009, la Corte d’Appello di Genova confermava la sentenza emessa l’1 giugno 2006, a seguito di giudizio abbreviato, dal G.I.P. del Tribunale di Savona e con la quale S.M. veniva condannato per la illecita detenzione di kg 19,962 di cocaina, pari a 68.130 dosi.

Avverso tale pronuncia il predetto proponeva ricorso per cassazione.

Con un primo motivo di ricorso deduceva la violazione di legge ed il vizio di motivazione, rilevando che il Pubblico Ministero procedente, dopo aver notificato l’avviso di chiusura indagini di cui all’art. 415 bis c.p.p., richiedeva al G.I.P., dopo che erano trascorsi altri quattro mesi, il giudizio abbreviato. Osservava, inoltre, che la notifica del predetto avviso era intervenuta circa cinque mesi dopo lo spirare del termine di 90 giorni stabilito dall’art. 453 c.p.p..

Rilevava pertanto che, nonostante avesse prontamente eccepito la violazione delle menzionate disposizioni processuali, le sue doglianze erano state disattese dapprima dal G.I.P. e, successivamente, dal giudice del gravame innanzi al quale erano state riproposte.

Lamentava così che la Corte territoriale aveva respinto l’eccezione con motivazione contraddittoria e manifestamente illogica laddove considerava la scelta del Pubblico Ministero come non lesiva dei diritti della difesa mentre, al contrario, essa aveva determinato la protrazione della custodia cautelare alla cui sottoposizione egli si sarebbe sottratto se si fosse seguito il normale percorso processuale conseguente alla notifica dell’avviso di cui all’art. 415 bis c.p.p. stante la decorrenza dei termini massimi di fase.

Con un secondo motivo di ricorso deduceva il vizio di motivazione con riferimento alla riconosciuta sussistenza dell’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80 non applicabile in ragione del quantitativo di stupefacente considerato non rilevante avuto riguardo al mercato di destinazione.

Con un terzo motivo di ricorso deduceva il vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche come prevalenti sulla contestata aggravante da parte della Corte d’Appello, la quale non avrebbe tenuto conto della totale incensuratezza e del comportamento collaborativo, valorizzando esclusivamente l’inserimento nella "manovalanza del crimine" già ritenuto dal giudice di prime cure.

Con un quarto motivo di ricorso, infine, denunciava la violazione di legge ed il vizio di motivazione con riferimento alla mancata rideterminazione della pena ai sensi dell’art. 2 c.p., comma 4 in considerazione della riduzione da otto a sei anni della pena base per il reato contestato ad opera della L. n. 49 del 2006, inutilmente richiesta al giudice dell’appello che si era limitato a dichiarare la pena proporzionata alla gravita del fatto e non riducibile.

Insisteva, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso è infondato.

La giurisprudenza di questa Corte è unanime nel ritenere che il termine di novanta giorni fissato dall’art. 454 c.p.p., comma 1, per la richiesta di giudizio immediato ha carattere tassativo per quanto attiene al compimento delle indagini, mentre ha natura ordinatoria quanto alla materiale presentazione della richiesta (Sez. 1 n. 45079, 23 dicembre 2010; Sez. 3 n. 41579, 12 novembre 2007; Sez. 3 n. 41867, 14 novembre 2007; Sez. 1 26305, 10 giugno 2004; Sez. 1 n. 32722, 4 agosto 2003; Sez. 3 n. 273, 12 gennaio 1996).

Da tale principio deriva, quale conseguenza, la possibilità, per il Pubblico Ministero, di avanzare la richiesta anche oltre il novantesimo giorno dall’iscrizione della persona nel registro degli indagati, a condizione che abbia terminato entro tale termine le indagini, che la prova risulti evidente e che l’indagato sia stato posto in grado di conoscere la contestazione e di difendersi attraverso l’interrogatorio o un suo valido avviso di fissazione (così Sez. 3 n. 273U996 cit.).

Nel caso di specie, contrariamente a quanto affermato in ricorso, non vi è stata alcuna violazione di norme processuali, poichè la scelta del Pubblico Ministero era pienamente legittima in presenza dei presupposti di legge che già il G.I.P. aveva riconosciuto, come emerge dal provvedimento allegato al ricorso.

Invero il ricorrente colloca il termine delle indagini nella data corrispondente a quella di emissione dell’avviso emesso ai sensi dell’art. 415 bis c.p.p., ma tale riferimento è del tutto errato perchè tale avviso, per ragioni diverse, ben può essere emesso e notificato dopo che l’attività di indagine si sia materialmente conclusa.

Il codice di rito, peraltro, non prevede per il Pubblico Ministero alcuna decadenza dal potere di esercitare l’azione penale in caso di superamento del termine per il compimento delle indagini preliminari, che ha, quale conseguenza, l’inutilizzabilità degli atti compiuti successivamente e la possibilità di avocazione da parte del Procuratore Generale ai sensi dell’art. 412.

Nella fattispecie, inoltre, il G.I.P. aveva evidenziato, nell’accogliere la richiesta di giudizio immediato, che il Pubblico Ministero disponeva degli elementi necessari per ricorrere al rito e che l’evidenza della prova era rinvenibile nell’ammissione dell’addebito da parte dell’indagato in sede di interrogatorio così implicitamente riconoscendo, considerata la data di espletamento dell’atto, che il termine di legge doveva ritenersi rispettato.

Altrettanto evidente appare l’assenza di conseguenze lesive dei diritti dell’indagato, in quanto la richiesta di giudizio immediato non ha comunque impedito al ricorrente di essere ammesso al giudizio abbreviato, al quale avrebbe potuto accedere anche in caso di giudizio ordinario. Vero è che la richiesta di giudizio immediato ha impedito la decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare con il passaggio di fase, ma tale scelta processuale del Pubblico Ministero era del tutto legittima e conforme alla legge.

Ne consegue che la sentenza impugnata, nel riconoscere la infondatezza dell’eccezione con argomentazioni sintetiche ma esaustive ed immuni da vizi logici, non risulta minimamente intaccata dalle censure mosse in ricorso.

Parimenti infondato risulta il secondo motivo di ricorso.

Occorre preliminarmente ricordare che la giurisprudenza di questa Corte è orientata nel ritenere la configurabilità della aggravante della quantità ingente di stupefacente contemplata dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80 quando, attraverso una valutazione in concreto del giudice di merito, risulti che la sostanza sia tale da costituire un pericolo rilevante per la salute pubblica perchè idonea a soddisfare le esigenze di un numero elevato di tossicodipendenti, senza che assuma rilevanza la situazione del mercato e la sua eventuale saturazione, in quanto tale elemento risulta di difficile valutazione stante la mancanza di dati di riferimento certi e verificabili in concreto (Sez. 4 n. 24571, 30 giugno 2010; Sez. 3 n. 23915, 22 giugno 2010; Sez. 6 n. 13870, 12 aprile 2010; Sez 5 n. 39205, 20 ottobre 2008; Sez. 6 n. 10384, 6 marzo 2008; Sez. 4 n. 43372, 23 novembre 2007; Sez. 4 n. 11510, 11 marzo 2004; Sez. 6 n. 7254, 24 febbraio 2005; Sez. 4 n. 47891, 10 dicembre 2004; Sez. 4 n. 12186, 13 marzo 2004; Sez. 4 n. 45427, 25 novembre 2003; Sez. 4 n. 44518, 20 novembre 2003).

Va altresì aggiunto che deve registrarsi un diverso e recente indirizzo, al momento minoritario, che individua il concetto di ingente quantità con riferimento ad un limite quantitativo affermando, conseguentemente, che non possono di regola definirsi "ingenti" i quantitativi di droghe "pesanti" (ad es., eroina e cocaina) o "leggere" (ad es., hashish e marijuana) che, sulla base di una percentuale media di principio attivo per il tipo di sostanza, siano rispettivamente al di sotto dei limiti di due chilogrammi e cinquanta chilogrammi (Sez. 6 n. 12404, 28 marzo 2011; Sez. 6 n. 42027, 26 novembre 2010; Sez. 6 n. 20120, 26 maggio 2010; Sez. 6 n. 20119, 26 maggio 2010).

Tale secondo indirizzo, tuttavia, non appare condivisibile perchè, come già osservato (Sez. 4 n. 24571, 30 giugno 2010, cit.;) tale limite quantitativo si risolverebbe in un dato avente valenza normativa che tuttavia il legislatore non ha ritenuto di dover indicare, nè può ritenersi soddisfacente il riferimento ai dati di comune esperienza particolarmente apprezzabili dalla Corte di cassazione quale punto di confluenza di una rappresentazione casistica generale, in quanto non effettivamente riscontrabili con riferimento al solo dato quantitativo e ad una generica "percentuale media" di principio attivo.

L’assunto è stato successivamente condiviso da altra pronuncia (Sez. 4 n. 9927, 11 marzo 2011) la quale ha nuovamente affermato che, per determinare la sussistenza della aggravante di cui si tratta, non è consentito predeterminare limiti quantitativi minimi ed ha precisato che la fattispecie di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80 non viola comunque il principio di determinatezza, dovendo aversi riguardo, perchè possa essere configurata l’aggravante, all’oggettiva eccezionaiità del quantitativo sotto il profilo ponderale, al grave pericolo per la salute pubblica che lo smercio di un tale quantitativo comporta, alla possibilità di soddisfare le richieste di numerosissimi consumatori per l’elevatissimo numero di dosi ricavabili).

Anche questa Sezione (Sez. 3 n. 16447, 27 aprile 2011) ha condiviso tale ultimo orientamento precisando che in tema di illecita detenzione di sostanze stupefacenti la nozione di ingente quantitativo va considerata con riferimento all’elemento ponderale, alla quantità del principio attivo, alla qualità dello stupefacente ed agli effetti negativi causati agli assuntori.

Alla luce di tali considerazioni la sentenza impugnata deve pertanto ritenersi corretta laddove ha ritenuto che il quantitativo di stupefacente per entità e per numero di dosi ricavabili fosse senz’altro da ritenersi ingente.

A conclusioni analoghe deve giungersi per quanto riguarda il terzo motivo di ricorso.

Il giudice di prime cure ha infatti concesso le circostanze attenuanti generiche attraverso una valutazione ritenuta corretta dai giudici del gravame. Tuttavia, nel giudizio di comparazione, dette attenuanti sono state ritenute equivalenti alla aggravate contestata, valutando negativamente l’inserimento dell’imputato nella "manovalanza del crimine".

Tale assunto non viene condiviso in ricorso, ove si evidenzia il maggior rilievo che avrebbe dovuto assumere lo stato di incensuratezza dell’imputato medesimo e la confessione resa. La doglianza, che peraltro risulta connotata da estrema genericità, si pone tuttavia in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte, la quale ha chiarito come, ai fini del giudizio di comparazione fra circostanze aggravanti e circostanze attenuanti, anche la sola enunciazione dell’eseguita valutazione delle circostanze concorrenti soddisfi l’obbligo della motivazione, trattandosi di un giudizio rientrante nella discrezionalità del giudice e che, come tale, non postula un’analitica esposizione dei criteri di valutazione (così, testualmente, Sez. 2 n. 36265, 11 ottobre 2010; conf. Sez. 4 10379, 17 luglio 1990; Sez. 4 n. 4244, 22 marzo 1989).

A tale principio aderisce il Collegio, condividendone le ragioni e riconoscendo, conseguentemente, come conforme a legge e del tutto coerente la valutazione operata dalla Corte territoriale.

Con riferimento al quarto motivo di ricorso, deve rilevarsi che la giurisprudenza di questa Corte ha più volte preso in esame le conseguenze derivanti dalle modifiche introdotte dalla L. n. 49 del 2006 alla disciplina in materia di stupefacenti sui processi pendenti con specifico riferimento alla modifica del trattamento sanzionatorio intervenuta successivamente alla sentenza di primo grado.

Si è così osservato (Sez. 6 n. 32673, 3 settembre 2010; Sez. 2 n. 12344, 29 marzo 2010; Sez. 2 n. 18159, 13 maggio 2010; Sez. 6 n. 40105, 15 ottobre 2009 ed altre prec. conf.) che non vi è alcun obbligo per il giudice dell’appello di rimodulare la sanzione irrogata in misura più favorevole al reo se il primo giudice, nel quantificare la sanzione, non si sia attestato sul minimo edittale.

Il giudice del gravame deve procedere ad una autonoma rivalutazione della sanzione in termini di adeguatezza all’effettivo disvalore sociale della condotta criminosa e tale giudizio, se congruamente motivato, non è sindacabile in sede di legittimità.

Nella fattispecie, la pena base individuata dal giudice di prime cure, come osservato in ricorso, era di anni 12, superiore, pertanto, al minimo edittale e la Corte territoriale, investita della questione, ha reputato adeguata la sanzione finale, ponendo l’accento sulla gravita del fatto, ritenendola ad esso proporzionata e, conseguentemente, non suscettibile di riduzione.

Anche sul punto, pertanto, la Corte d’Appello ha adeguatamente assolto all’onere motivazionale impostogli con argomentazioni che, in quanto coerenti e immuni da vizi logici, superano agevolmente il vaglio di legittimità nonostante l’estrema sintesi.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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