Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 14-07-2011) 29-07-2011, n. 30235

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 13 maggio 2010, la Corte d’Appello di Palermo confermava la pronuncia emessa il 21 gennaio 2009 dal Tribunale di quella città, in composizione monocratica, con la quale P. S. veniva condannato per illecita detenzione di sostanze stupefacenti Avverso tale decisione il P. proponeva ricorso per cassazione.

Con un primo motivo di ricorso deduceva violazione di legge e vizio di motivazione, rilevando che la decisione impugnata si limitava, con motivazione per relationem, a riconoscere l’attendibilità della decisione del primo giudice e minimizzare le censure mosse con il gravame, accedendo ad una ricostruzione dei fatti che si poneva in contrasto con quanto dichiarato dai testi indotti dalla difesa.

Con un secondo motivo di ricorso denunciava la violazione di legge, in relazione agli artt. 62 bis e 133 c.p., per la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, che erano state negate sulla base della assenza di situazioni non previste dall’art. 62 c.p. suscettibili di favorevole valutazione e senza tenere conto di altri elementi, quali l’assenza di precedenti di particolare rilievo, l’età e le condizioni di tempo e di luogo in cui si erano svolti i fatti.

Insisteva, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato.

Va preliminarmente osservato come la giurisprudenza di questa Corte abbia costantemente ritenuto che la motivazione per relationem effettuata dal giudice d’appello sia generalmente legittima e consenta al giudice di fornire adeguata giustificazioni delle ragioni poste a sostegno della pronuncia.

L’ambito di ammissibilità di una siffatta motivazione è stato, tuttavia, compiutamente delimitato, indicando in modo dettagliato entro quali limiti il giudice d’appello possa avvalersene.

Si è così precisato, in un primo tempo, come non sia necessario, per il giudice d’appello, esaminare nuovamente le questioni genericamente formulate nei motivi di gravame e sulle quali si sia già soffermato il giudice di prime cure, con argomentazioni esatte e prive di vizi logici, quando le censure mosse alla sentenza di primo grado non contengano elementi nuovi rispetto a quelli già esaminati e disattesi (Sez. 5 n. 4415, 8 aprile 1999; Sez. 5 n. 7572, 11 giugno 1999; Sez. 6 n. 31080, 15 luglio 2004).

E’ dunque consentito al giudice di appello uniformarsi, tanto per la ratto deciderteli, quanto per gli elementi di prova, agli stessi argomenti valorizzati dal primo giudice, specie se la loro consistenza probatoria sia così prevalente e assorbente da rendere superflua ogni ulteriore considerazione (Sez. 5 n. 3751, 23 marzo 2000).

In tale circostanza, ciò che si richiede al giudice del gravame è, in definitiva, una valutazione critica delle argomentazioni poste a sostegno dell’appello, all’esito della quale risulti l’infondatezza dei motivi di doglianza (cfr. Sez. 4 n. 16886, 20gennaio 2004).

Tali argomentazioni sono state ulteriormente ribadite, osservando che la conformità tra l’analisi e la valutazione degli elementi di prova posti a sostegno delle rispettive pronunce nelle sentenze di primo e secondo grado determina una saldatura della struttura motivazionale della sentenza di appello con quella del primo giudice tale da formare un unico, complessivo corpo argomentativo (Sez. 6, n. 6221, 16 febbraio 2006).

L’individuazione dei limiti di legittimità della motivazione per relationem trova un ulteriore punto fermo nell’obbligo del giudice d’appello di argomentare sulla fallacia, inadeguatezza o non consistenza dei motivi di impugnazione in presenza di specifiche censure dell’appellante sulle soluzioni adottate dal giudice di primo grado, poichè il mero richiamo in termini apodittici o ripetitivi ala prima pronuncia o la semplice reiezione delle censure predette determina un evidente vizio di motivazione (Sez. 6 6221/06 cit.; Sez. 6, n. 35346, 15 settembre 2008; Sez. 4, n. 38824, 14 ottobre 2008, Sez. 3 n. 24252, 24 giugno 2010).

Date tali premesse, si osserva che, nel caso di specie, il giudice dell’appello non si è limitato ad un acritico richiamo della pronuncia di primo grado, poichè ha chiaramente evidenziato i contenuti del gravame e le ragioni per le quali gli stesi dovevano essere disattesi.

La Corte d’Appello rilevava, infatti, che l’appellante aveva invocato, alternativamente, l’assoluzione per insussistenza del fatto, per non aver commesso il fatto "quantomeno ai sensi dell’art. 530 cpv. c.p.p." dando compiutamente atto delle risultanze del complessivo quadro probatorio acquisito nel corso del dibattimento, anche con riferimento alle allegazioni difensive delle quali escludeva la rilevanza.

In particolare, la Corte territoriale richiamava il contenuto analitico del verbale di arresto e la conferma, in dibattimento, dell’attività di osservazione posta in essere dalla polizia giudiziaria operante, la quale aveva individuato il ricorrente, facilmente riconoscibile dalla grossa corporatura, mentre cedeva in più occasioni stupefacenti a persone che gli si avvicinavano a bordo di motocicli.

I giudici del merito escludevano anche la rilevanza della contemporanea distribuzione agli acquirenti, da parte del ricorrente, di volantini elettorali e dell’esito negativo delle perquisizioni effettuate, trattandosi di situazioni perfettamente compatibili con il comportamento dell’imputato, il quale cedeva rapidamente lo stupefacente allontanandosi poi brevemente avendo, così, la possibilità di liberarsi del denaro e prelevare le singole dosi di stupefacente.

Del tutto insussistente appare, inoltre, il vizio di motivazione denunciato.

Sul punto deve ricordarsi che la consolidata giurisprudenza di questa Corte è orientata nel senso di ritenere che il controllo sulla motivazione demandato al giudice di legittimità resta circoscritto, in ragione della espressa previsione normativa, al solo accertamento sulla congruità e coerenza dell’apparato argomentativo con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo e non può risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti (si vedano ad esempio, limitatamente alla pronunce successive alle modifiche apportate all’art. 606 c.p.p. dalla L. n. 46 del 2006, Sez. 6 n. 10951, 29 marzo 2006; Sez. 6 n. 14054, 20 aprile 2006; Sez. 6 n. 23528, Sez. 3 n. 12110, 19 marzo 2009).

Così delimitato l’ambito di operatività dell’art. 606 c.p.p., lett. e), si osserva che, anche sotto tale profilo la sentenza impugnata risulta immune da censure avendo i giudici, come si è già detto, operato un’accurata analisi delle ragioni poste a sostegno della decisione di primo grado e dei rilievi della difesa sviluppati nei motivi di appello con una valutazione complessiva degli elementi fattuali offerti alla loro attenzione del tutto priva di contraddizioni, con la conseguenza che ciò che il ricorrente richiede è, in sostanza, una inammissibile rilettura del quadro probatorio e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata.

Con riferimento al secondo motivo di ricorso, occorre ricordare che la concessione delle attenuanti generiche presuppone la sussistenza di positivi elementi di giudizio e non costituisce un diritto conseguente alla mancanza di elementi negativi connotanti la personalità del reo, cosicchè deve ritenersi legittimo il diniego operato dal giudice in assenza di dati positivi di valutazione (Sez. 1 n. 3529, 2 novembre 1993; Sez. 6 n. 6724, 3 maggio 1989; Sez. 6 n. 10690, 15 novembre 1985; Sez. 1 n. 4200, 7 maggio 1985).

Inoltre, riguardo all’onere motivazionale, deve ritenersi che il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti o risultanti dagli atti, ben potendo fare riferimento esclusivamente a quelli ritenuti decisivi o, comunque rilevanti ai fini del diniego delle attenuanti generiche (v. Sez. 6 n. 34364, 23 settembre 2010) con la conseguenza che la motivazione che appaia congrua e non contraddittoria non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità neppure quando difetti uno specifico apprezzamento per ciascuno dei reclamati elementi attenuanti invocati a favore dell’imputato (Sez. 6 n. 42688, 14 novembre 2008; Sez. 6 n. 7707, 4 dicembre 2003).

Ciò posto, nel caso in esame la Corte territoriale, con apprezzamento congruo e privo di cedimenti logici, ha fondato il proprio diniego sulla assenza di condizioni suscettibili di valutazione favorevole al di là della lieve entità del fatto che già era stata presa in considerazione con l’applicazione della circostanza attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5.

Va infine aggiunto che tale situazione non presenta alcun elemento di contraddizione, essendosi ripetutamente affermato che non sussiste alcuna antinomia tra circostanze tipizzate e non tipizzate, queste ultime aventi carattere residuale, con la conseguenza che il diniego delle attenuanti generiche, attraverso le quali si è prevista la possibilità di valutare, ai fini della graduazione della pena, elementi e circostanze non espressamente previsti e tipizzati dal legislatore, non è incompatibile con il riconoscimento della menzionata attenuante del fatto di lieve entità (Sez. 6 n. 8995, 5 marzo 2010; Sez. 4 n. 18377, 25 maggio 2006; Sez. 4 n. 2288, 23 febbraio 1998; Sez. 4 n. 1020, 5 febbraio 1997).

Il ricorso deve essere pertanto rigettato con le conseguenze indicate nel seguente dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

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