Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 24-06-2011) 29-07-2011, n. 30293

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con sentenza del 21.6.20101 la Corte di appello di Bari, in parziale riforma della sentenza emessa dal gup del tribunale di Bari in data 14.7.2009, riaffermava la colpevolezza di V.M. e di Vi.Da. in ordine al reato di cui all’art. 416 bis cod. pen., ritenendoli partecipi del sodalizio facente capo a B. G., operante nella zona di Foggia e contrapposto al clan Sinesi, alla luce delle intercettazioni telefoniche e delle dichiarazioni rese da G.B. e dallo stesso V..

La Corte territoriale riteneva che la versione del V. di non aver potuto sottrarsi alle minacce di B.G. e di essere quindi stato costretto ad aderire al sodalizio, non potevano ritenersi credibili, avendo avuto il medesimo la possibilità di liberarsi dalla costrizione facendo ricorso agli organi di giustizia.

Quanto poi al Vi., veniva ribadita la natura mafiosa dell’agguato ai danni di A. e C., cui egli aveva partecipato. Secondo la difesa, l’azione sarebbe stata stimolata da ragioni di vendetta personale e non di gruppo, ma l’assunto non veniva condiviso posto che veniva ricordato che nella telefonata n. 1286 fu proprio il Vi. a spiegare la posizione nella gerarchia malavitosa rivestita dall’ A., che non gli consentiva di alzare le mani con l’arma. Altre conversazioni documentavano i contatti del Vi. per la ricerca della vittima e l’attuazione dell’agguato, con la complicità del B., il che evidenziava la matrice non solo personale dell’azione. Ancora, veniva valorizzato il dato della frequentazione della casa bunker di B.G. da parte dell’imputato, nonchè le dichiarazioni dello stesso V. e della fidanzata di quest’ultimo quanto al fatto che a carico del gruppo erano state assunte le spese per l’assistenza legale del Vi., il che dava concreta dimostrazione del legame di costui con la compagine.

Quanto al tentato omicidio in danno dell’ A. e del C., veniva escluso il recesso attivo, che presuppone che l’attività esecutiva sia compiutamente esaurita, con il che la decisione del Vi. di tirarsi indietro in limine non veniva ritenuta idonea a configurare neppure l’esimente della desistenza. E si riteneva che il concorrente nel reato plurisoggettivo che intenda beneficiare della applicazione dell’art. 56 cod. pen., comma 3, deve attivarsi per evitare la realizzazione concorsuale della condotta criminosa o quanto meno, eliminare le conseguenze del suo apporto causale, rendendolo estraneo e irrilevante rispetto al reato commesso dagli altri.

Non veniva riconosciuta la ricorrenza dell’attenuante di cui all’art. 114 cod. pen., atteso che non era seriamente sostenibile che l’apporto del Vi. fosse stato di rilevanza causale così marginale, rispetto al ferimento dei destinatari dell’agguato, poichè il predeto alimentò il proposito di vendetta, si occupò della ricerca della vittima e accompagnò il B. assumendosi inizialmente il compito di sparare.

2. Avverso tale pronuncia, hanno proposto ricorso per Cassazione entrambi gli imputati:

– la difesa di V. ha dedotto illogicità della sentenza, per essere da un lato stata ritenuta provata la forza intimidatoria del gruppo criminale e dall’altro esser stato affermato che non fu fornita prova da parte dell’imputato di aver subito l’intimidazione dal gruppo a cui era associato e dal quale ben difficilmente poteva allontanarsi, senza gravi conseguenze personali, nonchè per aver errato il giudice a quo nella determinazione degli aumenti di pena a titolo di continuazione, senza tenere conto della particolare condizione soggettiva dell’imputato.

– Il Vi. personalmente ha dedotto l’erronea applicazione dell’aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7, essendo stato erroneamente ritenuto pienamente consapevole che l’omicidio di cui si macchiò era funzionale agli scopi del sodalizio mafioso. L’imputato ha ribadito di esser stato mosso solo da motivi di vendetta personale, essendo stato vittima di un atto di violenta aggressione e che le eventuali diverse ragioni che possono aver animato il B. non gli appartenevano. Sostiene l’imputato che dell’aggravante in parola non ricorrerebbero i presupposti, poichè egli non è mai stato condannato per mafia e non risulta appartenere a consorterie, l’arma non era da guerra, non vi era alcuna mafiosità nel suo agire, poichè anzi si mostrò insicuro, titubante, quando non timoroso.

Ancora sostiene che doveva essere ritenuta la desistenza, poichè nella fase di aperto contrasto tra i due clan avversi egli Vi. non comparve mai, che è stato lo stesso V. a precisare che secondo B.G. A.A. era stato trovato a bordo di uno scooter unitamente a C.N. che era armato e che a quel punto egli Vi. non volle più sparare, cosa che aveva fatto il V.. Il che a suo dire costituirebbe desistenza non per l’intervento di fattori esterni, ma per libera scelta, e fu grazie al suo rifiuto a sparare che l’azione non venne portata alle estreme conseguenze.

Inoltre si duole per la mancata applicazione della diminuente di cui all’art. 114 cod. pen., atteso che il ruolo da lui rivestito sarebbe stato di minima importanza, essendosi limitato ad accompagnare il correo senza partecipare alla fase culminante, cioè esplodere i colpi.

La motivazione poi sarebbe a suo dire illogica in alcuni passaggi:

avrebbe la Corte ritenuto che egli cercava vendetta per l’affronto subito e poi fu riconosciuto consapevole della finalità che il gruppo perseguiva con detta azione. Delle due l’una, o egli Vi. partecipò al tentato omicidio per risentimento contro l’ A., ovvero questo risentimento fu solo un’occasione per commettere il delitto. In ogni caso, vi era una ben precisa volontà in lui che era quella di vendicare il pubblico pestaggio subito.

Inoltre, si duole che da un lato sia stato detto che egli non sparò, dall’altro fu scritto in sentenza che fu animato da dolo di notevole intensità. 3. Sono stati presentati motivi aggiunti ad opera dell’imputato Vi. che si lamenta che il giudice d’appello gli abbia riconosciuto le circostanze attenuanti generiche e abbia ritenuto il fatto sub H) nei termini di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6, ma poi abbia rideterminato la pena, ponendo come reato più grave a base del calcolo il tentato omicidio, violando il principio del divieto di reformatio in peius. Sostiene poi che la motivazione è illogica perchè da un lato si dice che lui Vi. non volle saperne di sparare, dopo di che lo si è condannato a pena severa per l’intensità del dolo manifestato.

CONSIDERATO IN DIRITTO Entrambi i ricorsi sono manifestamente infondati e vanno dichiarati inammissibili.

– Quanto al ricorso del V. deve essere sottolineato che i giudici di merito hanno argomentato in modo congruo e lineare, sulla base delle stesse dichiarazioni dell’interessato e di quelle di B.R., sul fatto che lo stesso faceva parte di un sodalizio criminale operante nella zona di Foggia, in lotta con gruppi avversi per il controllo del territorio, e che ebbe a partecipare alla vita dell’associazione ed alla programmazione di vari agguati omicidiari nei confronti di componenti del clan avverso.

Dichiarazioni queste riscontrate da quanto emerso dal controllo telefonico ed ambientale che accredita un penetrante inserimento del V. nel gruppo criminale. Secondo la Corte territoriale non poteva ritenersi che il medesimo fosse stato obbligato ad operare nell’orbita del sodalizio, poichè lo stesso neppure evidenziò le ragioni della costrizione e poi perchè comunque la costrizione non poteva ritenersi caratterizzata da inevitabilità: il ragionamento seguito è privo di aspetti di criticità, in quanto logicamente ineccepibile. Quanto alla pena è stato sottolineato dalla Corte territoriale che l’aumento di mesi sei di reclusione per ciascuno dei reati satellite, reati tutti di notevole gravita, risponde a valutazione assolutamente di favore, proprio in ragione della collaborazione offerta dal menzionato: detta valutazione – non censurabile in sede di legittimità-risulta a monte supportata da argomentazioni ragionevoli e rispondenti a corretti criteri di dosimetria.

– Quanto al ricorso del Vi. parimenti ne va dichiarata l’inammissibilità, poichè il medesimo ripropone sostanzialmente le stesse doglianze avanzate in appello, senza considerare le ineccepibili risposte che sono state date alle sue deduzioni con la sentenza impugnata. E’ stata correttamente ritenuta l’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, sulla base di contributi acquisiti con le intercettazioni, attestanti come l’azione di aggressione a danno dell’ A. era strumentale ai progetti egemonici del clan capeggiato da B.G. e dai M. e venne adeguatamente studiata con il contributo decisivo proprio del Vi., che si fece carico di ricercare la vittima e di tendergli l’agguato. La corte riteneva poi che seppure il Vi. potesse nutrire risentimento personale nei confronti della vittima, intervenne su incarico del B. e pienamente al corrente del vero obiettivo di vendetta perseguito dal gruppo. Anzi, secondo la Corte territoriale, il fatto stesso che all’ultimo momento egli sia stato sostituito dal B. nell’azione di sparo, sta a dimostrare come l’azione non fu frutto del risentimento personale, ma si trattò di un’azione di gruppo con finalità che coinvolgevano stratificati interessi: il ragionamento è assolutamente accettabile e non si espone a censure di sorta.

Nè può essere ritenuto che la sostituzione del Vi. nel momento conclusivo in cui si dovette premere il grilletto vada interpretata come desistenza da parte di lui, poichè ancora del tutto correttamente la corte ha reputato che la decisione del Vi., di tirarsi indietro all’ultimo momento non era idonea a giustfcare l’applicazione dell’art. 56 c.p., comma 3, atteso che si limitò a rifiutarsi di sparare senza porre in essere alcuna condotta che annullasse il significativo contributo da lui dato alla realizzazione dell’agguato in termini di rafforzamento del proposito criminoso nel complice, di ricerca della vittima e di preparazione della spedizione: tale valutazione si pone in perfetta armonia con i principi normativi e giurisprudenziali sul tema, che richiedono per ravvisare la desistenza l’eliminazione dell’apporto causale offerto, rendendolo irrilevante rispetto al reato commesso dagli altri.

Anche la esclusione della diminuente di cui all’art. 114 cod. pen. è stata motivata in modo assolutamente adeguato, sul presupposto che nell’economia dell’azione il contributo del Vi. fu tutt’altro che trascurabile, avendo anzi egli fornito un ruolo molto significativo nella fase esecutiva, immediatamente precedente l’agguato, che non può essere valutato in termini di minima rilevanza. Anche sul punto l’iter argomentativo della corte territoriale è immune da censure, perchè lineare e aderente ai principi normativi e alla loro uniforme interpretazione.

Sulla base del fattivo inserimento in un gruppo criminale ad elevata potenzialità offensiva e del ruolo significativo rivestito nella preparazione dell’agguato dall’ A. i giudici di merito, con valutazione non censurabile in questa sede poichè adeguatamente motivata e non contraddittoria contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, hanno determinato la pena in misura più elevata del minimo edittale. Tale misura non è stata contestata peraltro con i motivi di ricorso, ma è stata fatta oggetto di censura solo con i motivi nuovi, con cui è stata dedotta anche violazione dell’art. 597 cod. proc. pen.. La censura è inammissibile, essendo principio pacifico quello secondo cui sono inammissibili i motivi nuovi aventi ad oggetto il trattamento sanzionatorio se l’impugnazione della sentenza abbia ad oggetto solo il profilo della responsabilità (Sez. 1^, 1.10.2009, n. 40174, Lenja).

Si impone quindi la dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi; a tale declaratoria, riconducibile a colpa dei ricorrenti, consegue la loro condanna al pagamento delle spese del procedimento e di somma che congruamente si determina in Euro 1000,00 ciascuno, a favore della cassa delle ammende, giusto il disposto dell’art. 616 c.p.p., così come deve essere interpretato alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 186/2000.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed al versamento, ciascuno, della somma di Euro 1.000,00 alla cassa delle ammende.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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