Cass. pen., sez. II 13-04-2007 (02-04-2007), n. 15117 Abbreviato condizionato – Assunzione della prova non più possibile per fatti sopravvenuti e imprevedibili – Revoca dell’ordinanza ammissiva – Assenza del consenso dell’imputato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

MOTIVI DELLA DECISIONE
P.V. ricorre a questa Suprema Corte contro la sentenza della Corte d’Appello di Roma in data 17 dicembre 2004 con la quale è stato condannato per il delitto di ricettazione.
Egli propone un motivo unico, col quale deduce la nullità della sentenza di primo grado per violazione degli artt. 438, 512 e 604 c.p.p..
Dinanzi al Tribunale il P. aveva chiesto procedersi con rito abbreviato condizionato all’esame del teste R.R., e la sua richiesta era stata accolta. Tuttavia, il R. era risultato irreperibile, e impossibile il suo esame, sicchè il Tribunale, in data 7 febbraio 2003, aveva revocato l’ammissione dell’integrazione probatoria e aveva invitato le parti a concludere.
Nell’atto d’impugnazione in appello il ricorrente sosteneva che detto modo di procedere era irrituale, poichè il Tribunale, verificata l’impossibilità della condizione apposta dall’imputato alla scelta del rito, avrebbe dovuto procedere nelle forme ordinarie, e non avrebbe potuto acquisire le dichiarazioni rese dal R. alla Polizia Giudiziaria in fase d’indagine preliminare. L’aver invece proceduto con rito abbreviato allo stato degli atti rendeva nullo il processo, viziando irrimediabilmente anche le sentenze. La Corte d’Appello di Roma respingeva l’impugnazione, rilevando che il Tribunale aveva pienamente adempiuto, per quanto possibile in fatto, alla richiesta d’integrazione probatoria dell’imputato, e che la stessa difesa di fiducia del P., presente in aula, non aveva sollevato alcuna obiezione alla richiesta del giudice di concludere nell’ambito del rito abbreviato, una volta rivelatisi infruttuosi i tentativi di esaminare il R..
Il ricorso del P. contro la sentenza di secondo grado ripropone gli stessi argomenti posti a fondamento dell’appello.
Il ricorso è manifestamente infondato.
Non è un caso che il ricorrente non citi la norma dalla quale dovrebbe derivare la nullità che egli eccepisce, che non è desumibile da alcuna disposizione di legge. Al contrario, si sarebbe potuta porre in dubbio la legittimità dell’ordinanza che avesse provveduto alla revoca del rito abbreviato condizionato al di fuori dei casi stabiliti nell’art. 441 bis c.p.p. (cfr. Cass. Sez. 1^, sent. n. 33965 dep. il 9 agosto 2004, che ha qualificato come abnorme tale provvedimento).
La scelta del rito abbreviato è infatti tendenzialmente irrevocabile, anche se la violazione di questa regola non è assistita da una sanzione specifica (cfr. Cass. Sez. 1^, sent. n. 3600 dep. il 9 agosto 1996), e trova la propria attuazione nel principio secondo cui l’imputato ha comunque diritto alla diminuente di un terzo se sussistevano i presupposti per procedere con rito abbreviato.
Non è dunque possibile supporre che il giudice, una volta ammesso il rito alternativo, lo possa revocare indipendentemente da una qualsiasi manifestazione di volontà dell’imputato. E’ proprio il pericolo di questa sovrapposizione della volontà del giudice a quella dell’imputato che risiede alla base delle recenti pronunce che hanno utilizzato la nozione di abnormità per sanzionare la revoca dell’ordinanza di ammissione del rito ad iniziativa esclusiva del giudice (cfr., oltre il precedente citato, anche Cass. Sez. 1^, sent. n. 17317 dep. il 14 aprile 2004).
Nè può disegnarsi, alla stregua del diritto vigente, una norma speciale per l’abbreviato condizionato, anche quando l’integrazione probatoria non possa aver luogo per circostanze imprevedibili e sopraggiunte, perchè comunque non sarebbe concepibile una revoca unilaterale da parte del giudice, che presuppone valutazioni di opportunità esclusivamente pertinenti alla persona dell’imputato.
Sembra invece che il ricorrente censuri proprio il fatto che il Tribunale non abbia adottato un provvedimento che sarebbe stato sicuramente illegittimo, al di là della discutibilità della sanzione con la quale detta illegittimità debba essere colpita.
Come ha evidenziato la Corte territoriale, la difesa di fiducia del P. era presente in aula, e nulla ha obiettato alla richiesta del giudice di concludere nell’ambito del rito già ammesso. Tale comportamento acquiescente – oltre che porre un serio problema d’inammissibilità sia con riferimento all’appello che al presente ricorso – rendeva comunque impossibile al giudice anche solo prospettarsi una soluzione diversa dal proseguire col medesimo rito alternativo già ammesso e introdotto.
Il ricorrente sembra formulare riserve anche con riferimento all’acquisizione delle dichiarazioni del teste in corso d’indagini, ma non si vedono argomenti a sostegno di una tale questione: le dichiarazioni del R. erano comunque utilizzabili nell’ambito del rito abbreviato senza necessità di alcuna acquisizione (cfr. art. 438 c.p.p., comma 5 … ferma restando l’utilizzabilità … degli atti indicati nell’art. 442, comma 1 bis), anche se l’integrazione probatoria fosse consistita nel medesimo incombente, sicchè l’evocazione dell’art. 512 c.p.p. come norma violata è priva di pertinenza.
Il ricorso è pertanto manifestamente infondato, e il gravame va dichiarato inammissibile, con consequenziale condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, non esulando profili di colpa nella proposizione del gravame stesso, al versamento di una somma alla cassa delle ammende, che appare equo determinare in Euro 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

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