Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 10-06-2011) 29-07-2011, n. 30290Associazione per delinquere Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 3 marzo 2006, depositata il 27 ottobre 2010, la Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria ha parzialmente modificato la sentenza emessa dalla Corte d’assise di Locri il 17 novembre 2003 nei confronti di D.V., D. D., D.L.. B.G. e R. T..

2. D.V. ha avuto confermata la pena di anni 24 di reclusione infintagli:

– per il reato di cui al capo c) della rubrica (L. n. 685 del 1974, art. 75, commi 1, 3, 4 e 5 ed D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, commi 1, 2 e 4: aver partecipato ad un’associazione criminosa intesa al traffico di stupefacenti tipo eroina, cocaina e marijuana, col ruolo di promotore ed organizzatore), esclusi i fatti anteriori al luglio 1987, siccome coperti da un giudicato assolutorio per insufficienza di prove, emesso dal G.I. del Tribunale di Locri con sentenza del 27 maggio 1988 e, ritenuta la continuazione fra detto reato e quello di cui all’art. 416 bis cod. pen, giudicato dalla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria con sentenza del 13 novembre 2004, irrevocabile il 23 giugno 2005, è stata rideterminata in anni 1 e mesi 4 di reclusione la pena infintagli in aumento con la sentenza da ultimo citata, essendo stata ritenuta come violazione più grave quella di cui alla L. Stup., art. 74 oggetto della presente condanna.

3. D.D. ha avuto ridotta da anni 27 e mesi 6 ad anni 26 di reclusione la pena infintagli, ritenuta la continuazione:

-par il reato di cui al capo A) della rubrica, limitatamente ai fatti commessi dopo il 6 novembre 1979 (art. 416 bis cod. pen., commi 1, 3, 3 e 4: partecipazione ad un’associazione criminosa di stampo mafioso armata denominata "cosca D’Agostino", operante nel territorio di Santuario dello Ionio e zone limitrofe, col ruolo di promotore ed organizzatore); – per il reato di cui al capo C) della rubrica (L. n. 685 del 1974, art. 75, commi 1, 2, 3, 4 e 5 ed art. 74, commi primo, secondo e quarto del d.p.r. n. 309 del 1990: aver partecipato ad un’associazione criminosa dedita al traffico di stupefacenti tipo eroina, cocaina e marijuana, col ruolo di promotore ed organizzatore).

4. D.L. ha avuto ridotta da anni 24 ad anni 15 di reclusione la pena inflittagli:

– par li reato di cui al capo C) della rubrica (L. n. 685 del 1974, art. 75 commi 1, 2, 3, 4 e 5 ed D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, commi 1, 2 e 3: aver partecipato ad un’associazione criminosa dedita al traffico di stupefacenti tipo eroina, cocaina e marijuana, col ruolo di promotore ed organizzatore) e, ritenuta la continuazione fra detto reato e quelli giudicati dalla Corte d’appello di Torino con sentenza del 18 luglio 2001, irrevocabile il 12 luglio 2002, è stata rideterminata in anni 4 di reclusione ed Euro 800,00 di multa l’ulteriore pena inflittagli con la sentenza di cui sopra.

5. B.G. ha avuto ridotta dall’ergastolo con isolamento diurno per anni 2 all’ergastolo con isolamento diurno per anni 1 la pena inflittagli: -per il reato di cui al capo A) della rubrica, limitatamente ai fatti commessi dopo il luglio 1987, in relazione ad un giudicato assolutorio emesso nei suoi confronti dal Tribunale di Locri (art. 416 bis cod. pen., commi 1, 2, 3 e 4:

partecipazione ad un’associazione criminosa di stampo mafioso armata denominata "cosca D’Agostino", operante nel territorio di Santuario dello (OMISSIS) e zone limitrofe, col ruolo di promotore ed organizzatore); -per il reato di cui al capo 1 della rubrica (art. 416 bis commi 1, 2, 3 e 4 cod. pen.: partecipazione col ruolo di promotore ad un’associazione armata di stampo mafiosa denominata cosca Belcastro-Romeo, operante nel Comune di (OMISSIS) e territori viciniori tra l’agosto 1990 ed il 9 dicembre 1999);

– par il reato di cui al capo C) della rubrica (L. n. 685 del 1974, art. 75 commi 1, 2, 3, 4 e 5 ed D.P.R. n. 309 del 1990art. 74, commi 1, 2 e 4: aver partecipato ad un’associazione criminosa dedita al traffico di stupefacenti tipo eroina, cocaina e marijuana, col ruolo di promotore ed organizzatore, fra la seconda metà degli anni 70 ed il 9 dicembre 1999) -par il reato di cui al capo pi della rubrica ( L. n. 685 del 1975, art. 75 commi 1, 2, 3, 4 e 5 e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, commi 1, 2 e 4: partecipazione ad un’associazione criminosa intesa al traffico di stupefacenti operante in Calabria ed in altre regioni fra l’agosto 1990 ed il 9 dicembre 1999) comma 1, n. 3; artt. 56, 575 e 577 cod. pen., comma 1, n. 3: partecipazione in qualità di mandante all’omicidio di Q.E. attinto da numerosi colpi d’arma da fuoco e di tentato omicidio in danno di S.V., fatti commessi in Comune di (OMISSIS));

– per il reato di cui al capo N) della rubrica (artt. 110, 81 c.p.v., art. 61 cod. pen., n. 2, L. n. 497 del 1974, artt. 10 e 14: illecita detenzione di una pistola calibro 9 e di un fucile calibro 12, al fine di commettere i reati di cui al capo M) della rubrica);

– per il reato di cui al capo O) della rubrica (artt. 110, 81 c.p.v., art. 61 cod. pen., n. 2; L. n. 497 del 1974, artt. 12 e 14: porto illegale in luogo pubblico di una pistola calibro 9 e di un fucile calibro 12 al fine di commettere il reato di cui al capo M) della rubrica).

6. R.T. ha avuto ridotta dall’ergastolo con isolamento diurno per anni 3 all’ergastolo con isolamento diurno per anni 2 la pena inflittagli:

– per il reato di cui al capo A) della rubrica (art. 416 bis cod. pen., commi 1, 2, 3 e 4: partecipazione ad un’associazione criminosa di stampo mafioso armata denominata "cosca D’Agostino", operante nel territorio di Santuario dello Ionio e zone limitrofe, col ruolo di promotore ed organizzatore);

– per il reato di cui al capo B) della rubrica (art. 416 bis cod. pen., commi 1, 2, 3 e 4: partecipazione col ruolo di promotore ad un’associazione armata di stampo mafiosa denominata cosca Belcastro- Romeo, operante nel Comune di S. Ilario dello Ionio e tenitori viciniori tra l’agosto 1990 ed il 9 dicembre 1999); – per il reato di cui al capo Ci della rubrica (L. n. 685 del 1974, art. 75 commi 1, 2, 3, 4 e 5 ed D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, commi 1, 2 e 4: aver partecipato ad un’associazione criminosa dedita al traffico di stupefacenti tipo eroina, cocaina e marijuana, col ruolo di promotore ed organizzatore, fra la seconda metà degli anni 70 ed il 9 dicembre 1999);

– per il reato di cui al capo D) della rubrica ( L. n. 685 del 1975, art. 75, commi 1, 2, 3, 4 e 5 e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, commi 1, 2 e 4: partecipazione ad un’associazione criminosa intesa al traffico di stupefacenti operante in Calabria ed in altre regioni fra l’agosto 1990 ed il 9 dicembre 1999);

– per il reato di cui al capo M) della rubrica (artt. 110, 81 c.p.v., artt. 575, 577, comma 1, n. 3; artt. 56, 575 e art. 577 cod. pen comma 1, n. 3: partecipazione in qualità di organizzatore e di esecutore materiale all’omicidio di Q.E., attinto da numerosi colpi d’arma da fuoco e di tentato omicidio in danno di S.V., fatti commessi in Comune di Ardore il 15 agosto 1990);

– per il reato di cui al capo N) della rubrica (artt. 110, 81 c.p.v., art. 61 cod. pen., n. 2, L. n. 497 del 1974 artt. 10 e 14: illecita detenzione di una pistola calibro 9 e di un fucile calibro 12, al fine di commettere i reati di cui al capo M) della rubrica);

– per il reato di cui al capo O) della rubrica (artt. 110, 81 c.p.v., art. 61 cod. pen., n. 2; L. n. 497 del 1974, artt. 12 e 14: porto illegale in luogo pubblico di una pistola calibro 9 e di un fucile calibro 12 al fine di commettere il reato di cui al capo M) della rubrica);

– per il reato di cui al capo S) della rubrica (artt. 110, 81 c.p.v., artt. 575, 577 comma 1, n. 3, artt. 56, 575, art. 577 c cod. pen.omma 1, n. 3: omicidio di I.B., attinto da numerosi colpi d’arma da fuoco e tentato omicidio di S.A., con l’aggravante della premeditazione, fatti avvenuti in (OMISSIS));

– per il reato di cui al capo T) della rubrica (art. 110, art. 61 c.p., n. 2, L. n. 497 del 1974, artt. 10 e 14 illegale detenzione di un fucile calibro 12 caricato a panettoni, utilizzato per commettere i fatti di cui al capo S);

– per il reato di cui al capo U) della rubrica (artt. 110, 61, n. 2, L. n. 497 del 1974, artt. 12 e 14: illegale porto in luogo pubblico di un fucile calibro 12 caricato a panettoni, utilizzato per commettere i fatti di cui al capo S);

– per il reato di cui al capo V) della rubrica (artt. 110, 61, n. 2 e art. 648 cod. pen.: ricettazione dell’auto targata (OMISSIS), provento di furto in danno di M.D., al fine di commettere i fatti sub S);

– per il reato di cui al capo Z) della rubrica, esclusa l’aggravante di cui alla L. n. 203 dal 1991 art. 7 (artt. 110, 575, art. 577 cod. pen., comma 1, n. 3: avere partecipato in qualità di mandante all’omicidio di S.V., attinto da numerosi colpi d’arma da fuoco, fatto commesso in (OMISSIS));

– per il reato di cui al capo A1) della rubrica ( artt. 110, 61 cod. pen., n. 2, L. n. 497 del 1975, artt. 10 e 14, D.L. n. 152 del 1991, art. 7: illecita detenzione di una pistola calibro 9, ovvero di un revolver cal. 38, al fine di commettere il reato sub Z); con l’aggravante dell’avere commesso il fatto per agevolare la cosca mafiosa Belcastro-Romeo) – per il reato di cui al capo A2) della rubrica ( artt. 110, 61 cod. pen., n. 2, L. n. 497 del 1975, artt. 12 e 14, D.L. n. 152 del 1991, art. 7: illecito porto in luogo pubblico una pistola calibro 9, ovvero di un revolver cal. 38, al fine di commettere il reato sub Z); con l’aggravante dell’avere commesso il fatto per agevolare la cosca mafiosa Belcastro-Romeo).

7. Gli elementi di prova a carico di D.D., B.G. e R.T. per il reato sub A) (associazione mafiosa D’AGOSTINO) ed a carico di B.G. e R.T. per il reato sub B) (associazione mafiosa BELCASTRO- ROMEO) sono consistiti nelle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia F., P., L., B. e M., nonchè nell’acquisizione di due sentenze irrevocabili, di cui una emessa dal G.U.P. del Tribunale di Reggio Calabria il 7 dicembre 2001 ed un’altra emessa dalla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria il 13 novembre 2004, dalle quali era emersa la sussistenza e la piena operatività di detti sodalizi criminosi.

8. Gli elementi di prova a carico di D.V., D.D., D.L., B.G. e R.T. per il reato sub C) (associazione stupefacenti D.) ed a carico di B.G. e R.T. per il reato sub D) (associazione stupefacenti BELCASTRO-ROMEO) sono consistiti nelle dichiarazioni dei collaboratori C. A., B.F., G.V., I.P., F. F. e M.R..

9. L’omicidio di Q.E., il tentato omicidio di S.V. con i connessi reati in materia di armi, ascritti a B.G. in qualità di mandante ed a R. T. quale ideatore ed esecutore materiale (capi M), N) ed O) della rubrica ed avvenuti poco dopo le ore (OMISSIS), sulla strada provinciale che collega (OMISSIS), s’inseriva nello scontro all’epoca iniziato fra la cosca mafiosa capeggiata da B.G. e R.T. ed il sodalizio d’origine, facente capo ai fratelli D. e V. D., del quale le vittime erano autorevoli e temibili esponenti.

Elementi di prova a carico di B.G. e R.T. per i delitti in esame sono stati ravvisati nella deposizione riepilogativa resa dall’ispettore di polizia G.R.;

nelle deposizioni rese dai testimoni oculari F.B. e L.G., nonchè nelle dichiarazioni rese in dibattimento dai collaboratori di giustizia I., R., G., S., R., L., B., G., M., R., D.M. e P..

10. Anche l’omicidio di I.B., intraneo al clan mafioso D’agostino ed il tentato omicidio di S.A., con i connessi reati in materia di armi e di ricettazione, ascritti al solo R. T. sia quale mandante che quale esecutore materiale (capi S), T), U) e V) della rubrica, ed in ordine ai quali B.G. era stato mandato assolto dai giudici di primo grado ex art. 530 cod. proc. pen., comma 2, avvenuto intorno alle ore 14 del 27 ottobre 1990 lungo la strada provinciale che collega Santuario dello Jonio con la frazione Marina, era da inserire nell’ambito della faida fra i due anzidetti clan criminosi ed era stata una forma di ritorsione con la quale il sodalizio emergente BELCASTRO-ROMEO aveva reagito all’omicidio di M.V., avvenuto appena 18 giorni prima (9 ottobre 1990) ed attribuibile al clan D’AGOSTINO. Elementi di prova a carico di R.T. per i delitti in esame sono stati ravvisati nella deposizione del maresciallo dei carabinieri A.F., in servizio presso la compagnia carabinieri di Locri; nelle deposizioni rese dai testimoni oculari S. A., parte offesa, P.V., O.G. ed O.G.; nelle dichiarazioni rese in dibattimento dai collaboratori di giustizia G.V., I.P., P. L. e R.F..

11. Collegato a tale faida è stato infine ritenuto anche l’omicidio di S.V., scampato all’attentato del 15 agosto 1990, omicidio avvenuto in (OMISSIS) ed attribuito, unitamente ai connessi reati in materia di armi, al solo R. T. capi Z), A1) ed A2) della rubrica, non avendo la Corte territoriale ravvisato elementi sufficienti per ritenere responsabile di detti delitti altresì B.G., come invece ritenuto dai giudici di primo grado.

Elementi di prova a carico di R.T. per i delitti in esame sono stati ravvisati nelle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia G.V., P.L., I.P., C. A. e R.R..

12. Avverso detta sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria ricorrono per cassazione D.V., D. D., D.L.. B.G. e R. T. sia personalmente che a mezzo dei rispettivi difensori.

13. D.V. capo C): associazione stupefacenti D’Agostino", per il tramite dell’avv. Alfredo GAITO, ha proposto cinque motivi di ricorso.

Col primo motivo lamenta violazione di norme processuali, per avere la sentenza impugnata ritenuto che il P.M. non era tenuto a rinnovare l’esame dei collaboratori di giustizia, già effettuato nel corso delle indagini preliminari, con la formulazione degli avvertimenti di cui all’art. 64 comma 3 e art. 197 cod. proc. pen., avendo erroneamente ritenuto che le indagini preliminari si sarebbero di fatto chiuse con l’emissione della notifica dell’avviso di conclusioni, ex art. 415 bis cod. proc. pen. Col secondo motivo lamenta violazione del principio del "ne bis in idem" e vizio di motivazione, in quanto la sentenza impugnata aveva ritenuto coperto da giudicato assolutorio i fatti avvenuti fino al luglio 1987, si che occorreva saggiare la tenuta argomentativa della tesi espressa dalla sentenza impugnata, secondo la quale l’attività di spaccio era continuata anche dopo il 1987, attraverso la costituzione di un autonomo sodalizio delinquenziale facente capo ai BELCASTRO-ROMEO; tuttavia gli apporti dichiarativi dei collaboratori di giustizia sentiti ( G.V., I.P., D.M.L. e M.R.) avevano riguardato fatti anteriori al 1987 e coperti dal giudicato assolutorio, mentre erano da ritenere inadeguate le dichiarazioni rese dal collaboratore P.L., l’unico ad aver riferito di avere rifiutato sostanza stupefacente offertegli da esso ricorrente nei primi mesi del 1989; inoltre le dichiarazioni rese da F.F. non erano rilevanti, siccome riferite ad un periodo in cui esso ricorrente era in carcere, ovvero in regime di semilibertà.

Col terzo motivo lamenta violazione dei criteri di valutazione della prova e vizio di motivazione, in quanto la sentenza impugnata (pp. 106-112) aveva indicato vari traffici di droga che, dal racconto dei collaboratori di giustizia, sarebbero stati commessi dai soggetti ritenuti partecipi dell’associazione criminosa ipotizzata; in ordine a dette dichiarazioni la sentenza impugnata aveva ritenuto che esse, sebbene singolarmente non fornite di sufficienti elementi di conferma, erano da ritenere tuttavia riscontrate vicendevolmente; il che non era condivisibile, in quanto il riscontro poteva desumersi solo in caso di identità contenutistica, non ravvisabile nella specie, nella quale non era evidenziabile la cd. convergenza del molteplice.

Col quarto motivo lamenta erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione, in quanto la sentenza impugnata erroneamente aveva ritenuto di individuare un’autonoma struttura organizzativa dedita al traffico di droga ulteriore e differenziata rispetto alla preesistente cosca mafiosa, siccome non radicata solo nel territorio di Santuario ma estesa anche allo scambio ed al trasporto di sostanze stupefacenti fra la Calabria ed il Piemonte; il che tuttavia non era un elemento idoneo a differenziare l’associazione mafiosa rispetto a quella dedita allo spaccio di stupefacenti, anche perchè la sentenza aveva riconosciuto una sostanziale identità del nucleo soggettivo delle due associazioni, si che non era emerso in modo adeguato che vi fossero due associazioni criminose entrambe facenti capo alla famiglia D’AGOSTINO; inoltre nessuna dichiarazione dei pentiti aveva provato il suo effettivo inserimento in una compagine organizzata per il traffico di stupefacenti, avendo essi solo riferito in ordine a fatti di ritenuto spaccio; ed era nota l’autonomia del reato associativo rispetto ai singoli reati fine; comunque la sentenza impugnata nessuna motivazione aveva addotta circa il suo supposto ruolo di vertice in detto sodalizio; ed andava rilevato come la Corte d’appello di Messina, recependo le indicazioni del giudice di legittimità, aveva mandato assolti R.M. e V. dal delitto di partecipazione al medesimo sodalizio inteso al traffico di stupefacenti.

Con quinto morivo lamenta il particolare rigore della pena infittagli per il reato ascrittogli, atteso che le fonti probatorie individuate a suo carico si fermavano al 1989, anno in cui era ancora operativa la pregressa normativa, a lui più favorevole.

14. Il medesimo D.V. (capo C): associazione stupefacenti D’AGOSTINO, per il tramite dell’avv. Eugenio MINNITI, ha proposto ulteriori tre motivi di ricorso.

Col primo motivo lamenta violazione di legge e motivazione erronea, in quanto tutti i collaboratori escussi avevano riferito di un suo asserito ruolo verticistico ed apicale all’ipotizzata associazione intesa allo spaccio di stupefacenti per periodi anteriori al luglio 1987; e la sentenza impugnata aveva rilevato come i fatti anteriori al luglio 1987 erano da ritenere coperti dal giudicato assolutorio costituito dalla sentenza emessa dal G.I. del Tribunale di Locri il 27 maggio 1988.

Col secondo morivo lamenta violazione di legge e difetto di motivazione, in quanto l’art. 187 cod. proc. pen. costituiva una guida imprescindibile per la valutazione dell’attività probatoria;

la sentenza impugnata era invece caratterizzata da una manifesta illogicità del percorso argomentativo, con violazione anche delle norme di cui all’art. 192 cod. proc. pen., comma 2 e 3; invero i contributi propalatori di taluni collaboratori erano inverosimili e contraddittori e la stessa sentenza impugnata aveva dato atto che in un lungo arco temporale (circa 20 anni) non erano intervenuti sequestri di sostanze stupefacenti a carico di esso ricorrente e che nessuna condanna per episodi di detenzione di stupefacente era intercorsa, essendo mancati riscontri specifici alle dichiarazioni rese dai collaboratori; e, con riferimento a due partecipanti alla medesima associazione intesa al traffico di droga ( R.M. e R.V.) la Corte d’appello di Messina, a seguito di annullamento con rinvio di questa Corte, li aveva mandati assolti dal medesimo reato ascrittogli nella presente sede con la formula "per non aver commesso il fatto".

Per il periodo successivo al luglio 1987 erano state valorizzate le propalazioni contraddittorie di P.L. e di F. F., assolutamente prive di qualsivoglia elemento fattuale di riscontro; e sulla base delle dichiarazioni del F. esso ricorrente era stato assolto dal G.U.P. di Bologna con sentenza del 16 ottobre 1996 dalla medesima contestazione, anche perchè le dichiarazioni rese da tali collaboratori erano coincise con un periodo in cui egli si trovava ristretto in carcere (dal 5 agosto 1987 al 2 luglio 1990).

Inoltre gli asseriti motivi del ritenuto conflitto all’interno del clan con il gruppo ROMEO-BELCASTRO non erano riconducibili a contrasti per la gestione del traffico di droga; nè poteva ritenersi che la sua condizione di vertice nella cosca mafiosa si riflettesse sull’identico ruolo da lui assunto nell’associazione intesa al traffico di droga, in esame.

Col terzo motivo lamenta l’eccessività dell’irrogato trattamento sanzionatorio, in quanto avrebbe dovuto ritenersi applicabile nei suoi confronti il più favorevole sistema sanzionatorio di cui alla L. n. 685 del 1975, art. 75 e non dovevano essergli quindi applicate le più severe sanzioni previste dal D.P.R. n. 309 del 1990, alla luce della norma di cui all’art. 2 cod. pen., comma 4. 15. D.D. (reato A): associazione mafiosa D’Agostino:

capo C): associazione stupefacenti D’Agostino), per il tramite dell’avv. Emidio TOMMASINI, ha proposto sei motivi di ricorso.

Col primo motivo lamenta nullità della sentenza di primo grado per lesione del suo diritto di difesa e del principio del contraddicono, in quanto la Corte d’assise di Locri non aveva concesso ai difensori un termine a difesa onde potere adeguatamente interloquire sulla ponderosa memoria scritta (3.308 pagine) depositata dal P.M. in sede di requisitoria, nel corso della quale il P.M. si era limitato a formulare le richieste di pena per ciascun imputato. Col secondo motivo lamenta violazione di legge con riferimento all’applicazione della norma di cui all’art. 238 bis cod. proc. pen., in quanto era stato consentito l’ingresso nel presente processo dibattimentale di fatti accertati con due sentenze passate in giudicato emesse col rito abbreviato e con l’utilizzazione pertanto di atti di indagini acquisiti nella fase delle indagini preliminari, che non potevano invece trovare ingresso nel presente processo celebratosi col rito dibattimentale.

Col terzo motivo lamenta violazione di legge ( L. n. 63 del 2001, art. 26, di attuazione della riforma costituzionale del giusto processo), nella parte in cui erano state ritenute utilizzabili in dibattimento, in funzione delle contestazioni degli esami testimoniali ex art. 500 cod. proc. pen. le dichiarazioni unilateralmente rese nel corso delle indagini preliminari dai chiamanti in reità ed in correità, per le quali avrebbe dovuto essere ritenuta immediatamente applicabile la L. n. 63 del 2001, con conseguente operatività del divieto probatorio espresso dall’art. 64 cod. proc. pen., comma 3 bis, atteso che, ai sensi dell’art. 191 cod. proc. pen., le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non potevano essere utilizzate, si che la disciplina intertemporale, fissata dalla L. n. 63 del 2001, art. 26, non consentiva l’operatività dell’istituto delle contestazioni.

Col quarto motivo lamenta violazione di legge e travisata applicazione delle regole di valutazione della prova, elaborate dalla giurisprudenza in tema di chiamata in reità ed in correità, nonchè omessa valutazione delle controprove esistenti in atti, atteso che la sentenza di primo grado aveva sistematicamente operato una selezione delle trascrizioni dibattimentali delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, valorizzando selettivamente solo le prove a suo carico ed ignorando tutte le controprove da esso ricorrente evidenziate, tali da mettere in crisi l’attendibilità delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia; e la sentenza impugnata era caratterizzata da un significativo vuoto motivazionale, avendo omesso alcun approfondimento critico dei profili di censura formulati in punto di complessiva ricostruzione fattuale.

Non era stata osservata dal primo giudice la regola fondamentale secondo cui occorreva anzitutto accertare la cd. credibilità generale del dichiarante erga omnes; ed infatti non era stato tenuto presente che il collaboratore F., come pure il L. ed il B., non era certo persona attendibile; nè poteva essere trascurato il loro negativo atteggiamento collaborativo, elementi questi non tenuti presenti dalla Corte d’assise di Locri la quale aveva invece, fin dall’inizio, manifestato un approccio pregiudizialmente fideistico al tema dei collaboratori di giustizia, aderendo in modo eccessivo al criterio della frazionabilita valutativa delle dichiarazioni accusatone; non era stato neppure tenuto presente il tema delle interferenze fra i collaboratori di giustizia, più volte rimarcato da esso ricorrente, con riferimento alla comune detenzione sofferta dai collaboratori P., C., F., M.; e le dichiarazioni "de auditu", quali in massima parte erano quelle effettuate dai collaboratori di giustizia nel presente procedimento, per assumere efficacia probatoria necessitavano di elementi di conferma estrinseci di natura fattuale ed individualizzante; il materiale dichiarativo era quindi carente sul piano della credibilità intrinseca e della conferma estrinseca, si che, in ordine ad esso, non poteva ritenersi sussistente la cd. "mutuai corroboration". Col quinto motivo lamenta motivazione carente e manifestamente illogica circa la sua partecipazione all’associazione criminosa intesa al traffico di stupefacenti di cui al capo C) della rubrica, in quanto la sentenza impugnata aveva dato atto che erano stati rari e di modesta entità i sequestri di stupefacenti e che rare erano state le condanne per specifici episodi di detenzione di stupefacenti; e la sentenza impugnata aveva abrogato in pratica la caratterizzazione individualizzante del cd. riscontro estrinseco; quanto al periodo 1970-1975 erano state valorizzate le dichiarazioni di C. A. e B.F., che erano state del tutto generiche;

quanto agli anni 90 era stato ritenuto che esso ricorrente avrebbe approfittato del suo soggiorno in Cologno Monzese in funzione dello sviluppo del narcotraffico; era stato fatto il nome di tale A. S., quale trasportatore dello stupefacente, benchè lo stesso fosse stato mandato assolto dal reato in contestazione. Col sesto motivo lamenta carenza e manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla sua partecipazione all’associazione mafioso di cui al capo A) della rubrica; era stato del tutto eluso il sollecitato vaglio critico in ordine alle censure da lui formulate in appello;

non erano stati esaminati i denunciati vizi che avevano caratterizzato il vaglio degli apporti collaborativi, ad iniziare dal propalante F.F. le cui affermazioni rese nel corso delle indagini preliminari erano state acquisite e valorizzate in applicazione dell’art. 500 cod. proc. pen., commi 4 e 5; inoltre il propalante M.L. era stato documentalmente smentito ed il collaborante G.V., inattendibile per essersi ritagliato un ruolo di corriere della droga privo di riscontri, aveva più volte rettificato il tempo in cui avrebbe svolto detto ruolo. Erano generici ed inadeguati gli elementi posti a fondamento del suo coinvolgimento nel reato di cui al capo A) della rubrica e cioè l’avere egli sposato la figlia di B.R.; l’essere stato egli latitante e l’avere egli usato un’auto blindata.

16. Il medesimo D.D. reato A): associazione mafiosa D’Agostino: capo C): associazione stupefacenti D’Agostino ha poi personalmente proposto ulteriori cinque motivi del ricorso. Coi primo motivo lamenta violazione di legge ( art. 546 cod. proc. pen., comma 2) per non avere il Presidente della Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria sottoscritto la sentenza impugnata, in quanto il medesimo, nelle more del deposito della motivazione, era stato collocato a riposo, trattandosi di impedimento che non escludeva l’obbligo di sottoscrizione della sentenza da parte del Presidente.

Col secondo motivo lamenta che il giudice di primo grado abbia indebitamente compresso e violato il diritto al contraddicono, in ordine alle sue richieste istruttorie, che erano state indebitamente disattese.

Col terzo motivo lamenta violazione di legge in quanto in entrambi i gradi di giudizio erano state decisive le dichiarazioni etero accusatorie rese da numerosi collaboratori di giustizia, i quali avevano assunto un ruolo centrale nell’impostazione accusatoria recepita dai giudici di merito; non avrebbero potuto essere utilizzate in dibattimento, ai fini delle contestazioni nell’esame testimoniale ex art. 500 cod. proc. pen., le dichiarazioni rese dai collaboratori sotto il vigore delle norme vigenti prima della novella sul giusto processo, introdotto con la L. n. 63 del 2001, avendo l’art. 26 di tale ultima legge stabilito l’immediata applicazione della novella ai processi in corso ed in particolare della norma di cui all’art. 64 cod. proc. pen., comma 3, che imponeva la formulazione di alcuni avvertimenti ai soggetti da sentire. Inoltre le dichiarazioni anzidette non erano utilizzabili solo quando esse fossero state già acquisite al fascicolo per il dibattimento;

pertanto nel caso in esame tale utilizzabilità era da ritenere preclusa, in quanto erroneamente era stato ritenuto che lo sbarramento dell’iniziativa del P.M. per la rinnovazione dell’esame fosse costituito dalla chiusura delle indagini preliminari.

Col quarto motivo lamenta violazione di legge e carenza di motivazione in ordine alla pronuncia di responsabilità relativa ai reati di cui ai capi A) e C) della rubrica; era un elemento del tutto apparente la ritenuta convergenza del molteplice in ordine alle dichiarazioni accusatorie dei collaboratori escussi e le doglianze da lui espresse in ordine al metodo valutativo frammentato adottato dai giudici di merito non erano state adeguatamente confutate, si che era da ritenere sussistente nella sentenza impugnata l’elusione dell’obbligo di motivare, essendosi il giudice di secondo grado limitato a copiare la decisione di prime cure.

Col Quinto motivo lamenta violazione di legge e motivazione carente e contraddittoria in ordine alla sussistenza a suo carico di elementi di colpevolezza riferiti ai reati di associazione mafiosa ed associazione intesa al traffico di stupefacenti.

La giurisprudenza di legittimità aveva ritenuto che i due tipi di associazione anzidetta potessero coesistere, avendo esse una diversa oggettività giuridica ed un soggetto ritenuto partecipe di un’associazione mafiosa potendo concorrere nella struttura parallela dedita al narcotraffico; era comunque richiesto in concreto un accertamento rigoroso al riguardo, accertamento che, nella specie era mancato del tutto, in quanto era solo emerso un generico riferimento ad un interesse della presunta cosca D’Agostino anche nel settore degli stupefacenti.

17. D.L. capo C): associazione stupefacenti per il tramite dell’avv. Vincenzo Nico D’ASCOLA, ha proposto sei motivi di ricorso.

Col primo motivo lamenta violazione di legge nella parte in cui erano state ritenute utilizzabili le dichiarazioni rese dai collaboranti D.M.L. e R.R., originariamente imputati di reato connesso, nella parte frutto di contestazioni relative a dichiarazioni rese prima dell’entrata in vigore della L. n. 63 del 2001 e, quindi, senza gli avvertimenti di cui all’art. 64 cod. proc. pen., comma 3; infatti al momento dell’entrata in vigore della legge anzidetta, tali dichiarazioni non erano state ancora acquisite al fascicolo del dibattimento, in quanto all’epoca non era stato ancora emesso il decreto che aveva disposto il giudizio.

Col secondo motivo lamenta violazione di legge, segnatamente erronea applicazione dell’art. 507 cod. proc. pen., in quanto era stata disposta in dibattimento dei l’escussione collaboratori di giustizia D.M., R. e P., pur non essendovi un nuovo tema d’indagine sul quali sentirli e pur essendo stati essi già inclusi nelle originarie liste testi del P.M. e dei difensori. Col terzo motivo lamenta violazione di legge in quanto il G.I.P. del tribunale di Torino con decreto dell’8 giugno 1995 aveva disposto l’archiviazione di un procedimento avente ad oggetto la violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, a lui contestata sulla base dei medesimi fatti, per i quali era stata emessa nei suoi confronti la presente condanna; inoltre la riapertura delle indagini non era stata fatta nel rispetto delle norme di cui all’art. 414 cod. proc. pen.;

non era condivisibile, siccome meramente apparente, la motivazione addotta al riguardo dalla sentenza impugnata, secondo la quale si sarebbe trattato di associazioni diverse sul piano soggettivo ed oggettivo.

Col quarto motivo lamenta motivazione carente, illogica ed apparente, siccome caratterizzata da petizioni di principio prive di reale apparato giustificativo, nella parte in cui era stato ritenuto che egli avesse fatto parte di un ristretto numero di soggetti che, nel corso dei circa 20 anni di vita del sodalizio, avrebbe costituito il nucleo dell’associazione in contestazione; ma ciò era in contrasto con le emergenze processuali, messe in rilievo dalla stessa sentenza di secondo grado; ed il fatto che fosse stata ravvisata identità di struttura fra l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti ed il sodalizio di stampo mafioso era in contrasto col fatto che egli fin dal primo grado era stato mandato assolto dal reato di partecipazione ad associazione mafiosa, di cui al capo A) della rubrica.

La sentenza impugnata era censurabile anche con riferimento all’applicazione delle regole di giudizio di cui all’art. 192 cod. proc. pen., comma 3, in particolare con riferimento alle dichiarazioni rese dai collaboranti R. e D.M., atteso che esse, valutate singolarmente ed in riferimento alle singole accuse, erano risultate prive di riscontri esterni individualizzanti; ed anche in caso di chiamate in reltà plurime i riscontri esterni avrebbero dovuto avere una valenza individualizzante, nel senso di contenere elementi probatori riferiti alla specifica condotta attribuita alla persona accusata; i dichiaranti D.M., R. e P. non potevano essere ritenuti credibili, in quanto, citati in un primo momento come testi ex art. 210 cod. proc. pen., si erano avvalsi della facoltà di non rispondere; poi erano stati escussi come testi assistiti ex art. 197 bis cod. proc. pen.; in particolare il teste R. aveva mostrato avversione nei suoi confronti; e neppure gli altri due dichiaranti erano da ritenere attendibili, essendo stato fatto spesso ricorso nei loro confronti alle contestazioni ed essendo essi caduti in contraddizione.

Scarsa attendibilità era poi da ascrivere altresì al collaborante F.; da alcuna delle dichiarazione di tali collaboranti era poi emersa la sussistenza dell’indispensabile "affectio societatis" in capo ad esso ricorrente, tale da farlo ritenere partecipe di un’associazione criminosa volta al traffico di stupefacenti; nessun elemento era stato addotto dal quale potesse desumersi la sua asserita condotta partecipativa, non essendo stato provato nè il continuo ed esclusivo rifornimento di droga dalla cosca D’Agostino, nè la predisposizione di basi logistiche per il trasporto e la vendita dello stupefacente, nè la parziale comune destinazione dei guadagni provenienti dall’attività illecita.

La sentenza impugnata non aveva inoltre motivato in ordine alle censure formulate dai suoi difensori in appello, in quanto, sebbene la motivazione del giudice di appello potesse saldarsi con quella del primo giudice fino a costituire un tutto unico, ciò non toglieva che il giudice del gravame aveva l’obbligo di esplicare le ragioni della propria decisione, avuto riguardo al compendio cartolare ad esso devoluto, con specifico riferimento all’attività di corriere svolta dal collaborante D.M. ed alle contraddittorie dichiarazioni rese dall’altro collaboratore R., quest’ultimo a sua volta smentito anche dal collaborante P.C.; inoltre i collaboratori P.L. e G.V. non avevano mai fatto riferimento alla sua persona; non era stato poi valorizzato che esso ricorrente fosse stato assolto dagli episodi relativi al traffico di stupefacente avvenuto in Trento.

Col quinto motivo lamenta mancata motivazione in ordine all’insussistenza delle contestate aggravanti di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 2 e 4, riferita al numero dei partecipanti superiore a 10 ed alla disponibilità di armi.

Con il sesto motivo lamenta violazione di legge in ordine alla determinazione della pena base, alla mancata concessione delle attenuanti generiche ed al mancato contenimento nel minimo dell’aumento di pena per il reato continuato.

18. B.G. reato A): associazione mafiosa D’Agostino:

capo B): associazione mafiosa Belcastro-Romeo: capo C): associazione stupefacenti D’Agostino; capo D): associazione stupefacenti Belcastro- Romeo: capo M), N) ed O): omicidio Q.. tentato omicidio S. e connesse violazioni legge armi, per il tramite dell’avv. Adriana BARTOLO ha proposto nove motivi di ricorso.

Con il primo motivo lamenta violazione di legge ( artt. 414 e 415 cod. proc. pen.) in quanto si era proceduto ad espletare indagini per il reato di omicidio ascrittogli, già archiviato a carico di ignoti, senza la previa richiesta di riapertura delle stesse fatta dal P.M. e senza il decreto motivato emesso dal G.I.P., atteso che, dal complesso delle norme relative all’ipotesi in esame, era dato ritenere che, una volta intervenuto il provvedimento di archiviazione, l’autorizzazione alla riapertura delle indagini era necessaria anche quando il provvedimento fosse stato emesso ai sensi dell’art. 415 cod. proc. pen., si che, in sua assenza, gli atti compiuti erano da ritenere inutilizzabili; e l’inutilizzabilità era da ritenere come una forma particolare di invalidità.

Coi secondo motivo lamenta violazione di legge, essendo da ritenere inutilizzabili le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, in applicazione dell’art. 64 cod. proc. pen., così come innovato dalla L. n. 63 del 2001, in quanto il P.M. non aveva rinnovato l’esame dei collaboratori con i dovuti avvertimenti, come disposto dall’art. 26, comma 2 della citata legge, da ritenere di immediata applicazione, essendo all’epoca il procedimento penale ancora nella fase dell’udienza preliminare.

Col terzo motivo lamenta illogico ed omesso esame dei dati probatori, avendo la sentenza impugnata fatto propria la decisione di primo grado senza aggiungervi altro, nonostante le sue sollecitazioni e la puntuale indicazione da parte sua, con memoria del 2 febbraio 2006, allegata in copia, delle questioni irrisolte dal primo giudice, atteso che l’integrazione reciproca delle due decisioni di merito non significava affatto la riproposizione dello stesso errore in quanto, diversamente opinando, non avrebbe avuto alcun senso il doppio grado di giurisdizione.

Col quarto motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al concorso nell’omicidio Q. e nel ferimento di S.V.; la sentenza di primo grado aveva ritenuto che sussistessero a suo carico le convergenti dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia I., R., G., S., R., L., B., G., P., M., R. e D.M.; e la sentenza di secondo grado aveva confermato le statuizioni di condanna a suo carico solo sostenendo che egli fosse stato solo il mandante, non avendo ritenuto provato in modo esaustivo che egli fosse stato alla guida dell’auto sulla quale si trovavano gli assassini, e solo per la ritenuta sua appartenenza alla compagine scissionista in posizione di vertice la Corte territoriale aveva ravvisato una comune determinazione omicidiaria in capo ad esso ricorrente ed a R.T., con il quale avrebbe dato vita ad un nuovo ed autonomo gruppo; la Corte territoriale dunque aveva riconosciuto in capo ad esso ricorrente una sorta di responsabilità di posizione, sull’assunto del suo ruolo di promotore all’interno di una compagine associativa in fase di costituzione; il che tuttavia non costituiva un indizio univoco dell’avere egli contribuito alla decisione dell’omicidio; tutti i collaboratori escussi avevano poi sostenuto che l’esclusiva responsabilità per detto omicidio era da attribuire al R. ed all’ E., nessuno di essi avendo mai fatto riferimento a lui; quindi la sentenza impugnata aveva ritenuto nei suoi confronti una sorta di responsabilità di posizione.

Col quinto motivo lamenta violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., comma 2 e 3, in tema di valutazione delle chiamate in correità, che nella specie non erano state nè precise, nè circostanziate, nè supportate da riscontri esterni tali da renderne verosimile il contenuto; in particolare il collaborante I.P. aveva fatto dichiarazioni de relato e non aveva fatto alcun riferimento ad esso ricorrente, quale responsabile a qualsiasi titolo dell’omicidio in esame; e la sentenza impugnata aveva in modo del tutto illogico tratto il convincimento della sua partecipazione all’omicidio in esame solo perchè visto in due occasioni in compagnia del R.;

non era stato valorizzato quanto riferito dai collaboratori G. A. e R.A., i quali avevano escluso di avere saputo dal fratello della vittima che all’omicidio Q. avessero partecipato persone diverse dal R. e dall’ E.; pertanto il collaborante I.P. non era credibile.

Col sesto motivo lamenta carenza di motivazione circa la sua partecipazione ad un’associazione criminosa di stampo mafioso con ruolo apicale, avendo la sentenza impugnata dato per supposta la mafiosità del sodalizio ed essendo essa partita dall’apodittica considerazione della sussistenza di due cosche contrapposte, fondandosi su indizi ed affermazioni completamente privi della necessaria base di riscontro, omettendo di individuare il peso contributivo di esso ricorrente e di motivare in ordine alla sua effettiva partecipazione alla struttura associativa mafiosa.

Col settimo motivo lamenta violazione di legge in ordine alla ritenuta applicazione a suo carico del concorso fra due differenti fattispecie associative e cioè fra l’associazione mafiosa e l’associazione intesa al traffico di stupefacenti, nonostante che l’asserita organizzazione mafiosa contenesse, fra le sue finalità, altresì il traffico di sostanze stupefacenti; ora le associazioni prese in considerazione dovevano integrare fatti distinti, non sussumibili l’uno nell’altro; al contrario nel caso in esame non era stata evidenziata tale differenza; non era cioè emersa l’esistenza di un fatto associativo dedito agli stupefacenti autonomo e distinto dall’associazione ex art. 416 bis cod. pen..

Con l’ottavo motivo lamenta mancanza di motivazione circa la sussistenza di un vincolo associativo inteso al traffico di stupefacenti, qualificato dall’esserne stato il promotore e dall’averne avuto la direzione; in realtà nella specie aveva avuto luogo un evidente abuso da parte della sentenza impugnata della motivazione per relationem, in quanto non era stato valutato il ruolo da esso ricorrente svolto in tale ipotizzato sodalizio.

Con il nono motivo lamenta omessa motivazione in ordine alla determinazione della pena ed al diniego delle attenuanti generiche.

19.11 medesimo B.G. reato A): associazione mafiosa D’Apostino: capo B), associazione mafiosa Belcastro-Romeo: capo C):

associazione stupefacenti D’Agostino: capo D): associazione stupefacenti Belcastro-Romeo: capi M), N) ed O): omicidio O.. tentato omicidio S. e connesse violazioni legge armi", per il tramite dell’avv. Antonio MANAGO’ ha proposto ulteriori sette motivi di ricorso. Col primo motivo eccepisce nullità del decreto di rinvio a giudizio e della sentenza di primo grado per violazione L. 1 marzo 2001, n. 63, art. 26, in quanto il secondo comma di tale articolo prevedeva che, se il processo fosse stato ancora nella fase delle indagini preliminari, il P.M. avrebbe dovuto rinnovare l’esame dei soggetti secondo le modalità di cui agli artt. 64 e 196 bis cod. proc. pen.; il che il P.M. non aveva fatto, sicchè le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia erano da ritenere inutilizzabili per violazione dell’art. 64 cod. proc. pen., comma 2, così come novellato dalla legge anzidetta. Non era condivisibile la tesi sostenuta dalla Corte territoriale, secondo cui la richiesta di rinvio a giudizio, già effettuato dal pubblico ministero, avrebbe impedito a quest’ultimo di rinnovare gli interrogatori, avendo erroneamente ritenuto che, con la richiesta di rinvio a giudizio si fosse già conclusa la fase delle indagini preliminari, la quale, al contrario, doveva ritenersi conclusa solo con l’emissione del decreto che disponeva il giudizio.

Col secondo motivo lamenta violazione degli artt. 191 e 500 cod. proc. pen.comma 4; in quanto non era consentito utilizzare atti di indagine preliminare sulla base di meri sospetti o su fatti non riscontrati; in particolare non era sufficiente a ritenere provato che il F. fosse stato minacciato la circostanza che il medesimo avesse dichiarato di essere stato minacciato due volte per telefono;

invero il collaboratore anzidetto aveva errato nel riferire la data delle telefonate, le quali erano pervenute da Milano ed erano state fatte in un periodo in cui tutti i ricorrenti si trovavano in stato di custodia cautelare in carcere; inoltre tali minacce erano state riferite in epoca successiva a quella nella quale il collaboratore anzidetto aveva già deposto; dal che discendeva che la Corte territoriale illegittimamente aveva ritenuto di poter acquisire le dichiarazioni predibattimentali rese dal F., senza aver dimostrato che lo stesso fosse stato vittima di violenza o minaccia.

Col terzo motivo lamenta violazione dell’art. 414 cod. proc. pen., in quanto per i fatti omicidiari ascrittigli era stata a suo tempo disposta l’archiviazione, siccome ignoti gli autori del reato; ancor prima della modifica legislativa dell’art. 415 cod. proc. pen., avvenuta con L. n. 479 del 1999, che aveva introdotto all’articolo un terzo comma, la giurisprudenza di legittimità aveva affermato il principio secondo cui anche nel caso di archiviazione contro ignoti era necessario un provvedimento di riapertura delle indagini da parte del G.I.P.. Col quarto motivo lamenta violazione dell’art. 546 cod. proc. pen., commi 2 e 3, atteso che illegittimamente la sentenza era stata firmata unicamente dal consigliere estensore, in quanto il Presidente del collegio, nelle more del deposito, era stato collocato a riposo.

Il collocamento a riposo non rientrava tra i casi di impedimento previsti dall’art. 546 cod. proc. pen., comma 2, dovendosi l’impedimento ritenere sussistente solo qualora il magistrato non fosse stato in condizione di poter firmare la sentenza per motivi di carattere fisico o per un’anomala irreperibilità accertata; pertanto l’avvenuto collocamento a riposo non rientrava nei casi previsti dalla norma, con conseguente nullità della sentenza impugnata. Col quinto motivo lamenta l’insussistenza di gravi indizi di colpevolezza a suo carico in ordine ai reati di omicidio di Q.E. e di tentato omicidio di S.V., atteso che per tali episodi la sentenza impugnata aveva utilizzato le dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia ritenendo che, dal confronto delle stesse, potesse ricavarsi quella mutua corroborazione, data dal controllo incrociato di più dichiarazioni. Nella specie in esame la sentenza impugnata in modo del tutto immotivato ed illogico aveva ritenuto la sussistenza del cosiddetto controllo incrociato delle dichiarazioni, senza però accorgersi che tale reciproca corroborazione non si era mai verificata, essendo anzi emerse dissonanze di notevole spessore che avrebbero dovuto indurre i giudici di merito a ritenere inattendibile in modo assoluto le dichiarazioni stesse.

Invero i riscontri, per essere validi ai sensi dell’art. 192 cod. proc. pen., comma 3, dovevano riguardare direttamente la persona del chiamato in relazione allo specifico fatto storico oggetto dell’imputazione; i riscontri dovevano cioè essere individualizzati e storicizzanti.

La Corte territoriale, con riferimento al delitto Q. aveva utilizzato le dichiarazioni di più collaboratori di giustizia le quali, valutate nel loro complesso, non avevano offerto la prova della responsabilità di esso ricorrente, indicato nel capo d’imputazione come mandante ed esecutore materiale ed essendo stato poi ritenuto dalla Corte territoriale di Reggio Calabria solo mandante; non poteva tuttavia ritenersi raggiunta dalla sentenza impugnata la prova del mandato omicidiario da lui conferito.

Il suo principale accusatore era stato il collaboratore I.P., il quale però aveva reso dichiarazioni de relato, avendo appreso le notizie dal fratello della vittima, che a sua volta le avrebbe ricevute da S.V., rimasto ferito nell’agguato; le notizie erano inattendibili, in quanto non vi era alcuna certezza sull’auto impiegata per compiere l’omicidio, essendovi in atti contraddizione tra quanto riferito dal teste F.B. e quanto riferito dal teste L.G.; infatti il primo aveva indicato l’auto sulla quale viaggiavano gli esecutori come una Lancia Delta di color rosso o amaranto e aveva detto che gli occupanti dell’autovettura erano tre; il S., che si trovava a bordo dell’auto inseguita assieme al Q., aveva riferito al collaboratore I. che sull’auto inseguitrice vi erano, oltre a R.T., altresì esso ricorrente, anche se sulla sua presenza il collaboratore aveva espresso dei dubbi; inoltre l’auto inseguitrice era stata descritta dallo I. come una jeep, o comunque come un fuoristrada; ora era evidente che, anche per l’ora notturna in cui l’omicidio aveva avuto luogo, il S. non avrebbe potuto riconoscere gli occupanti dell’auto inseguitrice, atteso che quest’ultima aveva i fari abbaglianti azionati, sicchè il riferimento era del tutto inaffidabile. A sua volta il teste L. aveva affermato che l’auto impiegata dagli esecutori materiali era una Fiat 127 di color bianco; inoltre il fratello della vittima Q. aveva escluso di aver contattato il S. e di avere parlato con il collaborante I.; la sentenza impugnata aveva ritenuto di screditare le dichiarazioni rese dal fratello della vittima anzidetta, avendo sostenuto che egli non avrebbe detto la verità quando aveva affermato di essersi recato presso i carabinieri di Ardore assieme alla moglie della vittima per ritirare gli effetti personali in quanto il borsone, già appartenuto al defunto Q.E. sarebbe stato ritirato dal S., essendo stati confusi gli effetti personali con il borsone, non potendosi escludere che prima erano stati consegnati gli effetti personali e poi era stato consegnato il borsone dell’ucciso. Pertanto nella specie la Corte territoriale non avrebbe potuto dare credito alle dichiarazioni del collaboratore I., atteso che, in forza di tutti gli elementi sopra elencati, esse erano poco credibili, siccome smentite dai dati offerti dai testi.

La Corte territoriale lo aveva ritenuto responsabile del delitto anche se solo in qualità di mandante, senza tuttavia offrire la prova del mandato omicidiario, che non poteva emergere dalle dichiarazioni rese dal collaboratore I., il quale aveva riferito di aver appreso che fosse esso ricorrente ad avere guidato l’auto sulla quale si trovavano gli esecutori materiali; nella specie era pertanto ravvisabile un vero e proprio travisamento della prova.

Il collaboratore I. aveva altresì indicato quale fonte di prova, oltre al fratello della vittima, altresì R.T. e tale R.G.; dal primo avrebbe saputo che anche esso ricorrente era stato implicato nell’omicidio in esame, mentre gli esecutori materiali sarebbero state alcune persone provenienti da (OMISSIS); ciò non si conciliava con quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, secondo cui il R. sarebbe stato l’esecutore materiale del delitto; le dichiarazioni dello I. erano pertanto dotate di scarsissima valenza probatoria, siccome fondate su dichiarazioni provenienti da uno degli imputati, il R., il quale aveva sempre negato di aver riferito quanto sopra allo I.. Quest’ultimo poi aveva dichiarato di aver avuto quale fonte di conoscenza anche R. G., il quale avrebbe fatto presente che l’omicidio si era verificato in quanto il Q. avrebbe voluto attentare alla vita di esso R.; il collaborante I. aveva tuttavia dichiarato di aver appreso dal R. che l’omicidio era diretto nei confronti del S. e non del Q., sicchè sul punto sussisteva un evidente contrasto logico.

Non era poi vera la circostanza riferita dal collaborante I. circa un presunto alibi che il R. si sarebbe procurato noleggiando il giorno del delitto un’auto, atteso che era emerso che il noleggio dell’auto era stato effettuato dal R. in epoca di gran lunga successiva rispetto alla data dell’omicidio; inoltre i collaboranti G.A. e R.A. nulla avevano riferito in ordine alla partecipazione al delitto in esame di esso ricorrente; e neppure il collaborante S.G. aveva mai menzionato esso ricorrente come partecipe all’omicidio in esame.

Neppure il collaborante M.R. aveva effettuato dichiarazioni attendibili, avendo introdotto una circostanza nuova, secondo cui gli autori materiali dell’omicidio, fra cui esso ricorrente, sarebbero arrivati sul luogo dell’agguato a bordo di motociclette, circostanza questa smentita dai testimoni oculari; il che induceva a rilevare le contraddizioni riscontrabili nelle dichiarazioni rese dallo I. e dal M., pur se la fonte di conoscenza sarebbe stata, per entrambi, R.T..

I collaboranti R.G. e B.F. non avevano dichiarato che esso ricorrente fosse stato presente all’omicidio; il B. aveva indicato come suo fonte di conoscenza tale F. F., il quale gli avrebbe riferito che il delitto era da attribuire ad altre persone; al contrario il collaboratore I. aveva affermato di aver appreso proprio dallo stesso F. che gli autori dell’omicidio erano stati il R., esso ricorrente e tale E..

Il collaboratore P.L. dapprima aveva dichiarato che la sera dell’omicidio aveva visto assieme il R. con l’ E.;

poi aveva precisato che le due persone da lui viste erano da identificare nel R. ed in esso ricorrente; l’incontro sarebbe avvenuto verso le ore 19,00-20,00, mentre l’omicidio era avvenuto verso le ore 23,00; e la stessa sentenza impugnata aveva comunque rilevato come le dichiarazioni del collaborante anzidetto fossero generiche e prive di riscontri.

Neppure il collaborante L.G. lo aveva menzionato fra coloro che, a qualsiasi titolo, erano implicati nell’omicidio in esame.

Era da valutare in suo favore l’avvenuta assoluzione dal delitto in esame dell’ E.; inoltre esso ricorrente era stato mandato assolto dall’omicidio di S.V.; la sua partecipazione al delitto Q. non poteva desumersi dal solo fatto che sia egli che il R. avevano avuto un rilevante ruolo nell’associazione mafiosa di appartenenza.

Non era stato poi tenuto nel debito conto dai giudici di merito la diversità delle causali dell’omicidio in esame indicate dai vari collaboratori di giustizia, in modo errato avendo ritenuto che si trattasse di un dato secondario.

La sentenza impugnata aveva poi omesso ogni motivazione circa la richiesta esclusione dell’aggravante della premeditazione ed in ordine alla concessione delle attenuanti generiche con giudizio di prevalenza, ovvero almeno di equivalenza sulle contestate aggravanti.

Coi sesto motivo lamenta violazione di legge circa la sussistenza di validi indizi di colpevolezza in ordine alla sua partecipazione ad un’associazione a delinquere di stampo mafioso, con particolare riferimento all’utilizzazione probatoria di sentenze penali irrevocabili, di cui all’art. 238 bis cod. proc. pen., utilizzazione che non poteva prescindere dalla presenza di ulteriori elementi probatori, tali da confermare l’accertamento compiuto; in particolare esso ricorrente con il suo atto di appello non solo aveva formulato severe critiche alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, ma anche alla stessa esistenza delle associazioni mafiose così come ritenute dai giudici di merito; ed in applicazione del principio di autosufficienza del ricorso il ricorrente ha riportato ampi stralci dell’appello proposto innanzi alla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria, per provare che anche in quella sede avesse contestato la sussistenza stessa dell’associazione mafiosa, di cui egli era stato ritenuto partecipe; inoltre nessun accenno aveva fatto la sentenza impugnata circa una dettagliata memoria depositata dal suo difensore il 2 febbraio 2006.

Non era stato tenuto conto di una sentenza assolutoria emessa nei suoi confronti nel 1988 per il reato di cui all’art. 416 cod. pen..

Nessuna motivazione aveva poi addotto la sentenza impugnata circa la chiesta esclusione delle contestate aggravanti di cui ai commi secondo, terzo e quarto art. 416 bis cod. pen..

Col settimo motivo lamenta l’insussistenza a suo carico di elementi di prova sufficienti per ritenerlo responsabile del reato di associazione a delinquere intesa al traffico di stupefacenti, avendo la sentenza impugnata erroneamente desunto la sua responsabilità per detto reato dalla ritenuta provata sua partecipazione ad un’associazione a delinquere di stampo mafioso; ed ha riprodotto larghi brani del suo ricorso in appello onde evidenziare come nessuno dei collaboratori di giustizia sentiti avesse riferito elementi certi e precisi, idonei a farlo ritenere partecipe di un tale tipo di associazione; inoltre la stessa sentenza impugnata da un lato aveva ammesso che le dichiarazioni dei pentiti non avevano sufficiente forza indiziante; dall’altro aveva contraddittoriamente ritenuto la sussistenza della cd. "mutual corroboration".

La sentenza impugnata, al di là di generici riferimenti ad alcuni presunti episodi di cessione di sostanze stupefacenti, rimasti privi di riscontro ovvero conclusisi con sentenze assolutorie, non aveva sicuramente individuato l’esistenza delle due supposte associazioni a delinquere dedite alla spaccio di stupefacenti, che avrebbero dovuto essere valutate in piena autonomia rispetto ai singoli reati fine. La sentenza impugnata era poi carente di motivazione sia in ordine alla sua richiesta di esclusione di aggravanti (capo promotore ed associazione armata), sia in ordine alla sua richiesta di attenuanti generiche e di riduzione della pena infintagli.

20. R.T. reato A): associazione mafiosa D’Agostino: capo B): associazione mafiosa Belcastro-Romeo: capo C): associazione stupefacenti D’Agostino: capo D): associazione stupefacenti Belcastro- Romeo: capi M), N) ed O): omicidio Q., tentato omicidio S., e connesse violazioni legge armi: capi S), T). U) e V):

omicidio I., tentato omicidio S., connesse violazioni legge armi e ricettazione auto: capi Z) A1) ed A2): omicidio S. e connesse violazioni legge armi, per il tramite degli avv.ti Cosimo ALBANESE e Sandro FURFARO, ha proposto tre motivi di ricorso.

Col primo motivo lamenta violazione artt. 414 e 415 cod. proc. pen. per avere il P.M. proceduto ad indagini per reati omicidiari, già archiviati a carico di ignoti, senza la previa richiesta di riapertura delle stesse con decreto motivato del G.I.P., avendo al riguardo i giudici di merito erroneamente ritenuto che la richiesta di autorizzazione alla riapertura delle indagini non era richiesta nel caso in cui era rimasto ignoto l’autore del reato.

Col secondo motivo lamenta violazione dell’art. 64 cod. proc. pen., così come innovato dalla L. n. 63 del 2001, in quanto la norma transitoria di cui all’art. 26 comma 1 della citata legge disponeva l’immediata applicazione della disciplina prevista dall’innovato art. 64 cod. proc. pen. quando il procedimento, al momento dell’entrata in vigore dell’innovazione, si fosse trovato nella fase dell’udienza preliminare e del giudizio, quando nulla delle precedenti dichiarazioni fosse stato acquisito; il che era appunto avvenuto nel caso in esame, con la conseguente inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dai collaboratori.

Col terzo motivo lamenta violazione delle norme previste dall’art. 192 cod. proc. pen., commi 3 e 4 in materia di valutazione delle prove, con specifico riferimento alla valenza dimostrativa delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, dei quali andava vagliata innanzitutto l’attendibilità intrinseca, per poi valutare l’intrinseca consistenza delle dichiarazioni ed esaminare infine i riscontri esterni, intesi come elementi di prova autonomi e diversi dalla chiamata in sè, relativi a ciascun incolpato ed a ciascuna imputazione. Al contrario la sentenza impugnata non aveva proceduto ad accertare l’attendibilità intrinseca dei collaboratori che l’avevano accusato ( P., I., G. e M.);

occorreva poi tener presente che le dichiarazioni nei suoi confronti erano de relato, si che occorreva valutare la veridicità della fonte di apprendimento con l’adozione di cautele ancora maggiori, trattandosi non di chiamate in correità, ma di chiamate in reità, con connesso maggior rischio di imprecisioni e di differenze percettive fra il vissuto ed il narrato, si che era essenziale la certezza del fatto-riscontro; ed al riguardo la sentenza impugnata non aveva effettuato alcun accertamento, come pure non era stato accertata la cd. convergenza del molteplice.

Quanto all’omicidio Q., al tentato omicidio S. e connessi reati in materia di armi, la sentenza impugnata era censurabile per avere essa ritenuto attendibile il dichiarante I. P., che aveva appreso le notizie sull’omicidio da Q. R., fratello dell’ucciso, il quale avrebbe saputo a sua volta dei fatti da S.V., rimasto ferito nell’agguato;

tuttavia Q.R., escusso in dibattimento, aveva escluso di aver contattato il S.; e la sentenza impugnata aveva privilegiato le dichiarazioni dello I. rispetto a quelle di Q.R., senza motivare in ordine alle difficoltà che avrebbe incontrato quest’ultimo a contattare il S., che non conosceva e che si trovava all’epoca piantonato; la Corte poi non aveva tenuto conto che le dichiarazioni del collaborante I. erano state smentire dalla dichiarazioni di altri dichiaranti; invero G.A. non aveva in realtà convalidato le dichiarazioni dello I., avendo diversamente descritto il commando omicida; il collaborante R.A. aveva detto che l’obiettivo del commando omicida non era il Q., ma S.V.; il dichiarante M.R. aveva reso dichiarazioni confuse ed erronee; il dichiarante R. aveva reso dichiarazioni del tutto imprecise sul fatto e sul movente; B.F. aveva indicato una causale alternativa dell’omicidio; in modo forzato poi le dichiarazioni di R.R. e D.M.L. erano state indicate come riscontro a quanto detto dagli alti collaboranti, circa la certezza che il S. avrebbe avuto in ordine alle persone che gli avrebbero sparato. Quanto poi all’omicidio I. ed al tentato omicidio S. e connessi reati in materia di armi e ricettazione, non erano in realtà emersi appigli probatori e neppure indiziari per confermare il ruolo svolto da esso ricorrente di esecutore materiale dei delitti anzidetti; la sentenza impugnata, pur avendo escluso la sussistenza di elementi tali da poter ritenere esso ricorrente come l’autore materiale dei delitti, aveva poi in modo del tutto illogico ritenuto una sua responsabilità come mandante; non era stato tenuto conto delle dichiarazioni di O.C., la quale aveva dichiarato che la vittima I. aveva buoni rapporti con esso ricorrente, fino ad ospitarlo in casa propria ed andare assieme a mangiare una pizza.

Era poi illogica la motivazione addotta in ordine alla sua responsabilità per il delitto S.; con riferimento ad esso era da rilevare l’assenza di riscontri individualizzanti al narrato del collaboratore I., nonostante che il medesimo all’epoca dei fatti fosse detenuto e del collaboratore R., le cui dichiarazioni sull’andamento dell’agguato erano state smentite dalla deposizione dell’ispettore G..

Quanto al delitto di partecipazione all’associazione mafiosa di cui al capo A) della rubrica, era illogico ritenere una sua permanenza nel sodalizio fin dal 1976, avendo egli all’epoca solo 13 anni; ed il dichiarante P.L. aveva solo detto che esso ricorrente faceva parte del gruppo ROMEO-BELCASTRO, il che corrispondeva all’accusa di cui al capo B) della rubrica; il collaborante I. aveva riferito notizie successive al 1990 ed il collaborante G. aveva collocato la sua intraneità alla cosca mafiosa anzidetta a far data dal 1986; a tali dichiarazioni mancavano comunque elementi di riscontro. Quanto alla sua partecipazione all’associazione ROMEO-BELCASTRO, non era in realtà emerso alcun elemento costitutivo della fattispecie in esame, non essendo stato indicato il momento adesivo e neppure essendo stata fatta alcuna doverosa analisi circa la struttura organizzativa di tale sodalizio, in quanto mancava in sostanza alcuna valida prova che sussistesse un’associazione mafiosa definibile come cosca ROMEO-BELCASTRO, non essendo emersa nè la soggezione del territorio, nè la forza del vincolo che determinava omertà, nè la creazione sul territorio di una struttura sottratta alle regole di vita proprie del consorzio civile. La partecipazione di esso ricorrente all’associazione intesa al traffico di stupefacenti D’Agostino non era stata provata da nessuna dichiarazione resa dai collaboratori G., I. e M.; nè poteva desumersi la sua partecipazione a tale associazione solo perchè egli aveva fatto parte dell’associazione mafiosa di cui all’art. 416 bis cod. pen..

La sua partecipazione all’associazione intesa al traffico di stupefacenti ROMEO-BELCASTRO era stata desunta solo dalla sua partecipazione all’omologa associazione di tipo mafioso; nessuna dichiarazione era stata fatta al riguardo dai collaboratori M. ed I..

La sentenza impugnata non aveva infine sciolto il problema relativo alla possibilità del concorso fra l’associazione mafiosa e l’associazione intesa al traffico di stupefacenti; ed era inaccettabile ritenere che il solo fatto che gli associati di una consorteria mafiosa fossero interessati anche a traffici di droga potesse valere, di per sè solo, ad integrare altresì la sussistenza di un’associazione intesa al traffico di stupefacenti, trattandosi di realtà giuridiche molto diverse fra loro che ben potevano coesistere, ma che richiedevano la prova della sussistenza di un fatto associativo dedito alla droga autonomo e logisticamente distinto dall’associazione di tipo mafioso; il che la sentenza impugnata non aveva assolutamente delineato.

La sentenza impugnata, caratterizzata dall’evidente abuso della motivazione per relationem rispetto a quella di primo grado, aveva infine omesso di motivare circa il ruolo da lui ricoperto in tale ipotizzata associazione.

Motivi della decisione

1. IL RICORSO DI D.V.;

1.1. E’ infondato il primo motivo di ricorso proposto da D. V. per il tramite dell’avv. GAITO. Con esso il ricorrente lamenta violazione dell’art. 64 cod. proc. pen., così come modificato con la L. n. 63 del 2001, in quanto il P.M. non aveva rinnovato l’esame dei collaboratori con i dovuti avvertimenti, come imposto dall’art. 26 secondo comma della citata legge.

Come già affermato dalla 6^ Sezione di questa Corte con la sentenza 3/2/05, R. e altri allegata al ricorso dell’avv. MINNITI, la censura è infondata in quanto l’art. 26 da ultimo citato impone al P.M. tale obbligo di rinnovazione solo se, al momento dell’entrata in vigore della legge, il processo sia ancora nella fase delle indagini preliminari; il che non è ravvisabile nella specie in esame, atteso che, in quel momento, il P.M. aveva già emesso l’avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui all’art. 415 bis cod. proc. pen., evento processuale che segna la chiusura della fase delle indagini preliminari, con il passaggio del processo ad una nuova ed ulteriore fase intermedia; va peraltro rilevato che, nella specie, il P.M., prima dell’entrata in vigore della L. n. 63 del 2001, aveva addirittura posto in essere un adempimento ulteriore, avendo depositato fin dal 6.3.01 richiesta di rinvio a giudizio; il che costituisce ulteriore elemento in base al quale senz’altro affermare che, nella specie, il processo non era più nella fase delle indagini preliminari.

1.2. Meritano invece accoglimento i motivi degli avv. GAITO e MINNITI con i quali si è contestata la partecipazione del D. V. ad un’associazione criminosa finalizzata al traffico di stupefacenti tipo eroina, cocaina e di marijuana con ruolo di promotore ed organizzatore, accertata come commessa in (OMISSIS) con esclusione dei fatti anteriori al (OMISSIS), e va quindi annullata con rinvio la sentenza impugnata con riferimento al reato di cui al capo C) della rubrica, l’unico ascritto al ricorrente, con assorbimento dei motivi relativi a tale capo riguardanti questioni diverse dalla affermazione di responsabilità. 1.3. L’appartenenza di un soggetto ad un sodalizio criminoso richiede, oltre all’accertamento dell’esistenza in sè dell’associazione malavitosa, la verifica del ruolo in essa svolto dal soggetto e delle modalità delle azioni da lui eseguite, che devono evidenziare l’esistenza di un vincolo stabile tra il soggetto e l’associazione, nonchè l’accertamento che il ruolo a lui affidato nell’ambito della compagine criminosa non sia occasionale, ma abbia i caratteri della stabilità e si sia protratto per un adeguato spazio temporale (cfr., in termini, Cass. 9.12.02 n. 2838; Cass. 3^ 16.10.08 n. 43822).

Invero anche l’associazione a delinquere prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, richiede, oltre alla presenza di almeno tre persone, la sussistenza di un vincolo continuativo, scaturente dalla consapevolezza che ha ciascun associato di far parte del sodalizio criminoso, che si caratterizza, rispetto a quello delineato in via generale dall’art. 416 c.p., dall’essere esso finalizzato alla commissione di più delitti fra quelli previsti dall’art. 73 del citato D.P.R. e di fornire, con il proprio contributo causale, un valido apporto al perseguimento del programma criminoso anzidetto, per realizzare il quale è richiesta la predisposizione di una struttura, che può anche essere rudimentale, purchè risulti fornita dei mezzi necessari al perseguimento delle illecite finalità e risulti destinata ad operare per un apprezzabile arco temporale (cfr.

Cass. 1^, 22.9.06 n. 34043, rv. 234800).

1.4. Fatte tali premesse, va rilevato che la motivazione addotta dalla sentenza impugnata per ritenere sussistente un’associazione criminosa intesa al commercio di sostanze stupefacenti non è conforme ai principi giurisprudenziali sopra riferiti, non potendosi inferire la sussistenza di un’associazione criminosa di tal genere soltanto perchè in un lungo arco temporale, quantificato nell’ordine di un ventennio, si siano verificati episodi di cessione di sostanze stupefacenti, riferiti dalla stessa sentenza impugnata come radi e sporadici. Va inoltre ritenuto che la sussistenza di un’associazione criminosa D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74, non può desumersi in via automatica dalla pur provata partecipazione dell’odierno ricorrente ad un’associazione a delinquere di stampo mafioso, non potendo costituire prova di un’associazione D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74, il solo fatto che il commercio degli stupefacenti abbia costituito uno delle finalità criminose proprie dell’associazione mafiosa di cui l’odierno ricorrente è stato ritenuto partecipe.

E’ invero noto che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso concorre ed è autonomo rispetto al delitto di associazione per delinquere dedita al traffico degli stupefacenti, anche quando la medesima associazione sia finalizzata sia alla commissione di reati concernenti il traffico degli stupefacenti sia alla commissione di reati diversi; invero i due delitti tutelano beni giuridici in parte diversi, atteso che il reato di associazione di stampo mafioso tutela l’ordine pubblico mentre invece l’associazione finalizzata allo spaccio di stupefacenti, oltre a tutelare l’ordine pubblico, finalità questa tipica di tutti i delitti associativi, mira altresì alla difesa della salute individuale e collettiva contro l’aggressione della droga e della sua diffusione (cfr., in termini, Cass. SS.UU. n. 1149 del 25/09/2008, dep. 13/01/2009, imp. Magistris, Rv. 241883).

Manca invero nell’analisi compiuta dalla Corte territoriale delle imputazioni di partecipazione ad associazioni finalizzate al narcotraffico – e il discorso vale per entrambe quelle che sono state configurate nei capi C) e D) e per tutti gli imputati – l’indicazione di elementi concreti dimostrativi dell’esistenza di una pur rudimentale autonoma struttura organizzativa finalizzata specificamente al commercio di sostanze stupefacenti; non sono state indicate le fonti di approvvigionamento delle sostanze stupefacenti;

non è stato descritto in che modo fosse strutturata la rete distributiva dello stupefacente, sia in termini di soggetti addetti allo spaccio al minuto, sia in termini di singole e specifiche piazze di spaccio; non sono stati indicati i soggetti incaricati di rastrellare il danaro ricavato delle sistematiche ed organizzate cessioni di droga; non sono stati indicati i significativi elementi da cui desumere la consapevolezza degli aderenti di far parte di una struttura finalizzata al commercio di sostanze stupefacenti e di agire allo scopo di rafforzare e rendere funzionante la struttura medesima.

Si impone pertanto l’annullamento della sentenza impugnata, con riferimento al reato in questione, con rinvio degli atti alla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria per nuovo esame che tenga conto delle rilevate carenze motivazionali.

2. IL RICORSO DI D.D.;

2.1. Anche per D.D. valgono le considerazioni sopra svolte, riferite alle analoghe doglianze formulate dal ricorrente D.V., per ritenere la sentenza impugnata priva di adeguata motivazione quanto alla sussistenza, a carico del ricorrente, del reato contestatogli al capo C) della rubrica.

Nel richiamare quanto in precedenza rilevato al riguardo nei paragrafi 1.3 e 1.4, la presente sentenza va dunque annullata limitatamente al reato anzidetto, in accoglimento dei relativi motivi di ricorso personali e dell’avv. TOMMASINI, anche con riferimento al ricorrente D.D., con rinvio degli atti alla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria per nuovo esame, che tenga conto delle carenze motivazionali sopra rilevate.

2.2. E’ infondato il primo motivo di ricorso proposto da D. D. per il tramite dell’avv. TOMMASINI. Con esso il ricorrente lamenta che il giudice di primo grado non gli abbia concesso un adeguato termine a difesa onde poter interloquire in ordine alla ponderosa memoria scritta depositata dal P.M. in sede di requisitoria, nel corso della quale lo stesso si era limitato a formulare le richieste di pena per ciascun imputato.

Non si ritiene che si sia verificata nella specie alcuna violazione del diritto di difesa del ricorrente atteso che, come esattamente rilevato dalla sentenza impugnata, da un lato la fattispecie non integra alcuna nullità di ordine generale, così come specificate dall’art. 178 cod. proc. pen., e d’altra parte, sul piano fattuale, il calendario delle udienze già approntato dalla Corte d’assise per lo svolgimento della discussione era tale da consentire ai difensori un tempo adeguato per esaminare la requisitoria scritta depositata dal P.M..

2.3. E’ infondato il secondo motivo di ricorso proposto da D.D. per il tramite dell’avv. TOMMASINI. Con esso il ricorrente lamenta violazione art. 238 bis cod. proc. pen., in quanto era stato consentito l’ingresso nel dibattimento di fatti accertati con due sentenze passate giudicato emesse con rito abbreviato, con utilizzazione di atti di indagini acquisite nella fase delle indagini preliminari che non potevano trovare ingresso nel dibattimento.

Si osserva invero che, alla stregua della giurisprudenza di legittimità, fra le sentenze divenute irrevocabili, menzionate nell’art. 238 bis cod. proc. pen. ed utilizzabili ai fini della prova dei fatti in esse accertati, vanno ricomprese anche quelle emesse a seguito di giudizio abbreviato ovvero di applicazione della pena su richiesta delle parti, fermo restando il principio del libero convincimento del giudice, atteso che anche tali sentenze vanno considerate a tutti gli effetti sentenze di condanna, delle quali pertanto il giudice ben può incidentalmente conoscere, al fine di tener conto dei fatti in essa accertati (cfr. Cass. Sez. 1 n. 8881 del 10/07/2000 dep. 08/08/2000, imp. Malcangi, Rv. 216920). Sono manifestamente privi di fondamento i dubbi di incostituzionalità sollevati in proposito dal ricorrente poichè, come evidenziato nella sentenza impugnata, il giudice del dibattimento ben può, nella valutazione a norma dell’art. 187 e art. 192 cod. proc. pen., comma 3, di quanto acquisito, tenere adeguatamente conto della diversità degli elementi posti a fondamento dei due giudizi scaturiti dallo stesso procedimento.

2.4. E’ infondato il terzo motivo di ricorso proposto da D. D. per il tramite dell’avv. TOMMASINI. Con esso il ricorrente lamenta violazione L. n. 63 del 2001, art. 26, in quanto erano state ritenute utilizzabili in dibattimento, in funzione di contestazioni degli esami testimoniali ex art. 500 cod. proc. pen., dichiarazioni rese dai chiamanti in reltà nel corso delle indagini preliminari per le quali sussisteva il divieto probatorio di cui all’art. 64 cod. proc. pen., comma 3 bis.

Vanno al riguardo richiamate le considerazioni svolte sub. 1.1. trattando dell’analoga questione sollevata nel ricorso proposto nell’interesse del D.V..

2.5. Sono infondati il quarto ed il sesto motivo di ricorso proposti da D.D. per il tramite dell’avv. TOMMASINI, da trattare congiuntamente siccome strettamente correlati fra di loro.

Con essi il ricorrente lamenta l’insussistenza di prove di colpevolezza a suo carico riferite al delitto di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, nota come cosca D’Agostino, operante sul territorio di Santuario, a lui contestato al capo A) della rubrica.

Va al contrario ritenuto che la sentenza impugnata ha adeguatamente motivato in ordine alla sussistenza dell’associazione mafiosa ipotizzata, anche con riguardo alle contestate aggravanti, ed in ordine al ruolo apicale da lui svolto nell’ambito della medesima.

E’ stato invero fatto riferimento, oltre che alle dichiarazioni dei collaboratori, alle sentenze definitive emesse dalla Corte di appello di Reggio Calabria il 13/3/03 e il 13/11/04, con la quale ultima è stato condannato per tale reato D.V., che avevano sancito l’evoluzione subita dall’organismo malavitoso in esame, che era passato dalla vecchia società alla nuova mafia, essendosi registrata in esso una progressiva prevalenza della famiglia D’Agostino rispetto a I.G.; sono state poi indicate le convergenti ed attendibili dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia F. e P., nonchè L. e B., i quali avevano riferito come, a seguito dell’uccisione di D. A., avvenuta nel novembre 1976, il ruolo di vertice nella sodalizio criminoso in esame era stato assunto dall’odierno ricorrente ed era stato rivestito poi di fatto dal fratello D.V. durante la sua detenzione; costituiva poi conferma dell’esistenza e della vitalità di detta cosca mafiosa la cosiddetta faida di Sant’Ilario, seguita alla scissione della cosca avvenuta ad opera dei coimputati B. e R., i quali avevano dato vita ad un nuovo gruppo criminoso che aveva mutuato tutte le caratteristiche della cosca matrice, gareggiando con quest’ultima in ferocia. La Corte territoriale ha poi condivisibilmente rilevato come le censure svolte dal ricorrente in ordine alle singole dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, censure meramente reiterate nella presente sede di legittimità, erano riferite a fatti e profili secondari ovvero a circostanze non riferite specificamente alla posizione dell’odierno ricorrente; ed ha sottolineato la sussistenza di tre elementi idonei a provare il ruolo primario svolto dal ricorrente nell’ambito dell’associazione mafiosa in esame, avendo fatto riferimento al matrimonio da lui contratto con la figlia di B.R., ritenuto personaggio di spicco della criminalità nell’ambito del gruppo MORABITO-PALAMARA- BRUZZANITI, alla latitanza alla quale si era dato più volte nel corso degli anni, che costituiva il chiaro indice del fatto di avere a propria disposizione un’organizzazione di mezzi e di uomini a lui garantita dalla cosca mafiosa dominante, di cui era capo, ed ancora alla disponibilità di un’autovettura blindata, evidentemente connessa alla sua posizione di capo ed ai timori scaturenti dai rapporti con la cosca da lui gestita e gli altri clan mafiosi e dall’offensiva interna poi scatenata nei suoi confronti da R. e B.; e va rilevato infine che la sentenza impugnata ha correttamente tenuto conto della sussistenza in favore del ricorrente di un giudicato, costituito da una sentenza emessa dalla Corte d’appello di Reggio Calabria il 6 maggio 1988, idoneo a coprire i fatti da lui commessi fino al 6 novembre 1979. 2.6. E’ infondato il primo motivo di ricorso proposto personalmente da D.D..

Con esso il ricorrente lamenta violazione dell’art. 546 cod. proc. pen., comma 2, in quanto la sentenza impugnata non era stata sottoscritta dal Presidente della Corte, per essere stato il medesimo, nelle more del deposito della motivazione, collocato a riposo.

La doglianza è infondata, atteso che la norma invocata rende legittima la sottoscrizione del provvedimento collegiale da parte del giudice anziano non solo in caso di morte del Presidente, ma altresì in ogni altra ipotesi di impedimento del medesimo, tale da non consentirgli la sottoscrizione della sentenza; pertanto l’avere il giudice anziano ritenuto di sottoscrivere la sentenza impugnata anche in sostituzione del Presidente, per essere stato quest’ultimo collocato a riposo nelle more della redazione della motivazione, appare una scelta di merito incensurabile nella presente sede di legittimità, siccome ispirata a criteri di ragionevolezza (cfr.

Cass. SS.UU. n. 600 del 29/10/2009 dep.08/01/2010, imp. Galdieri, Rv 245175).

2.7. E’ infondato, al limite dell’inammissibilità, il secondo motivo di ricorso proposto personalmente da D.D..

Con esso il ricorrente lamenta un’indebita compressione delle sue richieste istruttorie, con violazione del suo diritto al contraddittorio. La doglianza è, come sopra detto, infondata limite della inammissibilità, siccome generica ed aspecifica, non avendo con essa il ricorrente indicato quale sia stata la concreta attività istruttoria impeditagli dal Collegio tale da aver menomato il suo diritto di difesa.

2.8. E’ infondato il terzo motivo di ricorso proposto personalmente da D.D..

Esso è analogo a quello già formulato sub 2.4 dal medesimo ricorrente per il tramite del difensore avv. MINNITI; e si richiama quanto ivi rappresentato.

2.9. Il quarto ed il quinto motivo di ricorso proposti personalmente da D.D., da esaminare congiuntamente siccome strettamente correlati fra di loro, costituiscono mere reiterazioni delle censure esaminate al precedente paragrafo 2.5, concernente la sussistenza a suo carico di validi indizi di colpevolezza, idonei a ritenerlo partecipe, con ruolo apicale, della cosca mafiosa D’AGOSTINO, reato contestatogli al capo A); anche nella presente sede va rilevato come la sentenza impugnata abbia correttamente motivato in ordine alla credibilità ed attendibilità delle dichiarazioni rese nei confronti del ricorrente dai collaboratori di giustizia; e vengono integralmente richiamate le considerazioni svolte al precedente paragrafo 2.5. 3. IL RICORSO DI D.L.;

3.1. E’ infondato il primo motivo di ricorso proposto dal D. L. per il tramite dell’avv. D’ASCOLA con cui si lamenta violazione dell’art. 64 c.p.p. e L. n. 63 del 2001, art. 26, comma 2.

Vanno al riguardo richiamate le considerazioni svolte sub 1.1. trattando dell’analoga questione sollevata nel ricorso proposto nell’interesse del D.V..

3.2. E’ infondato inoltre il secondo motivo di ricorso riguardante la legittimità della escussione dei collaboratori di giustizia D. M., R. e P. disposta in dibattimento in applicazione dell’art. 507 cod. proc. pen..

La sentenza impugnata ha invero fatto corretto riferimento alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, la quale, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 111 del 1993, ha interpretato in modo estensivo i poteri conferiti al giudice del dibattimento dalla suddetta norma.

3.3. E’ infondato altresì il terzo motivo di ricorso, con cui si denuncia violazione del principio del ne bis in idem, violazione che la Corte di assise di appello ha invece bene evidenziato non essere affatto profilabile nel caso di specie in quanto le indagini svolte dall’Autorità giudiziaria torinese hanno riguardato un fatto specifico (quelle sfociate nella condanna di cui alla sentenza 18/7/01 della locale Corte di appello) ovvero (quelle in seguito alle quali è stato emesso decreto di archiviazione l’8/6/95) un sodalizio del tutto diverso da quello configurato nel capo C) di imputazione del presente procedimento.

3.4. Ciò premesso, anche per D.L. valgono le considerazioni svolte a proposito delle analoghe doglianze formulate dal ricorrente D.V. per ritenere la sentenza impugnata priva di adeguata motivazione quanto alla sussistenza, a carico del ricorrente, del reato contestatogli al capo C) della rubrica.

Nel richiamare quanto in precedenza rilevato al riguardo nei paragrafi 1.3 e 1.4, la presente sentenza va dunque annullata relativamente al reato anzidetto, in accoglimento del quarto motivo di ricorso assorbente del quinto e del sesto, anche con riferimento al ricorrente D.L., con rinvio degli atti alla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria per nuovo esame, che tenga conto delle carenze motivazionali rilevate.

4. IL RICORSO DI B.G.;

4.1. Va innanzitutto disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con riferimento ai reati contestati a B. G. ai capi N), concernente l’illecita detenzione di una pistola calibro 9 e di un fucile calibro 12 qualificati come armi comuni da sparo, ed O), concernente l’illegale porto in luogo pubblico delle medesime armi, per essere detti reati estinti per intervenuta prescrizione.

Essi invero sono stati contestati come commessi in (OMISSIS). La pena prevista per il reato sub N) è pari nel massimo ad anni 5 e mesi 4 di reclusione, mentre la pena prevista per il reato sub O) è pari nel massimo ad anni 6 e mesi 8 di reclusione.

Considerando i termini prescrizionali di cui all’art. 157 c.p., così come vigenti prima della modifica introdotta al riguardo dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 6, comma 1, norma non applicabile alla specie, in quanto la sentenza di primo grado è stata pronunciata in data 17 novembre 2003 (cfr. citata L. n. 251 del 2005, art. 10), il termine prescrizionale per tali delitti era di anni 10, prorogabile, ai sensi dell’art. 160 cod. pen, comma 3, così come vigente prima dell’entrata in vigore della citata L. n. 251 del 2005, per non oltre la metà; pertanto tutti i reati anzidetti erano da ritenere prescritti ancor prima della pronuncia della sentenza emessa in grado di appello (3 marzo 2006), si che, per essi, va pronunciata declaratoria di estinzione per intervenuta prescrizione, essendo il ricorso proposto nella presente sede fondato anche su motivi non qualificabili come inammissibili.

Provvedere il giudice di rinvio, investito dalle pronunce di annullamento che seguiranno in relazione ad altri reati, alla conseguente rideterminazione del trattamento sanzionatorio.

4.2. La sentenza emessa nei confronti di B.G. va poi annullata con rinvio, in accoglimento del quarto e quinto motivo di ricorso dell’avv. BARTOLO e del quinto motivo di ricorso dell’avv. MANAGO’, con riferimento ai delitti ascrittigli al capo M) della rubrica (artt. 110, 81 c.p.v., artt. 575, 577, comma 1, n. 3; art. 56, 575 e 577 cod. pen., comma 1, n. 3: concorso in qualità di mandante nell’omicidio di Q.E., attinto da numerosi colpi d’arma da fuoco, e nel tentato omicidio in danno di S. V., fatti commessi in territorio di (OMISSIS)).

4.3. Il processo svoltosi a carico del B. per i delitti di cui sopra è fondato esclusivamente sulle dichiarazioni de relato rese dai collaboratori di giustizia, che hanno consentito di fare luce sul fatto solo a grande distanza di tempo da quando era avvenuto.

Secondo la giurisprudenza di legittimità la chiamata in correità o in reltà fatta da un collaboratore di giustizia in tanto può costituire valida prova di colpevolezza a carico di un soggetto in quanto è sorretta da riscontri esterni individualizzanti, i quali siano significativi non solo in ordine al reale accadimento in sè del fatto-reato, ma anche in ordine alla sua riferibilità al soggetto ritenutone responsabile, secondo i canoni offerti dall’art. 192 c.p.p., comma 3 e 4, dettato in tema di valutazione della prova.

Pertanto le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia possono costituire prove di colpevolezza, idonee a giustificare una sentenza di condanna, quando siano intrinsecamente attendibili in sè, sia con riferimento alla personalità ed al vissuto personale del dichiarante, sia con riferimento al contenuto delle dichiarazioni, che devono essere esenti da contraddizioni ed incongruenze, e devono essere altresì corroborate da riscontri esterni, idonei a provare l’attribuzione del fatto reato al soggetto destinatario di esse. Tali riscontri esterni possono consistere, oltre che in eventi esterni, altresì in dichiarazioni accusatorie rese da altri collaboratori di giustizia, purchè siano caratterizzate dalla loro convergenza in ordine al fatto oggetto della narrazione; dall’essere rese senza pregresse intese fraudolente e senza suggestioni o condizionamenti reciproci, tali da inficiarne la concordanza; dall’essere specifiche, anche se non è richiesto che siano completamente sovrapponibili agli elementi d’accusa forniti dagli altri dichiaranti, dovendosi piuttosto privilegiarne l’aspetto essenziale e la loro concordia sul nucleo essenziale dei fatti da provare. La giurisprudenza di legittimità ha altresì specificato (cfr. Sezioni unite 30/10/03, Andreotti e altro) che, in caso di chiamata in reità fondata su dichiarazioni de relato, questa, per poter assurgere al rango di prova pienamente valida a carico del chiamato ed essere posta a fondamento di una pronuncia di condanna, necessita del positivo apprezzamento in ordine alla intrinseca attendibilità non solo del chiamante, ma anche delle persone che hanno fornito le notizie, oltre che dei riscontri esterni alla chiamata stessa, i quali devono avere carattere individualizzante, cioè riferirsi ad ulteriori, specifiche circostanze, strettamente e concretamente ricolleganti in modo diretto il chiamato al fatto di cui deve rispondere, essendo necessario, per la natura indiretta dell’accusa, un più rigoroso e approfondito controllo del contenuto narrativo della stessa e della sua efficacia dimostrativa.

L’omicidio di Q.E. ed il ferimento di S. V. sono stati inquadrati nell’ambito dello scontro tra il gruppo capeggiato da B.G. e R.T. e quello originario facente capo ai D.; l’attribuzione dei delitti al B. è avvenuta unicamente sulla base delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia I.P. e M.R..

Risulta che I. aveva avuto modo di apprendere dal R. che responsabili di tali delitti erano stati, oltre al R. medesimo, anche l’odierno ricorrente; la sentenza impugnata ha peraltro rilevato come il collaboratore anzidetto non aveva indicato in termini di certezza il B. come autista del gruppo di fuoco, autore dei delitti di in esame; nè risulta che indicazioni riferibili all’odierno ricorrente siano state in qualche modo confermate dalle dichiarazioni rese dagli altri collaboranti G., R., R., S., R., D.M. e P., i quali tutti hanno parlato solo del R..

La Corte territoriale ha ritenuto che, stante la stretta intesa intercorsa fra il R. e l’odierno ricorrente, non poteva ritenersi che un’iniziativa di così rilevante spessore fosse il frutto di un’autonoma iniziativa del R. non previamente condivisa dal B., sicchè, pur avendo escluso che quest’ultimo fosse stato uno degli su esecutori materiali dei due delitti, ha ritenuto il medesimo responsabile dei medesimi solo in qualità di mandante. Come in precedenza riferito tuttavia gli elementi evidenziati a carico del B. si riducono essenzialmente alle dichiarazioni rese dai collaboratori I. e M. che non sono idonee a reciprocamente riscontrarsi in quanto i predetti hanno riferito notizie apprese dalla stessa fonte, il R., con conseguente connotazione di circolarità degli elementi di prova che se ne possono desumere.

Quindi, mentre con riferimento alla responsabilità del R. in ordine ai reati in esame sussistono numerosi riscontri costituiti dalle dichiarazioni di altri collaboratori, con riferimento alla responsabilità del B., applicando i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia, si deve ritenere che il più rigoroso vaglio richiesto in caso di chiamate in reità de relato, quali sono quelle dello I. e del M., non poteva, alla stregua di quanto nella sentenza impugnata evidenziato, concludersi con esito positivo, stante l’identità della fonte e mancando l’elemento rappresentato dalla posizione apicale del ricorrente nel sodalizio della specificità necessaria per potergli, in una siffatta situazione probatoria, attribuire rilievo decisivo, quanto alla commissione dell’omicidio e del tentato omicidio di cui si tratta.

Da quanto sopra consegue l’annullamento della sentenza impugnata nei confronti di B.G. con riferimento ai reati di cui al capo M) della rubrica, con rinvio degli atti alla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria per nuovo esame.

4.4. Anche per B.G. valgono poi le considerazioni svolte a proposito delle analoghe doglianze formulate dal ricorrente D.V. per ritenere la sentenza impugnata priva di adeguata motivazione quanto alla sussistenza, a carico del ricorrente, del reato contestatogli al capo C) della rubrica; ed essendo analogo a detto reato quello al medesimo B. contestato al capo D) della rubrica, e affetta dagli stessi vizi la relativa motivazione, è da ritenere che anche con riferimento a quest’ultimo reato valgono le considerazioni sopra riportate.

Nel richiamare quanto in precedenza rilevato al riguardo nei paragrafi 1.3 e 1.4, la sentenza impugnata va dunque annullata relativamente ai reati anzidetti, in accoglimento del settimo e ottavo motivo di ricorso dell’avv. BARTOLO e del settimo motivo di ricorso dell’avv. MANAGO’, con riferimento al ricorrente B. G., con rinvio degli atti alla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria per nuovo esame che tenga conto delle carenze motivazionali rilevate.

4.5. E’ infondato il primo motivo di ricorso proposto da B. G. per il tramite dell’avv. BARTOLO. Con esso il ricorrente lamenta violazione degli artt. 414 e 415 cod. proc. pen., in quanto il P.M. aveva proceduto ad indagini per reati di omicidio, già archiviati come a carico di ignoti, senza la previa richiesta di riapertura delle stesse con decreto motivato del G.I.P. La censura è infondata in quanto, alla stregua della giurisprudenza di legittimità, nei procedimenti contro ignoti non è richiesta l’autorizzazione del G.I.P. alla riapertura delle indagini dopo che è stato emesso il provvedimento di archiviazione per essere rimasti sconosciuti gli autori del reato, in quanto il regime autorizzatorio prescritto dall’art. 414 cod. proc. pen. è diretto a garantire la posizione della persona già individuata e sottoposta ad indagini, mentre, nel procedimento contro ignoti, l’archiviazione ha la semplice funzione di legittimare la cessazione delle indagini, senza alcuna preclusione allo svolgimento di ulteriori e successive attività investigative, ricollegabili direttamente al principio della obbligatorietà dell’azione penale (cfr. Cass. SS.UU. n. 13040 del 28/03/2006, dep. 21/04/2006, imp. ignoti, Rv. 233198).

4.6. E’ infondato il secondo motivo di ricorso proposto da B. G. per il tramite dell’avv. BARTOLO, con il quale il ricorrente lamenta violazione dell’art. 64 cod. proc. pen., così come modificato con la L. n. 63 del 2001, in quanto il P.M. non aveva rinnovato l’esame dei collaboratori con i dovuti avvertimenti, come imposto dall’art. 26 secondo comma della citata legge. Vanno al riguardo richiamate le considerazioni svolte sub 1.1. trattando dell’analoga questione sollevata nel ricorso proposto nell’interesse del D.V..

4.7. E’ infondato, al limite dell’inammissibilità, il terzo motivo di ricorso proposto da B.G. per il tramite dell’avv. BARTOLO. Con esso il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata si sia appiattita sulla pronuncia di primo grado, senza avere dato conto delle doglianze da lui formulate in appello.

La censura è, come sopra detto, infondata al limite della inammissibilità, siccome generica ed aspecifica, priva di concreti e fattuali riscontri circa i punti in ordine ai quali si sarebbe verificato il lamentato appiattimento.

Va comunque ritenuto che la motivazione addotta dalla sentenza impugnata non appare carente, in quanto essa non si è certamente limitata a rimandare alla pronuncia di primo grado, contenendo specifiche ed autonome elaborazioni delle valutazioni espresse dal primo giudice.

4.8. E’ infondato il sesto motivo di ricorso proposto da B. G. per il tramite dell’avv. BARTOLO. Con esso il ricorrente lamenta l’insussistenza a suo carico di validi indizi di colpevolezza per ritenerlo partecipe delle associazioni di stampo mafioso si cui ai capi A) e B) della rubrica.

Si fa al riguardo riferimento a quanto rappresentato nel precedente paragrafo 2.5 trattando della posizione del D.D., dove sono stati indicati i validi e convergenti elementi di prova dai quale desumere l’esistenza e la piena operatività della cosca mafiosa denominata cosca D’Agostino, attiva nel territorio di Santuario dello Ionio, nella quale l’odierno ricorrente aveva un ruolo ben definito, quale addetto a compiti di custodia, in occasione di sequestri di persona, come poteva desumersi dalle dichiarazioni rese dai collaboratori R. e D.M.; la sentenza impugnata ha altresì adeguatamente motivato in ordine alla scissione intervenuta, nell’ambito del clan mafioso anzidetto, ad opera dell’odierno ricorrente e di R.T., i quali a detta di tutti i collaboratori avevano creato un autonomo gruppo mafioso anch’esso armato; ed erano appunto collegati a detta scissione gli omicidi giudicati nel presente processo.

4.9. Non è dato infine esaminare, in quanto assorbito dai motivi accolti, il nono motivo di ricorso proposto da B.G. per il tramite dell’avv. BARTOLO, concernendo il trattamento sanzionatorio per i reati sub C) e sub D) per i quali è stata disposto l’annullamento con rinvio.

4.10. E’ infondato il primo motivo di ricorso proposto da B. G. per il tramite dell’avvocato MANAGO’; si riportano al riguardo le argomentazioni svolte al precedente paragrafo 4.6, per confutare analogo censura svolta dal medesimo ricorrente per il tramite dell’avvocato BARTOLO. 4.11. E’ infondato il secondo motivo di ricorso proposto da B.G. per il tramite dell’avvocato MANAGO’.

La Corte territoriale ha fatto invero corretta applicazione del principio affermato dalla giurisprudenza di giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. 6^ 23/3/05, Iannizzi, rv. 231.860) secondo cui in tema di testimonianza, il procedimento incidentale diretto ad accertare gli elementi concreti per ritenere che il testimone sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità al fine di non deporre o di deporre il falso, deve fondarsi su parametri di ragionevolezza e di persuasività, nel cui ambito può assumere rilievo qualunque elemento sintomatico della intimidazione subita dal teste, purchè sia connotato da precisione, obiettività e significatività, quali sono state dai giudici del merito ritenute, con adeguata motivazione non sindacabile in questa sede, le dichiarazioni del collaboratore F..

4.12. E’ infondato il terzo di ricorso proposto da B. G. per il tramite dell’avvocato MANAGO’; si riportano al riguardo le argomentazioni svolte al precedente paragrafo 4.5 per confutare analogo censura svolta dal medesimo ricorrente per il tramite dell’avvocato BARTOLO. 4.13. E’ infondato il quarto motivo di ricorso proposto da B. G. per il tramite dell’avvocato MANAGO’; si riportano al riguardo le argomentazioni svolte al precedente paragrafo 2.6 per confutare analoga censura formulata dal coimputato D. D..

4.15. E’ infondato il sesto motivo di ricorso proposto da B. G. per il tramite dell’avvocato MANAGO’.

Con esso il ricorrente lamenta l’insussistenza suo carico di validi elementi per renderlo colpevole del delitto di partecipazione ad associazione a delinquere di stampo mafioso.

Si fa al riguardo riferimento alle argomentazioni svolte nel precedente paragrafo 4.8, con richiamo anche al paragrafo 2.5, circa l’adeguatezza della motivazione addotta dalla sentenza impugnata per ritenere il ricorrente partecipe delle associazioni di stampo mafioso di cui ai capi A) e B) della rubrica; e, con riferimento alla pretesa violazione della norma di cui all’art. 238 cod. proc. pen., si richiama quanto rappresentato nel precedente paragrafo 2.3 circa la corretta utilizzazione probatoria fatta dai giudici di merito di sentenze penali irrevocabili.

5.IL RICORSO DI R.T.;

5.1. Va innanzitutto disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con riferimento ai reati contestati a R. T. ai capi N), O), T) ed U) della rubrica, concernenti quelli sub N) e T) illecita detenzione di una pistola calibro 9 e di un fucile calibro 12, qualificati come armi comuni da sparo, e quelli sub O) ed U) illegale porto in luogo pubblico delle medesime armi, essendo detti reati estinti per intervenuta prescrizione.

Essi invero sono stati contestati come commessi i primi due in (OMISSIS); gli altri due in (OMISSIS). La pena prevista per i reati sub N) e T) è pari nel massimo ad anni 5 e mesi 4 di reclusione, mentre la pena prevista per i reati sub O) ed U) è pari nel massimo ad anni 6 e mesi 8 di reclusione.

Considerando i termini prescrizionali, di cui all’art. 157 c.p., così come vigenti prima della modifica introdotta al riguardo dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 6, comma 1, norma non applicabile alla specie, in quanto la sentenza di primo grado risale al 17 novembre 2003 (cfr. citata L. n. 251 del 2005, art. 10), il termine prescrizionale per tali delitti era di anni 10, prorogabile per non oltre la metà, ai sensi dell’art. 160 cod. pen., comma 3, così come vigente prima dell’entrata in vigore della citata L. n. 251 del 2005;

pertanto tutti i reati in esame erano da ritenere prescritti ancor prima della pronuncia della sentenza emessa in grado di appello (3 marzo 2006), si che, per essi, va pronunciata declaratoria di estinzione per intervenuta prescrizione, essendo il ricorso proposto nella presente sede fondato anche su motivi non qualificabili come inammissibili.

Provvedere il giudice di rinvio, investito dalla pronuncia di annullamento che seguirà in relazione ad altri reati, alla conseguente rideterminazione della durata dell’isolamento diurno cui l’imputato è stato condannato.

5.2. Anche per R.T. valgono poi le considerazioni svolte a proposito delle analoghe doglianze formulate dal ricorrente D.V. per ritenere la sentenza impugnata priva di adeguata motivazione quanto alla sussistenza, a carico del ricorrente, del reato contestatogli al capo C) della rubrica; ed essendo analogo a detto reato quello al medesimo R. contestato al capo D) della rubrica, e affetta dagli stessi vizi la relativa motivazione, è da ritenere che anche con riferimento a quest’ultimo reato valgono le considerazioni sopra riportate.

Nel richiamare quanto in precedenza rilevato al riguardo nei paragrafi 1.3 e 1.4, la sentenza impugnata va dunque annullata relativamente ai reati anzidetti, in parziale accoglimento dell’articolato terzo motivo di ricorso degli avv. ALBANESE e FURFARO, con riferimento al ricorrente R.T., con rinvio degli atti alla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria per nuovo esame che tenga conto delle carenze motivazionali rilevate.

5.3. E’ infondato il primo motivo di ricorso proposto da R. T..

Con esso il ricorrente lamenta violazione degli artt. 414 e 415 cod. proc. pen., in quanto il P.M. aveva proceduto ad indagini per reati omicidiari, già archiviati come a carico di ignoti, senza la previa richiesta di riapertura delle stesse con decreto motivato del G.I.P. Vanno al riguardo richiamate le considerazioni svolte sub 4.5 trattando dell’analoga questione sollevata nel ricorso proposto nell’interesse di B.G..

5.4.E’ infondato il secondo motivo di ricorso proposto da R. T..

Esso concerne una pretesa violazione dell’art. 64 c.p.p., così come innovato dalla L. n. 63 del 2001.

Vanno al riguardo richiamate le considerazioni svolte sub 1.1 trattando dell’analoga questione sollevata nel ricorso proposto nell’interesse del D.V..

5.5. E’ infondato il terzo motivo di ricorso nella parte in cui sostiene l’insussistenza di valide prove di colpevolezza a carico del R. per ritenerio partecipe delle associazioni criminose di stampo mafioso denominate rispettivamente cosca D’Agostino capo A) della rubrica e cosca Romeo-Belcastro, da lui stesso costituita, a seguito di scissione dall’originaria cosca d’Agostino, di cui facevano parte sia esso ricorrente sia il B. capo B) della rubrica.

Si richiamano al riguardo le argomentazioni svolte nei precedenti paragrafi 2.5 e 4.8 per desumerne l’esistenza e la piena operatività sia della cosca d’Agostino sia della cosca Romeo-Belcastro, sorta per scissione dalla prima nell’estate del 1990. La sentenza impugnata ha altresì indicato i validi motivi, dai quali desumere la piena partecipazione del ricorrente alla cosca d’Agostino, avendo rilevato come, dopo un periodo di latitanza fra il 1987 ed il marzo 1988, il ricorrente si era avvicinato ai D’Agostino, dai quali aveva ricevuto aiuto ed ospitalità e nel cui interesse aveva stabilmente operato, e la sentenza impugnata ha al riguardo richiamato le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia I. e M.; successivamente il ricorrente era divenuto in via definitiva componente della cosca d’Agostino, essendo a lui stati conferiti i gradi di camorrista e di sgarrista. I giudici di merito, sulla scorta di quanto definitivamente accertato dalla Corte d’appello di Reggio Calabria con sentenza del 13 marzo 2003, hanno poi ricostruito le vicende della faida interna, a seguito della quale, dall’originaria cosca d’Agostino, era a detta di tutti i collaboratori nata la secessionista cosca Romeo-Belcastro, con la scia sanguinosa di plurimi omicidi riconducibili a detta scissione.

5.7. Il terzo motivo di ricorso è altresì infondato nella parte in cui il ricorrente lamenta l’insussistenza di adeguati indizi di colpevolezza a suo carico in ordine al reato di cui al capo M) della rubrica (omicidio di Q.E. e tentato omicidio di S.V.), con i connessi reati in materia di armi di cui ai capi N) ed O) della rubrica, in ordine di cui al capo S) della rubrica (omicidio di I.B. e tentato omicidio di S. A.), con i connessi reati in materia di armi e ricettazione di cui ai capi T), U) e V) della rubrica nonchè in ordine al reato di cui al capo Z) della rubrica (omicidio di S.V.), con i connessi reati in materia di armi di cui ai capi Al) ed A2) della rubrica.

5.8. Si richiama quanto già illustrato al precedente paragrafo 4.3 circa i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità per valutare le dichiarazioni eteroaccusatorie rese dai collaboratori di giustizia.

5.9. L’omicidio Q. ed il tentato omicidio S. V. sono stati inquadrati dai giudici di merito nell’ambito dello scontro tra il gruppo scissionista capeggiato da B. G. e R.T. e la cosca originaria facente capo al D..

L’attribuzione dei delitti anzidetti al R. è avvenuta sulla base della convergenza di numerose fonti dichiarative circa il fatto che egli ne fosse stato uno degli esecutori; la Corte territoriale ha attribuito maggiore valenza accusatoria alle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia I.P., il quale, per gli stretti rapporti di amicizia che lo legavano all’ucciso, si era sentito in dovere di andare alla ricerca del vero movente e degli artefici del delitto ed aveva affermato che a sparare al Q. ed al S. era stato l’odierno ricorrente con una pistola e tale E.A. con un fucile. Lo I. aveva dichiarato di aver appreso svolgimento dei fatti dal racconto fattogli da Q.R., fratello dell’ucciso, il quale a sua volta aveva conosciuto lo svolgimento del fatto di sangue dal racconto fattogli da S.V., che era scampato all’agguato; ed al riguardo la Corte territoriale ha correttamente ritenuto che non fosse sufficiente a sminuire la valenza di tale dichiarazione – di particolare valore probatorio, essendo la fonte originaria la persona offesa sopravvissuta, teste oculare del fatto – la circostanza che Q.R., sentito in dibattimento, aveva negato di aver mai contattato il S..

La Corte territoriale ha in tal modo ritenuto pienamente attendibile lo I., avendo altresì riferito di un colloquio da lui avuto con l’odierno ricorrente dopo il fatto di sangue in esame, nel corso del quale il R. aveva ammesso di esserne stato responsabile; ed aveva lo I. ancora riferito di un dialogo da lui avuto con R. G., altro componente del clan Romeo-Belcastro, svoltosi in carcere nel 1992, nel corso del quale il R. aveva ammesso un suo ruolo di appoggio o copertura nella commissione dei delitti in esame.

Le dichiarazioni rese dal collaborante I. erano state poi validamente riscontrate dalle dichiarazioni rese dai collaboranti G.A. e R.A..

Il primo aveva dichiarato che all’inizio del 1991 aveva stretto rapporti con Q.R., fratello della vittima, dal quale aveva avuto un racconto dettagliato della vicenda omicidiaria, avendo riferito che l’auto nella quale si trovavano le due vittime era stata affiancata da un’altra vettura sulla quale vi erano l’odierno ricorrente ed E.; anche il collaborante R. aveva dichiarato di aver appreso da Q.R. notizie in ordine all’agguato teso al fratello, dichiarando che i responsabili di tale omicidio erano stati l’odierno ricorrente e l’ E..

Le dichiarazioni rese dallo I. avevano ancora trovato puntuale conferma nelle dichiarazioni rese dal collaborante S. G., il quale aveva evidenziato come il primo gli avesse manifestato con certezza il nome di due responsabile del delitto in esame R. ed E.) fin da prima che avesse scelto la via della collaborazione.

Altro riscontro alle dichiarazioni dello I. erano venute dal collaboratore R.G., il quale aveva individuato nell’odierno ricorrente, da notizie apprese dal M.d.A., il responsabile del delitto in esame; e queste ultime dichiarazioni erano particolarmente attendibili in quanto provenienti da un soggetto, quale il R., proveniente da un’altra cosca operante sul territorio, la cosiddetta cosca Latella.

Ed altro riscontro ancora era venuto dal collaboratore R. R., il quale ha dichiarato che a indicargli il R. quale autore dell’omicidio del Q. e del tentato omicidio del S. erano stati non solo quest’ultimo ma anche D. L..

Da quanto sopra consegue che il coinvolgimento dell’odierno ricorrente nei due delitti in esame è stato adeguatamente motivato dalla sentenza impugnatala quale ha fatto riferimento alle dichiarazioni rese dal collaboratore I., risultate attendibili siccome riscontrate dalle dichiarazioni rese dagli altri collaboratori di cui sopra, ed ha evidenziato la pluralità delle fonti originarie ( S., R., Q.R., i Morabito di Africo, D.L.);

5.10. Anche l’omicidio di I.B. ed il tentato omicidio di S.A. erano maturati nell’ambito della guerra di mafia apertasi tra il gruppo D’Agostino, al quale la vittima faceva capo ed il clan diretto dall’odierno ricorrente e dal B..

I giudici di merito hanno ritenuto responsabile dei fatti di sangue in esame l’odierno ricorrente, avendo correttamente valorizzato gli apporti di un significativo numero di collaboratori di giustizia, quali R.G., P.L., S.G., G.V. ed I.P.; di essi il G. aveva indicato come propria fonte di conoscenza R.V., notoriamente aderente alla cosca BELCASTRO-ROMEO; lo I. aveva a sua volta indicato come propria fonte di conoscenza da un lato Q. E. e dall’altro lo stesso odierno ricorrente; in particolare quest’ultimo gli aveva riferito che I., definito come "paralitico", e notoriamente legato al clan d’Agostino, era stato ucciso come risposta all’ingiusta eliminazione di M.V., alla quale la vittima avrebbe collaborato in veste di segnalatore;

tuttavia la Corte territoriale ha ritenuto che non fosse emerso con sufficiente certezza che l’odierno ricorrente avesse materialmente esploso i colpi di fucile nei confronti dello I. ma ha ritenuto, con conclusione sorretta da motivazione adeguata e conforme alle regole di giudizio elaborate dalla giurisprudenza di questa Corte e che si sottrae pertanto a censura in questa sede, che la convergenza delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia di cui sopra avesse fornito un quadro probatorio adeguato per attribuire al R. il ruolo di mandante.

5.11. Alla stessa conclusione si deve pervenire anche per l’omicidio di S.V. che pure era avvenuto nell’ambito della contrapposizione tra i gruppi facenti capo ai D’Agostino ed ai Belcastro-Romeo, come desunto dai giudici di merito dalle dichiarazioni rese dai collaboranti P.L. e G. V.. Più precise e circostanziate nell’indicare come l’odierno ricorrente fosse stato il mandante dell’omicidio in esame erano state le dichiarazioni rese dai collaboranti I., che ha riferito notizie apprese da appartenenti al gruppo Comisso e dallo stesso R., e R.R.; quest’ultimo, ritenuto dai giudici di merito particolarmente attendibile, aveva conosciuto da D. L. le modalità dell’attentato subito dalla vittima ed aveva altresì riferito che i relativi responsabili erano gli stessi che, in precedenza avevano cercato di uccidere il S.; ed invero, come in precedenza riferito, il S. aveva subito un altro attentato il (OMISSIS), nel corso del quale era rimasto ucciso Q.E..

La Corte territoriale pertanto, con motivazione immune da vizi sindacabili in questa sede, ha ritenuto che le dichiarazioni del R. e quelle dello I., riscontrandosi a vicenda, consentivano di ritenere l’odierno ricorrente come l’ideatore e l’organizzatore dell’omicidio del S..

6. Da quanto sopra consegue:

– l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata nei confronti dei ricorrenti B.G. e R.T., con riferimento ai reati a ciascuno di essi ascritti ai capi N), O), T) ed U), essendo detti reati estinti per intervenuta prescrizione;

– l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, con riferimento al reato ascritto al ricorrente B.G. al capo M) della rubrica;

– l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, con riferimento al reato di cui al capo C) della rubrica ascritto ai ricorrenti D.V., D.D. e D.L.;

– l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata con riferimento ai reati di cui ai capi C) e D) ascritti ai ricorrenti B. G. e R.T.;

-il rigetto nel resto dei ricorsi proposti dai ricorrenti D. D., B.G. e R.T..

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata senza rinvio nei confronti di B.G. e R.T., relativamente ai reati loro rispettivamente ascritti ai capi N), O), T) ed U) perchè estinti per prescrizione.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti del B. relativamente ai reati di cui al capo M), nei confronti di D.V., D.D. e D.L., relativamente al reato di cui al capo C) e nei confronti del B. e del R. relativamente ai reati di cui ai capi C) e D) e rinvia per nuovo giudizio al riguardo, nonchè per le determinazioni in ordine all’isolamento diurno nei confronti del R. conseguenti all’annullamento senza rinvio per i capi N), O), T) ed U), ad altra sezione della Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria.

Rigetta nel resto i ricorsi di D.D., del B. e del R..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *