Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 11-05-2011) 29-07-2011, n. 30281

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

1. Con la decisione in epigrafe la Corte militare di appello di Roma confermava la sentenza emessa in data 4 novembre 2009 dal Tribunale militare di Napoli, che aveva condannato T.P.A., caporale VFP4 dell’Esercito italiano, alla pena di un mese e quindici giorni di reclusione militare, in concorso di circostanze attenuanti generiche prevalenti sull’aggravante del grado rivestito, per il reato di ingiuria continuata ai sensi dell’art. 226 c.p.m.p. – cosi riqualificati i fatti originariamente contestati a titolo di insubordinazione con minaccia e ingiuria ( art. 189 c.p.m.p., commi 1 e 2) – commessi il 1 settembre 2006 ai danni dei Carabinieri:

Appuntato B., Maresciallo capo M., Brigadiere capo Mo..

La ricostruzione della vicenda veniva fatta, concordemente, dai giudici di merito sulla scorta delle dichiarazioni dei Carabinieri intervenuti, una decina. Secondo quanto riferito dal Maresciallo M., confermato dagli altri carabinieri escussi, Mo., S., Sb. e N., nonchè Sc., F. e C.: i militari avevano fermato dopo la mezzanotte l’imputato che viaggiava alla guida della sua vettura privo di cinture di sicurezza; gli avevano contestato questa infrazione e il mancato possesso della carta di circolazione; mentre uno dei militari era intento a redigere il verbale, appoggiato sul bagagliaio di una delle autovetture di servizio, l’imputato era uscito dalla propria vettura e si era avvicinato al compilatore dicendogli: "quando scrivi mettiti il berretto che pure io tengo la divisa, non siete nessuno, non valete un cazzo", e contemporaneamente aveva sferrato un pugno sul pianale; in un crescendo d’ira si era quindi rivolto a tutti i militari presenti (circa una decina), profferendo le espressioni: "mi avete rotto i coglioni, mi state facendo perdere troppo tempo con queste barzellette dei verbali, mi fate ridere siete meno di una merda"; allontanandosi, infine, dava una spallata ad un altro carabiniere e faceva finta di inciampare, nel contempo accusando i militari – come aveva specificato il Maresciallo M. – di fargli "sgambetti". Lo S. aveva aggiunto che, dandogli la spallata prima di allontanarsi, l’imputato aveva detto: "mi avete rotto i coglioni, mi state facendo perdere tempo" e "metti il berretto, senza berretto non sei nessuno, non siete nessuno, non siete un cazzo, vi faccio perdere il posto". E il F. che l’imputato si dimenava, agitandosi, accusando i Carabinieri di fargli lo sgambetto al fine di attirare l’attenzione delle altre persone presenti, tanto che si era formata una folla di curiosi. Il Maresciallo M. aveva inoltre precisato che sebbene l’imputato vestisse abiti borghesi, dalla prima frase che aveva pronunciato aveva intuito trattarsi di militare, avendone la conferma allorchè aveva tentato di calmarlo e quello gli aveva confermato di essere un militare, ma solo perchè non aveva altro lavoro.

Le testimoni addotte dalla difesa avevano parzialmente confermato la versione difensiva, secondo cui erano stati i Carabinieri ad insultare l’imputato, l’avevano strattonato e gli avevano fatto sgambetti, ma non potevano ritenersi credibili: da un lato perchè avevano assistito ai fatti collocati in modo tale da aver impedita una visione integrale; dall’altro perchè non vi era motivo di dubitare dell’attendibilità dei nove militari escussi, che avevano fornito resoconti univoci, logicamente coerenti anche con la circostanza, non contestata, che s’era formato un capannello di curiosi; mentre le circostanze riferite dai testimoni della difesa.

2. Ricorre l’imputato a mezzo del difensore, avvocato Biancamaria Menchise, che chiede l’annullamento della sentenza impugnata, e in subordine la riduzione nel minimo della pena, denunziando violazione di legge e vizi di motivazione con riferimento:

2.1. alla valutazione del compendio probatorio; sostenendo che illogicamente e arbitrariamente i giudici dei merito avevano privilegiato le deposizioni dei Carabinieri in luogo di quelle dell’imputato e delle testimoni E. e B., che consentivano di escludere la commissione dei fatti contestati ovvero di ritenere sussistente l’esimente (le testi avrebbero confermato che i Carabinieri avevano fatto due "sgambetti" all’imputato);

2.2. al difetto di giurisdizione della magistratura militare;

sostenendo che per la realizzazione del reato di cui all’art. 226 c.p.m.p. non è sufficiente la consapevolezza da parte dell’agente del doppio status di militare, suo e delle persona offesa, ma occorre che la condotta ingiuriosa si inserisca nell’ambito di un rapporto tra militari e inerisca interessi militari, non potendo non trovare applicazione le stesse ragioni poste a fondamento della sentenza della Corte costituzionale in tema di art. 199 c.p.m.p.; che il Tribunale aveva d’altro canto riconosciuto che il riferimento al proprio status di militare fatto dall’imputato all’inizio della vicenda era ambiguo e neppure risultava percepito da tutti i presenti; che quella in esame era dunque soltanto, e al più, un’ipotesi di ingiuria punibile ai sensi dell’art. 594 cod. pen., aggravata dall’essere le persone offese pubblici ufficiali.

Motivi della decisione

1. Osserva il Collegio che il ricorso è nel complesso infondato.

2. Il secondo motivo, che sarebbe in realtà pregiudiziale concernendo la giurisdizione, è privo di fondamento.

In risposta alle deduzioni articolate dalla difesa con l’impugnazione, la Corte di appello ha osservato che la giurisdizione militare era indubbia: il T. aveva fin dall’inizio rappresentato ai militari intervenuti il suo stato di militare; era dunque irrilevante la maggiore consapevolezza della qualità di militare dell’offensore acquisita dai Carabinieri successivamente alla realizzazione dei fatti; bastava, per altro, a rendere sussistente il reato militare, la "consapevolezza del rispettivo status da parte del solo soggetto agente". 2.1. Ora, il dato decisivo è che entrambi i giudici di merito, ma in particolare la Corte di appello, hanno sottolineato come sin dal momento in cui aveva pronunziato le prime parole offensive, l’imputato aveva chiaramente lasciato intendere di essere un militare e tale sua qualità era stata immediatamente compresa, come chiarisce la sentenza impugnata, dal Maresciallo M.. Lo status di militare di offensore e offesi, reciprocamente percepibile e percepito, in situazione in cui era oggettivamente certo, altresì, l’agire degli offesi per ragioni di servizio nonchè il collegamento a tali ragioni delle ingiurie, costituisce dunque il risultato di apprezzamenti di fatto adeguati, logicamente valutati, che pienamente giustifica la qualificazione delle offese ai sensi del reato militare ritenuto in sentenza.

2.2. A fronte della situazione di fatto evidenziata, la circostanza che la Corte militare di appello abbia ritenuto, ad abbondanza, che sarebbe bastata comunque la consapevolezza del rispettivo stato di militare da parte del soggetto agente, appare assolutamente non decisiva ai fini della tenuta del discorso giustificativo.

Incidono per conseguenza suo aspetto irrilevante la censure articolate nel ricorso che s’appuntano su tale profilo interpretativo.

3. Le censure articolate nel primo motivo di ricorso appaiono quindi inammissibili.

Basterà qui ricordare (rimandando per i dettagli della ricostruzione alla esposizione in fatto) che, in risposta alle analoghe osservazione dell’atto d’appello la Corte di merito aveva ribadito che la prova dei fatti emergeva dall’univoco tenore delle dichiarazioni delle persone offese e degli altri Carabinieri presenti, sulla cui attendibilità non potevano essere nutriti dubbi.

Lo stesso imputato aveva ammesso la sussistenza delle infrazioni contestategli e non rilevavano le dichiarazioni delle testimoni B. e E., che erano in auto con lui ed erano poi rimaste in posizione defilata, e ben potevano, dunque, non avere percepito le frasi dette dall’imputato ed equivocato (era anche sera) i contatti tra l’imputato e i Carabinieri. Nè v’era prova alcuna, obiettiva, dei comportamenti che, secondo la difesa, integravano l’esimente dell’art. 228 c.p.m.p..

A fronte, le doglianze sono generiche, perchè neppure considerano, al fine di confutarle specificatamente, tutte le argomentazioni poste a fondamento della loro concorde decisione dei giudici del merito;

ma, sostanzialmente, pretendono da questa Corte un’incursione nei fatti, chiedendole di leggere e privilegiare alcune prove dichiarative coerentemente valutate dai giudici del merito scarsamente credibili in luogo delle altre, ritenute del tutto logicamente e plausibilmente – e per la veste dei dichiaranti e per il loro numero – sicuramente più attendibili.

4. Il ricorso deve per conseguenza essere rigettato e il ricorrente deve essere condannato, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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