Cass. civ. Sez. I, Sent., 22-12-2011, n. 28450

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con ricorso alla Corte d’appello di Milano il signor V. S. chiese l’equa riparazione per l’irragionevole durata di un processo penale, nel quale era stato imputato di abusi sessuali in danno di una minore.

Con decreto 18 marzo 2009 la corte respinse la domanda. La corte accertò che la durata del processo, ai fini della causa, doveva essere computata dalla data in cui l’imputato aveva avuto conoscenza del processo (4 luglio 1997) a quella della sentenza della corte di cassazione (30 novembre 2007); che dovevano essere detratti i due periodi di rinvio per legittimo impedimento del difensore, e che doveva tenersi conto delle particolari esigenze istruttorie del caso.

Tenuto conto di questi elementi, la durata del processo doveva considerarsi superiore di due anni e tre mesi rispetto al tempo necessario per il completamento delle indagini preliminari e per lo svolgimento di tre gradi di giudizio. Peraltro, tenuto conto della sensibilità del ricorrente, quale emergeva dalla vicenda penale, doveva escludersi la sussistenza di prova in re ipsa del danno NON LE patrimoniale; nè v’era prova di sofferenza per un processo il cui protrarsi ben poteva essere foriero – come era avvenuto per uno dei capi d’imputazione – di applicazione della prescrizione, che lo slittamento del tempo di espiazione poteva persino comportare l’applicazione di un provvedimento di condono.

2. Per la cassazione del decreto, non notificato, ricorre il V., per due motivi, con atto notificato il 22 maggio 2009.

Il Ministero non ha svolto difese.

3. Con il primo motivo di ricorso si censura la decisione di rigetto dell’impugnata sentenza per violazione e mancata applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 1 e art. 3 e degli artt. 2056 e 1226 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, nonchè l’illogicità della sentenza che, pur avendo riconosciuto il superamento del termine ragionevole, ha escluso il danno in ragione del titolo di reato per il quale è intervenuta la sentenza di condanna del V.. Si pone il quesito se, nel sistema introdotto dalla L. n. 89 del 2001, rilevato il superamento del termine di ragionevole durata e quindi la violazione dell’art. 6 della CEDU, sulla prova del danno non patrimoniale da esso conseguente incida il titolo del reato commesso da ricorrente.

4. Il motivo è inammissibile, laddove sovrappone questioni di violazione di norme di diritto, che suppongono l’accertamento dei fatti contenuto nella sentenza impugnata, e – con il riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5 – questioni di motivazione della sentenza, che mettono in discussione le premesse della decisione in diritto.

Del resto, per l’ammissibilità della censura in punto di motivazione manca, nel ricorso, la sintesi prescritta dall’art. 366 bis c.p.c..

Il mezzo può essere pertanto esaminato esclusivamente sotto il profilo del quesito di diritto che sintetizza la censura.

Il medesimo quesito è peraltro a sua volta inammissibile, supponendo un principio di diritto enunciato dal giudice di merito o sottostante alla decisione, circa l’incidenza, sulla prova del danno, del titolo di reato contestato nel processo presupposto, che non si rinviene in termini nell’impugnato decreto. In questo, infatti, il giudice ha basato la sua decisione sull’accertamento in concreto dell’inesistenza di un danno non patrimoniale, motivando il suo convincimento sia con la ricostruzione della personalità e della sensibilità della parte, e sia con altri argomenti attinti alla specifica vicenda processuale (prospettive, legate alla protrazione dei tempi del processo, di prescrizione del reato, poi realizzatasi per un capo d’imputazione, e di possibile condono). Si tratta di una motivazione che doveva essere specificamente e appropriatamente censurata, e che, in mancanza di tali censure, è insindacabile in questa sede.

6. Il secondo motivo di ricorso censura la condanna del soccombente al pagamento delle spese processuali, e formula il quesito se la corte, pur riscontrato il superamento del termine di ragionevole durata ritenga non provato il danno morale e respinga la domanda, debba procedere obbligatoriamente alla condanna del ricorrente cosiddetto soccombente ai sensi dell’art. 91 oppure possa disporre la compensazione delle spese ed il dichiarato superamento integri un giusto motivo ex art. 92 c.p.c..

Il quesito è inammissibile. Va rilevato, preliminarmente, che essendo stata la domanda attrice interamente rigettata non può ravvisarsi nella fattispecie una soccombenza parziale. Quanto ai giusti motivi, che possono giustificare la compensazione delle spese, questa è espressione di un potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio – derogando alla regola generale della soccombenza – deve essere motivato, mentre non si richiede alcuna motivazione per il caso inverso, di mancato esercizio.

In conclusione il ricorso è dichiarato inammissibile. In difetto di difese svolte dall’amministrazione non v’è luogo a pronuncia sulle spese.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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