Cons. Stato Sez. IV, Sent., 02-09-2011, n. 4975 Ordinamento giudiziario

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1 – Con il primo degli appelli indicati in epigrafe la dott.ssa M. R. P. ha chiesto la riforma della sentenza n. 37664 del 20 dicembre 2010 con la quale il TAR Lazio ha accolto il ricorso del dott. N. C. G. per l’esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza dello stesso TAR n. 911 del 31 gennaio 2009 -confermata in appello da questo Consiglio di Stato con decisione n. 9306 del 31 dicembre 2009- di annullamento della delibera del Consiglio Superiore della Magistratura del 7 febbraio 2008 di conferimento alla dott.ssa P. dell’ufficio direttivo di Presidente della Corte di Appello di Venezia.

I motivi di impugnazione formulati dal predetto magistrato sono così rubricati:

1)- improcedibilità del ricorso di primo grado per sopravvenuta carenza di interesse del proponente in conseguenza del suo collocamento a riposo nel corso del giudizio;

2)- inammissibilitàimprocedibilita per cumulo di domande; eccesso di potere per illogicità manifesta; violazione e falsa applicazione dell’art. 32 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104;

3)- inammissibilità dell’azione di ottemperanza; violazione e falsa applicazione degli artt. 21, 112, 113 e 114 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104;

4)- incompetenza funzionale del TAR del Lazio in sede di ottemperanza; violazione dell’art. 37 della legge n. 1034 del 1971, anche in relazione all’art. 113 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104; inammissibilità del ricorso per ottemperanza;

5)- inammissibilità del ricorso di primo grado per genericità; violazione dell’art. 6 del RD 17 agosto 1907, n. 642 anche in relazione all’art. 40 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104; eccesso di potere per omessa pronunzia;

6)- eccesso di potere per difetto di presupposto, di motivazione, di struttoria; illogicità e contraddittorietà manifeste; violazione dei principi generali relativi al giudicato amministrativo; violazione e falsa interpretazione della circolare del8 luglio 1999, P13000, e s.m.i.; violazione dell’art. 21 del d.lgs. n. 104 del 2010;

7)- illegittimità costituzionale degli artt. 112, 113, 114 e 14 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, per contrasto con gli articoli 111, 97, 24 e 25 della Costituzione; illegittimità costituzionale dell’art. 21 del medesimo d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, per contrasto con gli artt. 101, 104 ed 83 e seguenti (inm particolare art. 90) della Costituzione.

Si sono costituiti sia il dott. A. Passanante sia il dott. N. C. G. che con memorie hanno argomentato in ordine all’infondatezza sia dei motivi di appello sia dell’eccezione di costituzionalità sollevata con riferimento alle norme del c.p.a.

Nella camera di Consiglio del 22 marzo 2011 è stata accolta la domanda cautelare di sospensione dell’efficacia delle sentenza impugnata con ordinanza di questa Sezione n. 1315 di pari data.

2. – Con il secondo degli appelli in epigrafe il Ministero della Giustizia ed il Consiglio Superiore della Magistratura (di seguito, per brevità: CSM) hanno anch’essi chiesto la riforma della già citata sentenza del primo Giudice deducendo che -premessi i principi generali distintivi delle posizioni giuridiche caratterizzate da interessi oppositivi e pretensivi, nonché della valenza delle sentenze che abbiano ad oggetto tali interessi, che si distinguerebbero le prime per la loro capacità auto applicativa, invece esclusa per le seconde, in quanto rimarrebbe inalterata la capacità valutativa discrezionale dell’organo chiamato ad eseguire il dictum, ancor più se di rilievo costituzionale come il CSM- nel caso in esame il giudicato sarebbe stato correttamente eseguito avendo il citato organo di autogoverno rivalutato funditus tutti gli atti ed i fatti presupposti, nonché avendo proceduto alla rinnovata comparazione dei candidati concludendo per la preminenza della dott.ssa P. sulla base di valutazioni che pertengono esclusivamente al CSM che la stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato riconoscerebbe come intangibili.

Si sono costituiti nel relativo giudizio sia la cointeressata dott.ssa P., sia i controinteressati dott. Passanante e Greco, articolando con più memorie le rispettive difese.

3. – Nella camera di consiglio del 21 giugno 2011 entrambi gli appelli sono stati discussi ed introitati per la decisione.

4. – Preliminarmente deve disporsi, ex art. 96, comma 1, del c.p.a., la riunione dei citati appelli, impugnandosi con essi la stessa sentenza.

5. – Sempre in via preliminare deve il Collegio esaminare l’eccezione di inammissibilità di entrambi gli appelli formulata dalla difesa del dott. Greco sul presupposto che, nella specie, il Giudice dell’ottemperanza avrebbe "…esercitato, in realtà, attività in luogo dell’Amministrazione e solo incidentalmente, ma necessariamente, ha conosciuto del provvedimento amministrativo ritenendolo nullo perché elusivo del giudicato…" e che il potere dallo stesso concretamente esercitato escluderebbe l’impugnabilità della sentenza in questione, considerato che essa consisterebbe in "…un provvedimento il quale, seppur formalmente assume la veste di una sentenza, in realtà ha natura sostanzialmente amministrativa…".

La tesi non merita consenso perché la norma dell’art. 114 del c.p.a, in particolare del comma ottavo, pur nella sua non perspicua formulazione, può ritenersi comunque confermativa dell’avviso giurisprudenziale formatosi sotto l’impero della legge n. 1034 del 1971 alla stregua del quale sono appellabili le sentenze rese in sede di ottemperanza che abbiano deciso questioni pregiudiziali e questioni, come quella rilevante nella specie, inerenti l’elusività o meno del provvedimento adottato dall’organo amministrativo tenuto all’esecuzione della sentenza di merito.

Quanto, poi, alle restanti eccezioni pure sollevate dalla medesima difesa, ritiene il Collegio che, per mera economia di giudizio, possa prescindersi dall’esame delle stesse (difetto di legittimazione e rito necessario), stante l’infondatezza nel merito di entrambi gli appelli.

6. – Ciò deciso in via pregiudiziale, può darsi ingresso all’esame dei motivi di impugnazione proposti dalle parti principiando da quelli della dott.ssa R. P., che sono tutti infondati per le seguenti considerazioni.

6.1 – Con il primo di essi l’appellante sostiene che il ricorso di primo grado sarebbe divenuto improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse del proponente alla sua decisione, in conseguenza del suo collocamento a riposo nel corso del giudizio.

L’eccezione è infondata in quanto il ricorrente rimane in possesso non soltanto di un interesse morale alla decisione, notoriamente sufficiente a sostenere in termini di attualità e concretezza la domanda giudiziale, ma anche di un più solido interesse collegato alla ricostruzione della carriera, ai fini del trattamento economico di quiescenza, nel caso di esito favorevole del giudizio.

Inoltre, giova precisare, al riguardo, che è inammissibile la produzione documentale dell’appellante relativa al pensionamento del dott. Greco, ai sensi dell’art. 104 del c.p.a., non essendo stata dimostrata dalla parte l’impossibilità di provvedervi in primo grado, allorquando è stata formulata anche in quella sede l’eccezione che i documenti in questione comprovano.

6.2 – Con il secondo motivo si afferma che la proposizione soltanto in via subordinata della domanda di annullamento della delibera del CSM del 14 aprile 2010, ritenuta elusiva del giudicato, rispetto alla domanda di accertamento della nullità della stessa delibera, si porrebbe in contrasto con la norma dell’art. 32 del c.p.a perché ne violerebbe il contenuto dispositivo.

La tesi è priva di pregio poiché è già la lettera della norma che, inequivocamente, manifesta l’intento del legislatore di consentire il cumulo di domande nello stesso processo, ponendo quale unica prescrizione che, nell’ipotesi in cui le azioni promosse siano soggette a procedimenti diversi, si applichi quello ordinario.

Infatti, non pare revocabile in dubbio che a tale convincimento induca, pur nel già chiaro ordito complessivo dell’art. 32, in particolare l’espressione "…è sempre possibile nello stesso giudizio il cumulo di domande connesse in via principale o incidentale…", oltre che il potere riconosciuto al Giudice di poter "…sempre disporre la conversione delle azioni…" laddove, sulla base degli elementi sostanziali dedotti, qualifichi diversamente, di ufficio, la domanda giudiziale proposta.

In breve, nessuna inammissibilità é predicabile nel caso in esame, alla stregua della norma invocata dall’appellante, stante la riconosciuta possibilità di proposizione congiunta, anche in via subordinata, di due o più domande nel medesimo processo e tenuto conto che "il cumulo di azioni", non solo non viola alcun principio generale del processo amministrativo, ma anzi può ritenersi coerente con l’ampio concetto di "connessione" del tutto innovativamente recepito dal codice anche in altre sue norme, quali gli articoli 43, 70, 112, comma 4, 116, comma 2, 117, comma 5, 119, comma 1, e 120, comma 1.

6.3 – Ad eguale sorte negativa deve, poi, soggiacere anche la seconda eccezione di inammissibilità sollevata con il secondo motivo di appello.

Sostiene detta appellante che la rinnovazione dello scrutinio è intervenuta attraverso la rivalutazione della sua "…intera posizione, anche comparativamente con le posizioni del ricorrente, alla luce dei principi affermati dai giudici amministrativi e segnatamente dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 9306 del 31 dicembre 2009, ivi compreso il principio, ribadito dal Consiglio di Stato nella citata sentenza, del venir sostanzialmente meno della rilevanza del criterio dell’anzianità quale elemento e criterio di valutazione. Quindi sicuramente si è ottemperato alla decisione del Giudice amministrativo…".

Di qui la dedotta inammissibilità della "…azione per ottemperanza e la falsa applicazione degli articoli 21, 112, 113 e 114 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104…" in quanto il Giudice dell’ottemperanza avrebbe ritenuto rilevante l’elemento dell’anzianità, laddove la sopravvenuta normativa del d.lgs. n. 160 del 2006, per come applicata in sede di riedizione del potere, non contemplerebbe più tale criterio tra quelli fondanti la selezione ai fini dell’attribuzione di incarichi giudiziari direttivi.

In sintesi, sostiene l’appellante che, "…di fronte alla nuova decisione del CSM…", la strada del giudizio di ottemperanza non sarebbe percorribile, "…dovendosi far luogo, ove ne sussistano i presupposti, ad un’azione di impugnazione ordinaria in sede amministrativa…".

La critica anzidetta, seppur abilmente argomentata, non resiste ad un suo attento vaglio da parte di questo Giudicante già sotto il profilo della sua stessa ammissibilità, oltre che sotto un profilo di merito.

Ed invero, sotto il primo di detti profili, è agevole rilevare come le deduzioni svolte con il motivo in esame costituiscano un oggettivo tentativo di riproporre questioni sostanziali già decise nell’appropriata sede di cognizione ed ormai coperte dal giudicato formatosi sulla sentenza del TAR Lazio n. 911 del 2009, siccome pienamente confermata, in via sostanziale, anche nella motivazione, dalla pronunzia n. 9306 del 2010 resa da questo Consiglio in sede di appello.

Non pare, infatti, dubitabile che in sede cognitoria sia stata già definitivamente valutata la questione dell’applicabilità o meno del criterio della "anzianità" in sede di riedizione della prima valutazione favorevole all’appellante magistrato, anche alla luce della norma del d.lgs. n. 160 del 2006 che tale criterio di selezione non più prevede.

Consegue la fondatezza dell’eccezione di inammissibilità del motivo esaminato siccome tendente a rimettere in discussione una statuizione, quale quella delle disciplina applicabile al procedimento concorsuale in questione, ormai coperta dal giudicato e, quindi, non più contestabile.

Peraltro, anche nel merito il motivo non può, comunque, essere condiviso, tenuto conto che l’elusione del giudicato è evidente, nella specie, alla stregua delle motivazioni sostanzialmente, quanto specularmente, rassegnate in sede di cognitoria dal primo Giudice e da quello di appello, che il Collegio condivide appieno, circa l’illegittimità dello sfondamento della fascia di anzianità, considerato, in rapporto all’incarico da conferire, il mancato esercizio da oltre 17 anni di funzioni giudicanti da parte della dott.ssa R. P. e l’assenza in capo alla stessa, diversamente dai controinteressati pretermessi, di pregresse esperienze direttive giudiziarie. Infatti, l’appellante poteva e può contare soltanto sull’esperienza maturata nello svolgimento di incarico giudiziario semidirettivo (Avvocato Generale), non potendosi riconoscere pari valenza all’incarico amministrativo di Presidente di Commissione del CSM.

Di qui la corretta annotazione dei Giudici della cognizione decondo cui, alla stregua degli stessi convincimenti espressi dallo stesso CSM in precedenti occasioni nelle quali si era fatta applicazione delle regole selettive previste dalla circolare n. P13000/1999 del medesimo organo, difettava sia nella prima delibera, sia nella seconda del 14 aprile 2010, emanata in asserita esecuzione del giudicato, ogni elemento che facesse concretamente emergere, in capo alla dott.ssa R. P., doti di tale eccezionale rilievo "…da imporsi pressoché ictu oculi…" e da consentire il superamento della fascia di anzianità, come affermato al riguardo dalla costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (cfr. ad es. sez. IV^ n. 9306 del 2009).

6.4 – Nè può, poi, il Collegio condividere l’ulteriore eccezione di incompetenza funzionale del TAR Lazio, formulata con il terzo motivo di appello, sul presupposto che la sentenza di merito emessa da detto Giudicante sarebbe stata ben vero confermata in appello, ma con diversa ed autonoma motivazione, in quanto i contenuti decisori delle due pronunzie di cognizione, salvo alcuni modi espressivi soltanto formalmente diversi, sono sostanzialmente speculari e conducenti al medesimo concreto avviso di carenza in capo alla dott.ssa P. di doti tali da consentirle di superare la fascia di anzianità e di prevalere sui controinteressati, questi sì in fascia ed in possesso di esperienze direttive, ai fini del conferimento di un incarico direttivo superiore, quale quello di Presidente della Corte di Appello di Venezia.

Entrambe le sentenze di merito, infatti, individuano profili di legittimità del tutto identici che inficiano la delibera del 14 aprile 2010, di pretesa esecuzione del giudicato.

Ed invero, quanto ai titoli posseduti dalla dott.ssa R. P., entrambi i giudicanti hanno ritenuto:

– carente in capo al predetto magistrato (promosso) di ogni esperienza direttiva, pur dovendosi conferire un incarico direttivo superiore, avendo questi soltanto svolto funzioni semidirettive requirenti e, peraltro, per un periodo di tempo alquanto limitato (circa cinque anni);

– irrilevanti, ai fini dello scrutinio, le funzioni direttive svolte dalla dott.ssa P., quale Presidente di Commissione del CSM, considerato che tali funzioni sono di tipo amministrativo e non sono quindi assimilabili a quelle giurisdizionali, uniche valutabili per l’attribuzione dell’incarico giudiziario in questione;

– rilevante il mancato svolgimento di funzioni giudicanti, da parte dell’appellante, per oltre 17 anni, tenuto conto che l’incarico investe funzioni di tal genere a livello superiore;

– carente, in breve, ogni elemento che denotasse il possesso da parte del magistrato anzidetto di tali eccezionali doti e titoli da consentirgli il superamento della "fascia" e, quindi, di poter correttamente "concorrere" con i colleghi "in fascia".

Quanto ai titoli posseduti dal controinteressato Passannante, sia il TAR che questo Consiglio di Stato hanno rilevato che il predetto magistrato, diversamente dall’appellante, non solo è in possesso di esperienze semidirettive giudicanti, per avere svolto le relative funzioni per ben 13 anni, ma è altresì in possesso anche di esperienze direttive giudicanti maturate in sette anni di esercizio delle stesse (dal 2001).

Dunque, coincide non soltanto il complessivo impianto motivazionale delle due sentenze, ma sono convergenti anche i rilievi specificamente formulati alla delibera impugnata, sia dal Giudicante di prime cure, sia da quello di appello il quale, dunque, si è limitato a confermare la pronunzia resa dal TAR, senza in nulla innovarla con autonome e distinte motivazioni, come è reso palese, in particolare dal passaggio motivazionale di cui alle pagine 11 e 12 della sentenza di questo Consiglio (n. 9306 del 2009) che, soltanto per economia espositiva, non viene qui riprodotto.

6.5 – Priva di pregio è, poi, per le seguenti due ragioni, l’ulteriore eccezione di inammissibilità sollevata, con riferimento all’atto introduttivo di prime cure, con il quarto motivo di impugnazione.

Essa è, innanzi tutto, inconferente atteso che il primo Giudice ha dichiarato inammissibile la domanda di annullamento, una volta che ha accolto la domanda di esecuzione del giudicato.

Nel merito é, poi, comunque infondata poiché, per un verso, è sufficiente richiamare la motivazione già resa nel capo di sentenza 6.1 (che precede) circa l’ammissibilità di domande connesse nello stesso processo e, per altro verso, ricordare il comune e notorio avviso alla stregua del quale anche la sola deduzione della violazione od elusione del giudicato compendia gli elementi minimi e sufficienti richiesti dall’art. 40 del c.p.a. per la valida introduzione di un giudizio di ottemperanza al giudicato.

Tutto ciò senza dimenticare, a tal fine, gli ampi poteri di merito (financo sostitutori) riconosciuti dalla legge al Giudice dell’ottemperanza, stante la peculiare e specifica connotazione attribuita da sempre all’istituto, rispetto ad altri mezzi di esecuzione di sentenze previsti da altri e distinti ordinamenti processuali.

6.6 – Con il quinto motivo di appello la dott.ssa R. P. afferma che sarebbero inesistenti, ovvero inesercitabili, nel caso in esame, da parte del Giudice dell’ottemperanza, i poteri di merito che la legge ordinariamente gli attribuisce nei confronti della Pubblica Amministrazione, al fine di adeguare l’azione amministrativa al contenuto prescrittivo del giudicato, stante la posizione del CSM nell’ambito dell’ordinamento Costituzionale.

Al riguardo, osserva il Collegio che, alla stregua della pacifica giurisprudenza sia di questo Consiglio di Stato sia della Corte Costituzionale, non è prevista, a legislazione vigente, alcuna garanzia di intangibilità degli atti amministrativi di detto organo di autogoverno che consenta di ritenere gli stessi atti sostanzialmente immuni da ogni intervento, pur in presenza di statuizioni contrarie adottate sugli stessi dal Giudice naturale precostituito per legge.

Come ben osserva la difesa dell’appellato dott. Passannante, osta all’accoglimento delle tesi proposte dall’appellante magistrato:

– per un verso, la notazione che, alla stregua del vigente ordinamento, non è dato conoscere alcun organo amministrativo, quale è nella specie il CSM nell’esercizio delle funzioni di valutazione dei magistrati per il conferimento di funzioni giudiziarie, che sia sottratto al dovere di dare corretta esecuzione alle pronunzie del Giudice che sia precostituito per legge quale giudice naturale competente ad annullare gli atti ritenuti invalidi;

– per altro verso, che ogni opinione diversa si scontra, da un lato, con la garanzia apprestata dalla legge in ordine al libero convincimento del Giudice, le quante volte, come suggeriscono le argomentazioni di parte appellante, si dovesse accedere alla tesi che questi, in sede di attuazione del proprio dictum, sia vincolato dalle modalità di esecuzione ritenute più adeguate dall’Amministrazione obbligata ad adempiere; dall’altro, con l’attuale impossibilità ordinamentale di prefigurare una sorta di esenzione dalla revisione giurisdizionale della legittimità delle determinazioni amministrative soltanto per il CSM; dall’altro, ancora, con il principio di effettività della tutela, notoriamente riconosciuto come fondamento essenziale di tutte le società giuridicamente evolute, sia dall’art. 6 della C.E.D.U., sia dalla nostra Costituzione agli articoli 24, 111 e 113, sia, infine, dall’art. 1 del recente codice del processo amministrativo approvato con d.lgs. n. 104 del 2010

Né sono ammissibili tutte le deduzioni che, direttamente od indirettamente, ripropongono concretamente le stesse questioni di diritto già risolte definitivamente dal TAR con la sentenza n. 911 del 2009 e da questo Consiglio di Stato con sentenza n. 9306 del 2009, quali ad esempio la sopravvenienza ed asserita incidenza delle norme del d.lgs n. 160 del 2006, concernenti l’abolizione del criterio dell’anzianità, ovvero le questioni attinenti ai titoli posseduti dall’appellante per superare la c.d. fascia di anzianità ed anche per prevalere sui controinteressati in sede di comparazione.

Ed invero, è pacifico in dottrina ed in giurisprudenza, che sia connaturata al giudicato la forza di coprire con le proprie statuizioni le questioni espressamente e definitivamente decise in sede cognitoria, di talché alcun altra pronunzia può sovrapporsi ad esso (giudicato), così come non è consentito neppure al legislatore ordinario di intervenire nelle situazioni giuridiche che, per effetto del giudicato, si siano già irreversibilmente consolidate.

Quanto, poi, alle deduzioni affermanti che la delibera impugnata avrebbe dato corretta esecuzione al giudicato ritiene il Collegio che le stesse non meritino adesione avendo il CSM adottato una delibera che ricalca sostanzialmente la prima annullata, con ciò obliterando, sostanzialmente, non soltanto i comuni e notori principi in tema di valore e forza delle sentenze di annullamento degli atti illegittimi, ma fondamentalmente i puntuali rilievi di illegittimità formulati similmente, nel doppio grado, dal Giudice della cognizione con riferimento a specifici profili riguardanti il procedimento in questione di conferimento dell’incarico direttivo superiore di Presidente della Corte di Appello di Venezia.

Infatti, il giudicato si è formato:

– sull’applicabilità alla fattispecie esclusivamente della circolare P13000/1999 dello stesso CSM, restando insensibile anche il procedimento di rinnovazione dello scrutinio in questione dalla sopravvenienza della norma abolitrice del criterio dell’anzianità (d.lgs n. 160 del 2006) per effetto della notoria efficacia retroattiva dell’annullamento giurisdizionale degli atti amministrativi;

– sull’illegittimità, alla stregua della documentazione esibita nel giudizio di cognizione, sia di primo che di secondo grado, della valutazione comparativa della candidata R. P., fuori fascia di anzianità, con i candidati in fascia, stante l’insufficienza dei titoli dalla medesima posseduti ad evidenziare doti attitudinali e di merito di tale eccezionalità da consentirle di superare lo sbarramento della "fascia" anzidetta e, successivamente, in sede di comparazione, i colleghi in fascia, essendo questi, invece, in possesso di riconosciuta anzianità specifica nell’espletamento di funzioni giudiziarie direttive.

Conseguentemente, il giudicato comportava (e comporta) la non riutilizzabilità in sede di sua esecuzione delle specifiche determinazioni annullate, nel senso che non potevano (e non possono) essere riproposti quali elementi fondanti l’assegnazione dell’incarico in questione gli stessi presupposti di fatto e di diritto già ritenuti illegittimi, salvo nuovi elementi mai prima valutati e pur già esistenti negli stessi atti di scrutinio.

Occorrerà, in breve che la rivalutazione parta dall’applicabilità alla fattispecie della circolare del CSM n. 13000 del 1999 e prosegua nella valutazione se sussistono o meno i presupposti per lo sforamento della fascia di anzianità da parte della dott.ssa R. P., tenuto conto che l’esito di tale (ri)valutazione, per effetto del giudicato, non potrà pervenire ad approdi diversi da quelli segnati dal giudicato sempre che permangano gli stessi presupposti di fatto e di diritto e cioè gli stessi atti e gli stessi titoli già posti a fondamento della prima delibera annullata in sede di cognizione e di quella dichiarata nulla dal Giudice dell’ottemperanza.

Soltanto, infatti, superata positivamente tale fase della c.d. fascia potrà procedersi, sempre in esecuzione del giudicato, all’eventuale comparazione tra i candidati (in fascia e fuori fascia), purché siano ognora rispettati i parametri fissati dallo stesso giudicato con riguardo al valore ed alla consistenza dei titoli dei candidati, tenuto conto dell’incarico da conferire e restando, ovviamente, ferma la non riproponibilità di valutazioni già ritenute illegittime dalla sentenza eseguenda, come ad esempio l’assimilazione di incarichi di natura e valenza esclusivamente amministrativa, quale la Presidenza di Commissione nell’ambito del CSM, con quelli direttivi giudiziari espletati da altri candidati.

Infine, neppure può essere condivisa la critica rivolta alla statuizione del Giudice dell’ottemperanza di nomina del Commissario ad acta chiamato a surrogarsi al CSM, in caso di ulteriore e permanente inesecuzione spontanea nel termine all’uopo concesso, poiché l’art. 104 della Costituzione, conferendo rilievo costituzionale al citato organo di autogoverno della magistratura ordinaria, non preclude, in radice, la possibilità del Giudice dell’ottemperanza di sostituirsi direttamente o tramite commissario ad acta a detto organo (nell’esercizio delle sue funzioni amministrative), in caso di inadempienza all’ordine giurisdizionale legittimamente emesso, in quanto la tesi proposta dall’appellante è viziata in radice dal suo postulato di partenza, secondo il quale il CSM non è organo amministrativo allorquando valuta i magistrati al fine di conferire incarichi giudiziari.

Non è, infatti, il solo rilievo costituzionale dell’organo che può incidere sul regime ordinario dell’esecuzione delle sentenze amministrative poiché se ciò fosse vero sarebbe praticabile per tutti gli organi che hanno lo stesso rilievo, quali ad esempio questo Consiglio di Stato, ovvero la Corte dei Conti. Viceversa per tali organi è pacifico, così come d’altro canto lo è, a ben vedere, anche per il CSM, che l’attività amministrativa dagli stessi svolta soggiace alle ordinarie regole procedimentali amministrative, alla stregua del parametro dell’art. 97 della Costituzione e delle leggi che vi danno attuazione, nonché alle norme processuali dettate per il Giudice naturale precostituito per legge; non vi è, dunque, alcuna possibile riserva in favore di tali organi, pur se di rilievo costituzionale, che possa infrangere il diritto di agire in giudizio e l’effettività della tutela, a tal fine garantita ognora, in maniera insopprimibile, alla posizione giuridica di ciascun individuo dalle norme, per quel che qui rileva, degli articoli 24, 103, 111 e 113 della Costituzione.

Sul punto, a conforto, è sufficiente richiamare le sentenze n. 419 e 435 del 1995 della Corte Costituzionale, con le quali detto Giudice, investito di eguale questione sostanziale, ha espresso i seguenti convincimenti che tuttora conservano integra la loro valenza ed efficacia risolutiva.

In particolare, giova ricordare che è stato affermato:

– che la non sottoponibilità degli atti del C.S.M. alla giurisdizione estesa al merito che il giudice amministrativo esercita in sede di ottemperanza non ha, di per sé, alcun esplicito fondamento costituzionale;

– che la titolarità delle specifiche competenze conferite dall’art. 105 della Costituzione non può comportare, quale conseguenza automatica, franchigie dell’attività di detto organo dal sindacato giurisdizionale, in quanto funzioni svolgentesi su piani diversi;

– che la posizione e le attribuzioni del Consiglio superiore della magistratura, sotto il profilo dei rapporti generali tra giurisdizione ed amministrazione, vanno, invece, esaminate alla luce dei seguenti, fondamentali, principi espressi nella Carta costituzionale e cioè che, in primo luogo, tutti i soggetti di diritto, ivi compresi gli organi di rilevanza costituzionale, sono egualmente tenuti al rispetto della legge;

– che,coerentemente, il principio di legalità dell’azione amministrativa ( artt. 97, 98 e 28 Cost.), unitamente al principio di effettività della tutela giurisdizionale ( artt. 24, 101, 103 e 113 Cost.), se da un lato affermano l’indipendenza dell’Amministrazione, dall’altro comportano esplicitamente l’assoggettamento dell’Amministrazione medesima a tutti i vincoli posti dagli organi legittimati a creare diritto, fra i quali, evidentemente, gli organi giurisdizionali;

– che, in breve, la Costituzione accoglie il principio in base al quale il potere dell’Amministrazione merita tutela solo sul presupposto della legittimità del suo esercizio, demandando agli organi di giustizia il potere di sindacato – pieno, ai sensi del secondo comma dell’art. 113 della Costituzione – sull’esistenza di tale presupposto;

– che il contenuto tipico della pronuncia giurisdizionale è proprio quello di esprimere la volontà concreta della legge o, più esattamente, la " normativa per il caso concreto " (come si è felicemente precisato in dottrina) che deve essere attuata nella vicenda sottoposta a giudizio.

In breve, secondo la Corte costituzionale, spetta al Giudice Amministrativo, in sede di ottemperanza alle decisioni giurisdizionali passate in giudicato, il potere di emettere, nell’esercizio di una giurisdizione di merito ed al fine di rendere effettiva la tutela giurisdizionale definitivamente riconosciuta in sede cognitoria, ordini nei confronti del Consiglio Superiore della Magistratura e di disporre, in caso di inottemperanza a tali ordini, la sostituzione di detto Consiglio attraverso la nomina di un Commissario ad acta.

Consegue che è soltanto nell’esercizio della funzione giurisdizionale esercitata in materia disciplinare che il CSM può vantare, come tutti gli organi giurisdizionali, la più piena autonomia di giudizio, salvo i rimedi apprestati dalla legge.

6.7 – La difesa dell’appellante, nel corso della discussione in camera di consiglio degli appelli, ha chiesto che questa Sezione investa l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato della questione se il CSM sia una pubblica amministrazione come le altre, ai fini dell’ottemperanza al giudicato, ovvero goda, come ritenuto dalla stessa appellante, di una "riserva amministrativa", connessa al suo rilievo costituzionale, che precluderebbe l’imposizione di prescrizioni vincolanti da parte del Giudice dell’ottemperanza.

La richiesta non può essere assentita difettando, ex art. 99 del c.p.a., il necessario presupposto di un contrasto giurisprudenziale, invero inesistente in argomento, essendo pacifico e costante l’avviso di questo Consiglio sull’assoggettabilità del CSM agli ordinari poteri del Giudice dell’ottemperanza.

Né, allo stato, sussiste il benché minimo elemento che possa far ritenere che la questione su indicata possa dare luogo a contrasti giurisprudenziali.

Infine, giova segnalare che non risulta che la parte appellante abbia chiesto l’applicazione della disposizione del secondo comma del citato art. 99 e che il Presidente del Consiglio di Stato abbia emanato gli atti consequenziali.

6.8 – Le conclusioni raggiunte nei capi di sentenza che precedono circa l’infondatezza dei motivi di impugnazione proposti dalla dott.ssa R. P. rendono rilevante la questione di costituzionalità sollevata da detto magistrato con il sesto ed ultimo motivo di impugnazione.

Si è già visto, nel merito, come l’appellante attribuisca una sorta di diritto potestativo al CSM di dare esecuzione alle decisioni del Giudice Amministrativo soltanto laddove le statuizioni di quest’ultimo consonino con gli interessi ritenuti meritevoli di tutela dallo stesso CSM: in breve, una sorta di riserva di valutazione da esercitare nel caso in cui il dictum del Giudice dovesse risultare, all’esito del processo, contrastante con la volontà dell’organo.

Orbene, si è pure già visto come tale tesi non trovi alcun conforto in nessuna vigente norma legislativa che, in attuazione della predicata rilevanza costituzionale dell’Organo di autogoverno della Magistratura, abbia sancito una tale riserva di potestà in capo al CSM.

L’appellante sostiene, allora, che, nel caso in cui detta tesi non fosse condivisa,, come non lo è stata, le norme del processo amministrativo regolanti l’ottemperanza al giudicato amministrativo, in particolare gli articoli 112, 113 e 114 del c.p.a., sarebbero incostituzionali per contrasto con gli articoli 111, 97, 24 e 25 della Costituzione, così come sarebbe costituzionalmente illegittima anche la norma dell’art. 21 dello stesso codice, regolante l’eventuale nomina del commissario ad acta, per violazione dell’art. 101, 104 ed 83 della Costituzione stessa.

Entrambe le eccezioni sono palesemente infondate.

6.8.1 – Preliminarmente deve accogliersi l’eccezione, formulata dalle parti controinteressate, di inammissibilità del deposito agli atti di causa di parere proveritate concernente l’asserita fondatezza delle su richiamate eccezioni di incostituzionalità, stante il divieto di produzione di documenti nuovi in appello previsto dal secondo comma dell’art. 104 del c.p.a., salvo che la parte dimostri di essere stata impossibilitata a versarli prima in giudizio, per causa ad essa non imputabile, ovvero che il Giudice li ritenga indispensabili ai fini della decisione.

Non ricorrendo alcuna di dette due ipotesi va confermata l’inammissibilità della produzione citata.

6.8.2 – Entrambe le deduzioni sono manifestamente infondate.

Osserva, innanzi tutto il Collegio che può prescindersi dal rilievo (ulteriore) di inammissibilità sollevato dalla difesa dell’appellato (anche) con riferimento alla questione di costituzionalità in esame (sul presupposto che la stessa, involgendo la competenza funzionale del primo Giudice, andava proposta innanzi a quest’ultimo e non anche, per la prima volta, in questa sede di appello) atteso che detta questione di costituzionalità è priva di apprezzabile consistenza alla luce delle motivazioni rese dal Giudice delle Leggi con le già citate sentenze n. 419 e 435 del 1995, già in parte richiamate più innanzi (cfr. il capo di decisione n. 6.5).

A dette motivazioni occorre soltanto aggiungere le ulteriori considerazioni effettuate dalla Corte Costituzionale nella stessa sede, per questione sostanzialmente analoga a suo tempo sollevata dal CSM (circa 16 anni or sono, seppur nella diversa sede di conflitto di attribuzione), che il Collegio fa proprie, condividendole totalmente, che, "…una volta intervenuta una pronuncia giurisdizionale la quale riconosca come ingiustamente lesivo dell’interesse del cittadino un determinato comportamento dell’Amministrazione, o che detti le misure cautelari ritenute opportune e strumentali all’effettività della tutela giurisdizionale, incombe sull’Amministrazione l’obbligo di conformarsi ad essa; ed il contenuto di tale obbligo consiste appunto nell’attuazione di quel risultato pratico, tangibile, riconosciuto come giusto e necessario dal giudice. Ma proprio in base al già ricordato principio di effettività della tutela giurisdizionale deve ritenersi connotato intrinseco della stessa funzione giurisdizionale, nonché dell’imprescindibile esigenza di credibilità collegata al suo esercizio, il potere di imporre, anche coattivamente in caso di necessità, il rispetto della statuizione contenuta nella pronuncia e, quindi, in definitiva, il rispetto della legge stessa. Una decisione di giustizia che non possa essere portata ad effettiva esecuzione (eccettuati i casi di impossibilità dell’esecuzione in forma specifica) altro non sarebbe che un’inutile enunciazione di principi, con conseguente violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione, i quali garantiscono il soddisfacimento effettivo dei diritti e degli interessi accertati in giudizio nei confronti di qualsiasi soggetto; e quindi anche nei confronti di qualsiasi atto della pubblica autorità, senza distinzioni di sorta, pur se adottato da un organo avente rilievo costituzionale qual è il C.S.M. In questi termini, la previsione di una fase di esecuzione coattiva delle decisioni di giustizia, in quanto connotato intrinseco ed essenziale della stessa funzione giurisdizionale, deve ritenersi costituzionalmente necessaria. Se, quindi, l’esercizio di poteri autoritativi al fine della effettiva realizzazione della tutela garantita dalla Costituzione è una fase (pur se eventuale) intrinsecamente complementare e necessaria all’esercizio della giurisdizione, ne deriva, quale logico corollario, l’impossibilità di operare distinzioni di sorta tra funzioni giurisdizionali di natura diversa (ordinaria, amministrativa, di legittimità, di merito, esclusiva) per inferirne (come sostiene il ricorrente) che solo in alcune, e non in altre, detti poteri sarebbero legittimamente esercitabili. La tesi non può essere condivisa: in linea di principio non sono configurabili giurisdizioni passibili di esecuzione ed altre in cui il dovere di attuare la decisione si arresti di fronte alle particolari competenze attribuite al soggetto il cui operato è sottoposto a sindacato. Al contrario, la garanzia della competenza cede a fronte della contrapposta garanzia di ogni cittadino alla tutela giurisdizionale, la quale rappresenta e dà contenuto concreto, in definitiva, alla garanzia della pari osservanza della legge: da parte di tutti ed in egual misura. Che, infine, una fase esecutiva possa risultare in determinati casi indispensabile, anche quando la sentenza del giudice dovrebbe essere in grado di assicurare ex se la tutela giurisdizionale (come, in genere, avviene nella giurisdizione di legittimità) è reso evidente proprio dalla vicenda in esame. Infatti, nonostante il provvedimento di sospensione adottato dal T.A.R. del Lazio sia autoesecutivo ed immediatamente efficace ex lege, risulta che il magistrato la cui nomina è stata sospesa ha continuato ad esercitare le relative funzioni, indiscutibilmente sine titulo, fino a che un esplicito provvedimento, adottato dal commissario ad acta, non lo ha sollevato dall’incarico…".

Tutto ciò in disparte l’ulteriore rilievo di carattere generale che, non essendo contestata la legittimità costituzionale della previsione dell’art. 3, comma 1, dell’allegato 4 al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, che, a decorrere dal 16 settembre 2010, ai sensi di quanto disposto dall’art. 2 dello stesso provvedimento normativo, ha integrato la norma dell’art. 17 della legge n. 195 del 1958 sull’ordinamento ed il funzionamento del CSM con la disposizione che "…La tutela giurisdizionale davanti al giudice amministrativo è disciplinata dal codice del processo amministrativo…", potrebbe dubitarsi della stessa rilevanza della complessiva questione proposta dall’appellante restando, comunque, in vigore una norma che attribuisce al Giudice Amministrativo la giurisdizione in materia di atti del CSM.

Quanto, poi, alla questione specifica relativa all’asserito obbligo di astensione predicato dall’appellata con riferimento alla composizione del Giudice dell’ottemperanza, che sarebbe viziata perché costituita dagli stessi magistrati anche fisicamente componenti il Collegio che aveva già deciso la questione di merito in sede cognitoria, è fondata, innanzi tutto, l’eccezione di inammissibilità sollevata dal controinteressato dott. Passannante poiché la relativa questione di competenza andava proposta innanzi all’organo contestato, e cioè in primo grado, con le forme e nei termini di rito, svolgendo dunque in quella sede tutte le questioni di costituzionalità ritenute rilevanti e non anche nella presente sede di appello per la prima volta.

In ogni caso, la stessa questione è, comunque, infondata poiché è avviso condiviso in giurisprudenza che un problema di astensione possa verificarsi soltanto se esso si realizzi tra diverse fasi dello stesso grado (cognizione sommaria, seguita da fase a cognizione piena, come nel caso del fallimento; comunque non nel processo amministrativo; cfr. ord. Corte cost. 21 novembre 1997 n. 356, fra le varie), ovvero tra diversi gradi dello stesso giudizio, ma non anche quando, come nella specie, si tratti di procedimenti giurisdizionali ontologicamente diversi (l’uno di cognizione, l’altro di esecuzione).

Infatti, la previsione del vigente codice del processo amministrativo contestata dall’appellante, secondo la quale è lo stesso Giudice che ha emesso la sentenza sulla quale si è formato il giudicato che è chiamato a dettare le misure per la corretta ottemperanza al giudicato stesso, trova giustificazione non soltanto storicamente, rimontando la relativa norma sulla competenza a molti decenni or sono, ma anche su di un piano di stretta razionalità, tenuto conto che, nel processo amministrativo, la conoscenza approfondita della questione, invero garantita da chi abbia già contribuito a costituire il dictum nell’appropriata sede cognitoria, agevola oggettivamente il compito esecutivo, anche considerato che il Giudice dell’ottemperanza esercita quella giurisdizione di merito ritenuta conforme a Costituzione dalla citata sentenza n. 419 del 1995 della Corte Costituzionale che è a tal punto ampia da estendersi fino alla sostituzione dell’Amministrazione nella fase adempitiva dell’ordine, in caso di permanente riottosità di quest’ultima all’esecuzione dell’ordine ricevuto dal Giudice.

Né, infine, merita condivisione la questione relativa all’asserita lesione che la norma dell’art. 21 del c.p.a. recherebbe alle norme costituzionali di cui agli artt. 101, 104 ed 83 della Costituzione in quanto:

– circa la natura e la valenza amministrativa degli atti nella specie emanati dal CSM, ben possono valere le considerazioni già espresse sul punto nei capi di sentenza che precedono, rimettendo la legge alla competenza giurisdizionale del CSM esclusivamente le questioni in materia disciplinare concernenti i magistrati ordinari;

– non è dato comprendere, siccome non chiaramente indicata, quale lesione possa derivare alle attribuzioni del Presidente della Repubblica, nell’esercizio delle funzioni di presidenza attribuitegli dal secondo comma dell’art. 104 della Costituzione, tenuto conto che non è rinvenibile, anche alla luce della legge n. 195 del 1958, che reca norme sulla costituzione ed il funzionamento del CSM, come modificate dalle norme della legge n. 44 del 2002, alcuna attribuzione amministrativa specifica che possa essere minacciata o pregiudicata dall’attività del Commissario ad acta, nel caso in cui il CSM stesso non esegua spontaneamente il dictum;

– in ogni caso, non sembra ipotizzabile, alla stregua del vigente ordinamento, una deroga alla norma abilitativa al Commissariamento iussu judicis dell’organo riluttante nell’adempimento dei suoi doveri amministrativi, sol perché questo sia presieduto dal Presidente della Repubblica, in assenza sia di una espressa previsione legislativa autorizzatrice, sia del benché minimo aggancio in altre norme costituzionali di un tale speciale privilegio.

7. – L’appello del Ministero e del CSM è anch’esso non condivisibile per le seguenti ragioni.

7.1 – Preliminarmente ritiene il Collegio che, per rigettare le questioni proposte dalle appellanti Amministrazioni con riferimento ai poteri del giudice dell’ottemperanza ed all’ambito del poteredovere del CSM di dare attuazione non solo al dictum del Giudice della cognizione, ma anche all’ordine eventualmente impartito dal predetto Giudice dell’ottemperanza, sia sufficiente richiamare anche in questa sede decisoria tutte le considerazioni già svolte per ritenere infondati gli stessi profili di diritto sollevati dalla dott.ssa R. P. con il proprio appello che, dunque, devono intendersi qui riprodotte.

7.2 – A tali considerazioni, giova soltanto aggiungere alcune notazioni, riferite a specifiche questioni proposte dalle appellanti Amministrazioni, che, comunque, inducono il Collegio a confermarsi nel già esposto convincimento di totale infondatezza del mezzo processuale in esame.

Ha affermato la difesa erariale che "…la sentenza di annullamento emessa in sede di giurisdizione generale di legittimità implica necessariamente una peculiare actio judicati caratterizzata da profili cognitori…" con argomentazione che il Collegio condivide e che, però, va completata con il rilievo che la stessa sentenza ha effetti costitutivi per cui, se con essa si statuisce che sono illegittimi certi atti o certi giudizi o certi comportamenti, non può poi l’Amministrazione, in sede di esecuzione, riutilizzare, come nulla fosse accaduto,gli stessi atti o giudizi, né tenere gli stessi comportamenti, una volta che dette statuizioni siano divenute cosa giudicata.

Parimenti da condividere sono le notazioni effettuate dalla difesa erariale sulla differenza tra interessi pretensivi ed oppositivi e la diversa valenza delle pronunzie che incidano su tali tipi di interesse che, però, a ben vedere, nessuna incidenza possono avere nell’economia del presente giudizio atteso che le sentenze di primo e di secondo grado del giudice della cognizione non hanno mai indicato, nella specie, né direttamente né indirettamente, quale fosse il magistrato cui affidare, sulla scorta degli atti del procedimento amministrativo, l’incarico direttivo superiore in questione, essendosi esse sostanzialmente limitate a rilevare la non rispondenza a legittimità di statuizioni che hanno disatteso le stesse regole del concorso (circolare CSM 13000/1999), non emergendo dagli atti, per un verso, le doti eccezionali che sole potevano consentire, alla stregua della pacifica giurisprudenza sul punto, alla dott.ssa R. P. di superare l’ostacolo della sua condizione di "fuori fascia di anzianità" e, per altro verso, titoli potiori di quest’ultima per superare i colleghi aspiranti "in fascia di anzianità", anzi essendo semmai prevalenti i titoli di questi ultimi per avere già svolto funzioni direttive come quelle, ancorché superiori, da attribuire.

Né le sentenze sin qui emanate sia in sede cognitoria, che in sede di ottemperanza (n. 911/2009; n. 9306/2009 e n. 37669/2010), hanno mai messo in dubbio che il CSM conserva il potere di adottare un nuovo provvedimento in esecuzione del giudicato poiché oggetto di contestazione, a ben vedere, non è l’an, bensì il quomodo dell’attività richiesta a detto organo di autogoverno, attività che quest’ultimo ritiene, con singolare opinamento, sottratto ai poteri ordinariamente attribuiti dalla legge al Giudice dell’ottemperanza, pur avendo già due volte il Giudice delle Leggi affermato la piena corrispondenza a Costituzione ed ai principi generali dell’ordinamento della relativa disciplina processuale.

A tal riguardo, inoltre, alcuna incidenza possono avere le pronunzie di questo Consiglio richiamate nell’appello in esame non essendo in discussione, per le ragioni già indicate, ipotesi di travalicamento dei confini giurisdizionali individuati dalla legge, tenuto conto che il Giudicante, nei vari gradi e competenze, non ha mai emesso statuizioni riconducibili ad ambiti di merito riservati all’Amministrazione, né ha esorbitato, in particolare, il Giudice dell’ottemperanza dall’accertamento della compatibilità delle forme del nuovo esercizio del potere con il contenuto dispositivo del giudicato amministrativo.

Detto Giudicante, infatti, non ha operato alcun riaccertamento dei fatti presupposti, né proceduto ad autonome valutazioni, ma ha soltanto rilevato la violazione delle regulae juris fissate dal giudicato e cioè la violazione delle stesse regole valutative stabilite dal medesimo organo chiamato all’esecuzione del dictum, quale la più volte citata circolare n. P13000/1999.

Erra, infine, l’Amministrazione a ritenere che "…non è consentito al Giudice, neppure in sede di ottemperanza, sovrapporre il proprio giudizio di merito rispetto ai fatti che il CSM ha ritenuto significativi ai fini del proprio giudizio…", in quanto la giurisdizione di merito esercitata in tale sede, riconosciuta conforme a Costituzione dalle più volte citate sentenza della Corte Costituzionale del 1995, comprende, come è noto, anche una finale fase sostitutoria dell’Amministrazione, realizzata direttamente dal Giudice dell’ottemperanza, ovvero tramite Commissario ad acta, le quante volte la stessa Amministrazione si dimostri pervicacemente riottosa ad eseguire il giudicato.

Va da sé che è inconferente, da un lato, invocare, come ha fatto la difesa dell’Amministrazioneil principio di tassatività delle ipotesi di giurisdizione estesa al merito, tenuto conto che la giurisdizione (di merito) del Giudice dell’ottemperanza è espressamente prevista e disciplinata dalla legge, e, dall’altro, dolersi di una dilatazione eccessiva del concetto di violazione od elusione del giudicato, avuto presente che è razionalmente connesso ai poteri conferiti dalla legge a tale giudicante la verifica concreta del se le statuizioni coperte dal giudicato siano state correttamente rispettate dall’organo chiamato a darvi attuazione.

Più in particolare, è, altresì, inconferente la patologia paventata di "…ipotesi di provvedimento affetto da un (preteso) vizio totalmente estraneo rispetto a quanto ha formato oggetto del giudicato…" considerato che nella pronunzia del Tar, resa in sede di ottemperanza, non sono rinvenibili ipotesi del genere e che la stessa pronunzia correttamente ha posto in evidenza, sotto il profilo della stretta legittimità, quali fossero le regulae juris contenute nel giudicato che non sono state rispettate in sede di rinnovazione dello scrutinio, come deliberato con l’atto del CSM del 14 aprile 2010.

7.3 – In sintesi, anche tutti i motivi di impugnazione proposti con l’appello n. 2303 del 2011 sono infondati.

8. – In conclusione, entrambi gli appelli non meritano di essere accolti.

9. – Quanto alle spese del presente grado di giudizio, ritiene il Collegio che le stesse debbano essere poste a carico delle parti soccombenti, nella misura indicata in dispositivo, in applicazione dei principi richiamati dall’art. 26 del c.p.a.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, previa riunione degli appelli n. 1206 del 2011 e n. 2305 del 2011, li respinge.

Condanna il Ministero della Giustizia ed il CSM in solido, nonché la dott.ssa M. R. P. al pagamento delle spese del presente grado di giudizio che liquida, in favore degli appellati, in euro 6000,00 (seimila/00) di cui euro 3000,00 (tremila/00) a carico delle predette Amministrazioni ed euro 3000,00 (tremila/00) a carico della citata dott.ssa P., oltre competenze tutte di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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