Cons. Stato Sez. IV, Sent., 02-09-2011, n. 4960 Competenza e giurisdizione del giudice amministrativo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.1. Con deliberazione n. 56/9 del 29 giugno 1987 il Comune di Cassino (Frosinone) ha approvato il progetto di adeguamento al P.R.G. comunale dei lavori di costruzione, completamento e sistemazione di strade urbane.

Tale approvazione, secondo la medesima deliberazione, risultava equivalente alla dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e di indifferibilità ed urgenza dei lavori, con la conseguenza dell’occupazione temporanea e d’urgenza preordinata all’esproprio disposta con la successiva deliberazione della Giunta Comunale n. 1560 del 21 novembre 1988.

Con tale ultimo provvedimento è stato disposto che l’occupazione effettiva degli immobili necessari alla realizzazione delle opere sarebbe avvenuta entro tre mesi dalla data di esecutività del provvedimento stesso, a pena della perdita di efficacia dell’occupazione medesima, la quale doveva protrarsi per la durata di cinque anni dalla data di immissione in possesso; entro tale lasso di tempo doveva essere quindi definito il procedimento di esproprio con la conseguente determinazione delle relative indennità spettanti ai proprietari espropriandi.

In data 23 febbraio 1989 ha avuto luogo l’immissione in possesso degli immobili interessati dalla realizzazione delle opere ed è iniziata la demolizione del fabbricato di mq. 146 ivi insistente.

1.2. A questo punto va precisato che gli espropriandi Signori R. P. e Antonio Mastronardi avevano acquistato nel 1962 due terreni ubicati in Cassino alla via San Domenico di cui al foglio 84 mappali 325 e 144/1 ed avevano costituito con il Sig. M. P. la Società attualmente denominata P. Lavorazione Marmi e Affini S.n.c. di P. M. e R., conferendo alla società medesima i terreni sopra specificati ed il capannone ivi insistente.

In data 2 marzo 1964 il Mastronardi ha formalizzato il proprio recesso dalla società, percependo quindi la liquidazione della propria quota.

In data 6 ottobre 1984 è stato dichiarato il fallimento della Società P. Marmi, e il relativo procedimento si è concluso in data 28 maggio1996 con il riparto del ricavato.

La medesima Società afferma di aver susseguentemente riacquistato la capacità di disporre e di amministrare il proprio patrimonio, nel quale tra l’altro rientrano anche i beni immobili oggetto del procedimento ablatorio dianzi descritto e non resi comunque oggetto della procedura concorsuale testè riferita.

1.3.1. Con ricorso proposto sub R.G. 5271 del 2004 innanzi al T.A.R. per il Lazio, Sede di Roma, la P. Lavorazione Marmi e Affini S.n.c. di P. M. e R., nonchè il Sig. R. P. hanno chiesto l’annullamento della nota prot. 10427 dd. 13 marzo 2004 del Comune di Cassino avente ad oggetto il "Riscontro vostra istanza del 14 febbraio 2004" con la quale è stato negato l’avvio della procedura di cui all’art. 43 del D.P.R. 8 giugno 2001 n. 327 in relazione agli immobili occupati e trasformati di cui al foglio 84 mappali 325 e 144/1 in Cassino via San Domenico – località Vetiche (oggi via degli Eroi) del Comune di Cassino a seguito della realizzazione di opere di urbanizzazione del quartiere Vetiche, ed in particolare della costruzione, ampliamento e sistemazione di strade urbane di adeguamento alla variante del P.R.G.

I ricorrenti in primo grado hanno anche chiesto l’annullamento di tutti gli atti presupposti, connessi e consequenziali e l’accertamento del loro diritto al risarcimento del danno per illegittima occupazione dell’area, demolizione dell’immobile e acquisizione al patrimonio comunale à sensi del predetto art. 43 con conseguente condanna del Comune di Cassino al pagamento del danno medesimo, stimato in Lire 1.179.806.000., pari a Euro 609.318,95, ovvero nell’importo maggiore o minore ritenuto di giustizia e comprensivo degli interessi a decorrere dal giorno in cui la realità è stata occupata sine titulo.

I ricorrenti hanno pertanto censurato l’illegittimità del procedimento seguito dall’Amministrazione Comunale in dipendenza della mancata emissione del provvedimento di esproprio e della conseguentemente mancata conclusione del procedimento ablatorio.

I ricorrenti hanno altresì richiamato a fondamento dell’asserita illegittimità la nota del 18 maggio 2000 del Servizio lavori pubblici del Comune di Cassino con la quale era stata condivisa la congruità della proposta transattiva di risarcimento del danno per occupazione dei terreni e dei fabbricati occorsi per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria PEEP San Pasquale di Cassino alla ditta P. R. per un importo complessivo di Lire 1.179.806.000, pari ad Euro 609.318,95.- e stimato nella perizia asseverata di parte, a patto della rinuncia da parte dei ricorrenti medesimi alla metà degli interessi legali maturati a quel tempo nell’importo di Lire 900.000.000., pari ad Euro 464.811,20.

Il Sig. R. P., con propria nota dd. 14 febbraio 2004 si è determinato a chiedere l’attivazione della procedura di cui al predetto art. 43 del T.U. approvato con D.P.R. 327 del 2001, ma il Comune di Cassino, con nota Prot. 10427 dd. 12 marzo 2004 ha – per l’appunto – escluso di poter agire nel senso auspicato dal richiedente, rinviando ad un parere pro veritate espresso in senso contrario alla richiesta stessa da parte dell’Avv. Sergio Nacci.

Da qui, dunque, la proposizione del ricorso in primo grado.

I ricorrenti hanno ivi dedotto le seguenti censure:

1) Violazione di legge ed in particolare dell’art. 43 del T.U. approvato con D.P.R. 327 del 2001, eccesso di potere per manifesta erroneità nei presupposti di fatto, illogicità e contraddittorietà, travisamento dei fatti, carenza ed illogicità della motivazione e sviamento di potere: e ciò in quanto l’Amministrazione Comunale, omettendo di pronunciarsi sulla richiesta avanzata dal Sig. R. P., aveva fondato il diniego implicito sull’asserita mancanza di legittimazione di questi alla proposizione della domanda di risarcimento.

2) Eccesso di potere per difetto e carenza di motivazione, poiché il provvedimento impugnato unicamente si riportava al parere pro veritate, senza peraltro allegarlo.

3) Eccesso di potere per contraddittorietà nei comportamenti dell’Amministrazione Comunale e violazione del legittimo affidamento in ragione del riconoscimento della sussistenza del credito operato con la predetta nota del 18 maggio 2000.

1.3.2. Il Comune non si è costituito nel giudizio di primo grado.

1.3.3. Con sentenza n. 3490 dd. 23 aprile 2008 la Sezione IIbis del T.A.R. per il Lazio ha accolto il ricorso, condannando il Comune di Cassino al pagamento della somma di Euro 609.318,95 a titolo di risarcimento del danno patito dai ricorrenti per l’illegittima sottrazione del bene di loro proprietà, con obbligo di corresponsione della rivalutazione monetaria dalla maturazione del relativo credito sino alla data di deposito della sentenza medesima e degli interessi legali dalla maturazione del credito sino al suo al suo soddisfo.

2.1. Con ricorso qui proposto sub R.G. 7004 del 2008 il Comune di Cassino ha chiesto quindi la riforma di tale sentenza, formulando al riguardo le seguenti censure:

1) Violazione della L. 6 dicembre 1971 n. 1034 e successive modifiche; violazione dell’art. 1 della L. 3 gennaio 1978 n. 1; violazione dell’art. 53 del T.U. approvato con D.P.R. 8 giugno 2001 n. 327; violazione e falsa applicazione dell’art. 13 della L. 25 giugno 1865 n. 2359; difetto di giurisdizione del giudice amministrativo; carenza di istruttoria; nullità della deliberazione del Consiglio Comunale n. 56/9 dd. 29 giugno 1987 e dei provvedimenti connessi e consequenziali; motivazione perplessa e contraddittoria.

2) Violazione degli artt. 115, 116 e 132 c.p.c.; violazione dell’art. 21 della L. 1034 del 1971; violazione dell’art. 43 del T.U. 327 del 2001; violazione della L.7 agosto 1990 n. 241 e successive modifiche; violazione dell’art. 42 e ss. del R.D. 16 marzo 1942 n. 267; violazione del D.L.vo 18 agosto 2000 n. 267; violazione degli artt. 2266, 2938 e 2947 c.c.; violazione dei principi discendenti dall’art. 97 Cost.; difetto di legittimazione attiva dei ricorrenti; inammissibilità della relativa domanda per prescrizione del relativo diritto; carenza di istruttoria; motivazione perplessa e contraddittoria;

3) Violazione del T.U. 327 del 2001; difetto di istruttoria e difetto assoluto di motivazione.

2.2. Si sono costituiti in giudizio gli appellati P. Lavorazione Marmi e Affini S.n.c. e P. R., eccependo in via preliminare la nullità del mandato defensionale rilasciato al patrocinio del Comune in quanto non apposto a margine o in calce all’atto introduttivo del nuovo procedimento, ma in calce alla copia della sentenza impugnata prodotta agli atti di causa.

Gli appellati hanno comunque replicato puntualmente alle censure avversarie concludendo per la conferma della sentenza impugnata.

2.3. L’appellante Comune, pur affermando a sua volta la validità del mandato conferito per la proposizione del ricorso proposto sub R.G. 7004 del 2008, ha proposto sub R.G. 3418 del 2009 altro ricorso identico al precedente avverso la medesima sentenza n. 3490 del 2008 resa dalla Sezione IIbis T.A.R.per il Lazio, peraltro con mandato apposto a margine dell’atto introduttivo del giudizio.

2.4. In tale ulteriore procedimento si sono parimenti costituiti gli appellati P. Lavorazione Marmi e Affini S.n.c. e P. R., eccependo in via preliminare l’inammissibilità anche del nuovo ricorso, ma replicando comunque anche nel merito delle censure avversarie e concludendo per la loro reiezione.

2.5. Con ordinanza n. 5084 ded. 30 settembre 2008 emessa sub R.G. 7004 del 2008 à sensi dell’allora vigente art. 33, commi terzo e quarto, della L. 6 dicembre 1971 n. 1034 la Sezione ha accolto la domanda cautelare dell’appellante di sospensione della sentenza emessa in primo grado, "considerato che le doglianze dedotte dall’appellante sembra (va) no meritevoli di approfondimento in sede di merito, con riferimento alla natura della ablazione e ai connessi profili di eventuale prescrizione".

3. Alla pubblica udienza del 24 maggio 2011 entrambi i ricorsi sono stati trattenuti per la decisione.

4.1. Il Collegio deve farsi carico, innanzitutto, di decidere sulle eccezioni di inammissibilità dei due ricorsi- che vengono riuniti- sollevate dalla difesa degli appellati.

Secondo la prospettazione di questi, infatti, il ricorso proposto sub R.G. 7004 del 2008 risulterebbe inammissibile – come detto innanzi – in dipendenza della nullità del mandato ad litem apposto non già a margine o in calce dell’atto introduttivo del presente grado di giudizio, ma in calce alla copia della sentenza impugnata prodotta agli atti del presente grado di giudizio; e – a sua volta – anche il ricorso proposto sub R.G. 3418 del 2009 risulterebbe parimenti inammissibile poiché intervenuto allorquando il primo rapporto processuale era stato già costituito, con conseguente preclusione per la parte appellante di proporre un nuovo giudizio in forza del generale principio del divieto di bis in idem.

4.2. Il Collegio, per parte propria, rileva che secondo Cass. Civ. Sez. III, 12 dicembre 1979 n. 6482, può invero reputarsi validamente conferita la procura speciale, rilasciata in calce o a margine di un atto del processo diverso da quelli indicati nel comma 3 dell’art. 83 c.p.c.: e ciò – per l’appunto – con specifico riferimento al caso della procura apposta in calce alla copia della sentenza di primo grado notificata all’appellante.

Tale conclusione si giustifica, sempre secondo tale pronuncia, in considerazione della circostanza che l’instaurazione del rapporto processuale deve ritenersi valida e rituale, in considerazione dell’eguale raggiungimento degli scopi (certezza dell’esistenza e della tempestività della procura e, quindi, della riferibilità alla parte dell’attività del procuratore) perseguiti dalla legge con la prescrizione delle forme previste per il conferimento della procura alla lite.

Si precisa peraltro nella sentenza medesima che al fine della validità di tale procura ad litem è peraltro necessario che il relativo atto sia depositato al momento della costituzione in giudizio senza contestazione da parte degli avversari: e nel caso di specie la contestazione è stata fatta.

In relazione a tale circostanza, deve pertanto concludersi per l’inammissibilità del ricorso proposto sub R.G. 7004 del 2008.

Non è, viceversa, inammissibile il ricorso di identico contenuto proposto dal medesimo appellante sub R.G. 3418 del 2009 con procura ritualmente proposta a margine del relativo atto di introduzione del giudizio, posto che – come è ben noto – à sensi del generale principio contenuto nell’art. 159, primo comma, c.p.c., "la nullità di un atto non importa quella degli atti precedenti, né di quelli successivi che ne sono indipendenti".

Nel caso di specie, non essendo ancora spirati i termini per la proposizione del presente giudizio, è stato pertanto notificato un ulteriore atto di appello da parte del Comune, avente contenuto del tutto identico al precedente e in dipendenza del quale è stato formato dalla Segreteria di questo giudice un nuovo fascicolo di causa.

Deve quindi concludersi nel senso che il nuovo ricorso proposto sub R.G. 3418 del 2009 è ammissibile e può essere deciso nel merito.

5.1. Nondimeno, tale secondo ricorso proposto dal Comune di Cassino va respinto.

5.2. In primo luogo, a differenza di quanto sostenuto dalla difesa del Comune, sussiste nella specie la giurisdizione del giudice amministrativo: e ciò, non solo in considerazione delle oltremodo diffuse argomentazioni contenute nella sentenza impugnata – totalmente condivise anche da questo giudice – ma anche in considerazione dell’ormai del tutto consolidato orientamento del giudice della giurisdizione secondo il quale le azioni risarcitorie per vicende di occupazione comunque dovute a comportamenti riconducibili all’esercizio, ancorché illegittimo, del pubblico potere, rientrano nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (cfr. ex plurimis, tra le più recenti, Cass. Civ., SS.UU., 12 gennaio 2011 n. 509); e ciò, quindi, non solo per le ipotesi in cui il riscontro di un collegamento con l’esercizio del potere farebbe comunque ascrivere la controversia risarcitoria al giudice amministrativo (ed è il caso della occupazione c.d. "appropriativa", preceduta da valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità), ma anche per le ipotesi in cui l’annullamento ex tunc della dichiarazione di pubblica utilità abbia l’astratta idoneità a ripristinare la situazione di diritto soggettivo, sì da determinare l’appropriazione correntemente definita come occupazione usurpativa (Cass. Civ., SS.UU., 28 gennaio 2010 n. 1787).

5.3. Ciò posto, il collegio deve farsi anche carico della circostanza che l’art. 43 del T.U. approvato con D.P.R. 8 giugno 2001 n. 327, assunto a fondamento sia della richiesta avanzata dal P. all’Amministrazione Comunale, sia della sentenza resa in primo grado e qui impugnata, è stata medio tempore dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza della Corte Costituzionale n. 293 dd. 8 ottobre 2010.

A tale riguardo, tuttavia, questa stessa Sezione ha già avuto modo di rilevare che in tema di espropriazione per pubblica utilità, nel caso di esecuzione dell’opera anche in assenza di un idoneo titolo legittimante, l’ anzidetto art. 43 recava una disciplina di "chiusura" del sistema, preordinata ad adeguare la descritta situazione di fatto a quella di diritto, previa valutazione discrezionale degli interessi, pubblici e privati, in conflitto; pertanto, essa si riferiva anche alle occupazioni sine titulo già attuate alla data di entrata in vigore del T.U. 327 del 2001, con l’avvertenza che, pur dopo la declaratoria di incostituzionalità della disciplina medesima, occorre mantenere fermo il principio dell’estraneità della fase risarcitoria al procedimento espropriativo propriamente detto, cambiando unicamente lo strumento tecnicogiuridico attraverso il quale si realizza l’effetto traslativo della proprietà in favore dell’Amministrazione che ha attivato il procedimento ablatorio (cfr. sul punto la sentenza n. 676 dd. 28 gennaio 2011).

Pertanto, la declaratoria di illegittimità costituzionale anzidetta non elimina l’obbligo per l’Amministrazione espropriante di ristorare i proprietari espropriati del pregiudizio cagionato dall’occupazione sine titulo, posto che rimane ferma e inderogabile per l’Amministrazione medesima l’esigenza di addivenire a un accordo transattivo con gli interessati che determini il definitivo trasferimento della proprietà dell’immobile, accompagnandosi anche al doveroso risarcimento del danno da occupazione illegittima.

Nel caso di specie, il danno è già stata correttamente accertato e liquidato nel suo ammontare dal giudice di primo grado, per cui altro non resta alle parti che addivenire alla stipula di un contratto di acquisto della realità già di fatto appresa da parte del Comune, con ciò configurando l’integrale pagamento del danno predetto agli aventi titolo quale corrispettivo dell’acquisto stesso e con le spese per la stipula del contratto anzidetto integralmente a carico del Comune medesimo.

5.4. Come detto innanzi, l’Amministrazione Comunale ha ricusato di addivenire all’accordo proposto dal P. sulla base di un parere pro veritate in senso negativo al riguardo reso dall’Avv. Sergio Nacci in data 10 ottobre 2002: e ciò nonostante si fosse precedentemente pronunciato in senso favorevole alla proposta avanzata dal P. (danno da liquidare con un importo complessivo di Lire 1.179.806.000, pari ad Euro 609.318,95.- con rinuncia della controparte alla metà degli interessi legali maturati a quel tempo nell’importo di Lire 900.000.000., pari ad Euro 464.811,20) il Servizio lavori pubblici del medesimo Comune con nota dd. 18 maggio 2000.

In tale parere si contesta in primo luogo la circostanza che il proponente l’accordo, ossia il Sig. R. P., sia legale rappresentante della P. Lavorazione Marmi e Affini S.n.c. di P. M. e R..

Secondo la tesi del parere predetto, fatta propria dall’Amministrazione appellante, nella corrispondenza che il Sig. R. P. ha diretto all’Amministrazione Comunale al fine di conseguire il risarcimento di cui trattasi, questi si sarebbe qualificato sic et simpliciter quale proprietario dei beni appresi, senza precisare di agire anche quale legale rappresentante della Società anzidetta, tanto che anche il suo patrocinante in primo grado avrebbe pure dichiarato di agire "in nome, per conto e nell’interesse del Sig. R. P.".

In tal senso, quindi, l’Amministrazione Comunale invoca a fondamento della propria tesi la circostanza per cui anche alla società di persone, nonostante la loro non perfetta autonomia patrimoniale, è riconosciuta la soggettività giuridica e – quindi – la titolarità di situazioni giuridiche distinte rispetto a quelle facenti capo alle persone fisiche dei soci singolarmente o cumulativamente considerati (cfr. al riguardo l’art. 2266, primo comma, c.c., in forza del quale "la società acquista i diritti e assume le obbligazioni per mezzo dei soci che ne hanno la rappresentanza e sta in giudizio in persona dei medesimi"; cfr. sul punto, altresì, Cass. Civ., Sez. I, 7 agosto 1996 n. 7228).

Inoltre, l’Amministrazione Comunale – sempre sulla scorta dell’anzidetto parere pro veritate- ha rimarcato che la società in nome collettivo, pur non essendo munita di personalità giuridica, costituisce un autonomo soggetto di diritto che può essere centro di imputazione di situazioni negoziali e processuali distinte rispetto alla posizione dei soci, dimodochè i soci hanno una duplice veste: "uti socii" allorquando, nel caso di società irregolare, agiscono quali titolari dei rapporti costituenti il patrimonio autonomo del gruppo e, in caso di società regolare, se ne hanno la rappresentanza; "uti singuli", quando agiscono invece quali titolari di rapporti afferenti al loro patrimonio personale (Cass. Civ., Sez. II, 12 marzo 1992 n. 3011).

In tal senso, inoltre, le manifestazioni esteriori atte a provare che l’attore agisce nella qualità di rappresentante della società in nome collettivo possono consistere nel comportamento univoco dell’attore, tenuto conto dell’inerenza dell’atto all’impresa sociale, della documentazione prodotta, delle argomentazioni avanzate a giustificazione della domanda, quando tale comportamento presuppone necessariamente la qualità di rappresentante della società (cfr. ibidem).

Ciò posto, l’Amministrazione Comunale medesima reputa quindi che dall’insieme dei documenti provenienti dal Sig. R. P. non emergerebbe che questi agisca anche quale legale rappresentante della Società anzidetta, ma solo in proprio.

Il Collegio, per parte propria, dissente da tali argomentazioni.

Nella sentenza impugnata sul punto è stato fondatamente evidenziato che à sensi dell’art. 2298 c.c. l’amministratore delle società in nome collettivo "che ha la rappresentanza della società può compiere tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale, salve le limitazioni che risultano dall’atto costitutivo o dalla procura", fermo – altresì – restando che in forza del generale rinvio alla disciplina delle società semplici, disposto dall’art. 2293 c.c., à sensi dell’art. 2266, il difetto di rappresentanza in chi ha agito può essere fatto valere solo dalla società e non dalla controparte.

In conseguenza di ciò, e stante l’obiettiva consistenza e non smentibile sussistenza in capo al Sig. R. P. del potere di rappresentanza della società titolare del bene, "appare censurabile il diniego che si fondi su un asserito difetto di legittimazione dello stesso, semmai potendo l’amministrazione procedere ad una richiesta di integrazione documentale in ordine alla qualità del soggetto richiedente, in coerenza con i generali principi di partecipazione in senso collaborativo tra amministrazione e privato cittadino e buon andamento dell’azione pubblica, nonché dei derivati canoni di semplificazione ed accelerazione del procedimento". (cfr. pagg. 20 – 21 della sentenza impugnata).

5.5. Non va comunque sottaciuto che tale contestazione della legittimazione del P. a chiedere, anche quale legale rappresentante della P. Lavorazione Marmi e Affini S.n.c. di P. M. e R. trova fondamento nel tentativo dell’Amministrazione Comunale di fondare la propria eccezione di sopravvenuta prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento del danno, asseritamente decorrente ex art. 2947 c.c. dalla scadenza del termine dell’occupazione legittimamente compiuta.

Nel caso di specie l’Amministrazione Comunale rimarca che:

a) gli immobili sono stati appresi nel febbraio del 1989;

b) l’occupazione secundum legem degli stessi è scaduta nel febbraio del 1994:

c) ogni richiesta risarcitoria al riguardo doveva quindi essere avanzata nel febbraio del 199;

d) la P. Lavorazione Marmi e Affini S.n.c. di P. M. e R. è stata dichiarata fallita con sentenza del 6 ottobre 1984 unitamente ai propri soci, Signori M. P. e R. P.;

e) il fallimento è stato chiuso in data 28 maggio 1996 per riparto del ricavato, con conseguente ritorno in bonis della società e dei suoi soci;

f) tra il 6 ottobre 1984 e il 28 maggio 1996 ogni potere in ordine ai beni ablati è stato trasferito agli organi del fallimento, i quali si sono peraltro astenuti dal rivendicare alcunché in ordine al risarcimento del danno;

g) le istanze di risarcimento proposte nel periodo intercorrente tra il 1989 e il 1995 dal Sig. R. P. non potrebbero reputarsi efficaci in quanto lo stesso in quel medesimo periodo risultava fallito e, quindi, incapace di porre in essere atti rilevanti ed efficaci per l’interesse della società anzidetta.

Il Collegio, per parte propria, rileva che già nel "sistema" del predetto art. 43 del T.U. 327 del 2001 andava esclusa la sussistenza di un termine prescrizionale di 5 anni al fine dell’idonea proposizione della domanda risarcitoria (cfr. sul punto, ad es., le decisioni di questa stessa Sezione n. 5830 dd. 16 novembre 2007; n. 3752 dd. 27 giugno 2007 e n.2582 dd. 21 maggio 2007).

Alla medesima conclusione deve peraltro giungersi anche dopo la caducazione del medesimo art. 43 da parte del giudice delle leggi, in considerazione degli stessi argomenti di ordine generale già invocati nelle decisioni testè riferite e per quanto qui di seguito riassunti.

1) Nessuna norma del diritto positivo italiano consente che una Pubblica Amministrazione, mediante un proprio comportamento illecito e in assenza di un atto ablatorio, acquisti a titolo originario la proprietà di un’area altrui, sulla quale sia stata realizzata un’opera pubblica o di interesse pubblico: e ciò anche se ciò fosse previsto in un provvedimento amministrativo recante una dichiarazione di pubblica utilità;

2) Anche se l’opera pubblica o di interesse pubblico è ultimata, non comincia a decorrere alcun termine di prescrizione per il risarcimento del danno.

In tal senso non è condivisibile una ricostruzione ermeneutica secondo cui la Pubblica Amministrazione diventerebbe proprietaria per il fatto della avvenuta realizzazione delle opere di interesse pubblico, sia o meno divenuta inoppugnabile una dichiarazione di pubblica utilità.

Tale ricostruzione, infatti, non è conforme ai principi della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo, i quali hanno una diretta rilevanza nell’ordinamento interno, poiché per l’art. 117, primo comma, Cost., le leggi devono rispettare i "vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario", e in tal senso l’art. 6 (F) del Trattato di Maastricht (modificato dal Trattato di Amsterdam) dispone a sua volta che "l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,… in quanto principi generali del diritto comunitario".

Né va sottaciuto che per la pacifica giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) contrasta l’art. 1, prot. 1, della Convenzione la prassi giudiziaria interna sulla "espropriazione indiretta", secondo la quale l’Amministrazione diventerebbe proprietaria del bene, in assenza di un atto ablatorio (cfr. CEDU, Sez. IV, 17 maggio 2005; Sez. IV, 15 novembre 2005, ric. 56578/00; Sez. IV, 20 aprile 2006).

Dalla Convenzione europea e dal diritto comunitario, nonché dall’elaborazione giurisprudenziale della CEDU ben dunque emerge il principio che preclude di ravvisare un" "espropriazione indiretta" o "sostanziale", pur in assenza di un idoneo titolo, previsto dalla legge: ossia, il termine prescrizionale del risarcimento del danno discendente dall’ablazione della proprietà sine titulo, ove contemplato dal diritto interno, è in ogni caso incompatibile con il principio di legalità di cui all’art. 1, all. 1, della Convenzione, posto anche che l’ablazione medesima si sostanzia in tale ipotesi quale illecito di tipo permanente.

In tal senso va dunque rimarcato che le disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo costituiscono primari e fondamentali canoni di interpretazione per la legge italiana e che nel caso di diretto contrasto di una legge con le disposizioni della Convenzione, è configurabile la sua incostituzionalità per violazione del novellato art. 117 Cost. (Corte Cost., 20 ottobre 2007, nn. 348 e 349).

Quando non vi è tale contrasto e, anzi, la legge italiana è suscettibile di una interpretazione conforme alla Convenzione, è imprescindibile dovere di ogni interprete riconoscere alla legge italiana il chiaro e unico significato coerente con la medesima giurisprudenza e con la ratio ed il dato letterale della legge.

Se così è, anche nel nostro ordinamento va precettivamente riconosciuto, conformemente ai principi enunciati dalla CEDU, la perdurante sussistenza del diritto di proprietà e – conseguentemente – di un illecito permanente dell’Amministrazione che si sia a suo tempo impossessata del fondo altrui senza concludere tempestivamente il procedimento di esproprio: e ciò anche se è stata realizzata l’opera pubblica o di interesse pubblico, non essendo sussistente – giova ribadire – anche nel nostro diritto positivo interno un termine quinquennale, decorrente dalla trasformazione irreversibile dell’area o dalla realizzazione dell’opera, decorso il quale si verificherebbe la prescrizione della pretesa risarcitoria.

5.6. Da ultimo l’Amministrazione Comunale afferma che l’entità del risarcimento del danno sarebbe stata nella specie ricavata in via del tutto apodittica dal giudice di primo grado, senza neppure disporre al riguardo una consulenza tecnica.

Anche tale argomento della parte appellante va respinto, stante la già richiamata condivisione espressa dall’Amministrazione Comunale con la predetta nota dd. 18 maggio 2000 in ordine alla congruità della transazione proposta: e, se è vero che à sensi del generale principio sancito dall’art. 116 c.p.c. – e per certo applicabile anche al processo amministrativo – nel processo vige l’obbligo della collaborazione tra le parti e che ogni parte ha il poteredovere di provare le circostanze a fondamento della propria richiesta (art. 2697 c.c.), va evidenziato che l’Amministrazione Comunale, dopo aver documentalmente condiviso la congruità della proposta transattiva avanzata dalla propria controparte, nulla allega nel presente giudizio al fine di contestare – ora – la congruità medesima.

6. Le spese e gli onorari di causa seguono la soccombenza di lite.

Va inoltre dichiarato irripetibile il contributo unificato di cui all’art. 9 e ss. del D.P.R. 30 maggio 2002 n.115 e successive modifiche.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sui ricorsi in appello, come in epigrafe proposti e previa loro riunione, dichiara inammissibile il ricorso proposto sub R.G. 7004 del 2008 e respinge il ricorso proposto sub R.G. 3418 del 2009.

Condanna il Comune di Cassino al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio, complessivamente liquidati nella misura di Euro 5.000,00.- oltre ad I.V.A. e C.P.A.

Dichiara – altresì – irripetibile irripetibile il contributo unificato di cui all’art. 9 e ss. del D.P.R. 30 maggio 2002 n.115 e successive modifiche.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 24 maggio 2011 con l’intervento dei magistrati:

Giorgio Giaccardi, Presidente

Raffaele Greco, Consigliere

Diego Sabatino, Consigliere

Guido Romano, Consigliere

Fulvio Rocco, Consigliere, Estensore

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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