Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 18-07-2011) 01-08-2011, n. 30436 Associazioni mafiose

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con decreto del 20 maggio 2009 il tribunale di Palermo, in accoglimento della proposta formulata il 16 maggio 2007 dalla locale procura della Repubblica, applicava a D.F.G. la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno nel Comune di residenza per la durata di anni tre e mesi sei, oltre le prescrizioni accessorie di legge a garanzia delle quali imponeva la sanzione di Euro 2000. Con il medesimo decreto ordinava inoltre la confisca di conti correnti, dossier titoli, depositi a risparmio in titoli postali in parte cointestati con il fratello Di.Fi.Gu..

In seguito all’impugnazione dei ricorrenti, la Corte d’appello di Palermo, con decreto del 22 dicembre 2010, confermava il predetto decreto del tribunale.

Contro quest’ultimo provvedimento propongono ricorso D.F. G. e Di.Fi.Gu.. Due sono i motivi di ricorso; il primo motivo – con il quale si deduce violazione della L. n. 575 del 1965, artt. 2 bis e 2 ter, – è relativo alla misura patrimoniale e si articola in numerose censure, così sintetizzabili:

A. La Corte d’appello avrebbe violato la L. n. 575 del 1965, art. 2 ter, commi 2 e 3, per non aver dimostrato l’illecita provenienza dei beni oggetto di confisca; secondo i ricorrenti la nuova disciplina dell’art. 2 ter richiede un elevato livello probatorio in ordine alla disponibilità dei beni, alla loro sproporzione rispetto ai redditi od alle attività economiche del soggetto ed alla loro derivazione da attività illecite.

B. Contraddittorietà e manifesta illogicità delle motivazioni del decreto impugnato, nella parte in cui si sostiene la inidoneità delle allegazioni difensive a dimostrare la provenienza lecita delle risorse economiche rinvenute nella disponibilità dell’odierno ricorrente (cfr. pag. 7 del ricorso).

C. Violazione di legge nella parte in cui la Corte d’appello ha sostenuto l’operatività in capo alla signora S.G., madre dei ricorrenti, della presunzione di cui alla L. n. 575 del 1965, art. 2 bis, comma 3, dal momento che tale presunzione opererebbe solo per chi ha convissuto con il soggetto nell’ultimo quinquennio, mentre per gli altri soggetti l’accertamento dovrebbe essere assai rigoroso, occorrendo la prova piena della disponibilità dei beni oggetto di confisca da parte del soggetto interessato;

inoltre, la presunzione non potrebbe operare nei confronti della signora S. perchè deceduta nel 2002 e quindi ben prima del periodo quinquennale di convivenza contemplato dalla norma, nè nei confronti di Di.Fi.Gu., anch’egli non convivente con il fratello G..

D. Manifesta illogicità del decreto nella parte in cui sostiene la illecita provenienza dei capitali oggetto di confisca.

E. Contraddittoria motivazione del decreto laddove afferma che le allegazioni difensive non sono idonee a dimostrare la provenienza lecita delle risorse economiche oggetto di sequestro.

Il secondo motivo di ricorso è riferibile alla misura personale e con esso si lamenta la illogica e carente motivazione in ordine alla sua durata.

Il Procuratore Generale della Corte di cassazione ha chiesto il rigetto dei ricorsi per esservi idonea motivazione in ordine alla durata della misura personale nonchè evidente sproporzione tra il patrimonio e i redditi dei ricorrenti, ai fini della emanazione della misura patrimoniale.

Motivi della decisione

Con la prima censura si deduce violazione della L. n. 575 del 1965, art. 2 ter, commi 2 e 3, per non aver la Corte dimostrato l’illecita provenienza dei beni oggetto di confisca; secondo i ricorrenti la nuova disciplina dell’art. 2 ter richiede un elevato livello probatorio in ordine alla disponibilità dei beni, alla loro sproporzione rispetto ai redditi od alle attività economiche del soggetto ed alla loro derivazione da attività illecite.

La censura è infondata; dispone la L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 2 ter, che il tribunale ordina con decreto motivato il sequestro dei beni dei quali la persona nei cui confronti è iniziato il procedimento risulta poter disporre, direttamente o indirettamente, quando il loro valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta ovvero quando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Risulta dunque evidente che per poter disporre il sequestro sono sufficienti due condizioni e cioè che i beni siano nella disponibilità, diretta od indiretta, del soggetto e che il loro valore risulti sproporzionato al reddito o all’attività economica svolta (questa seconda condizione si pone in alternativa alla prova della provenienza illecita dei beni). E’ dunque del tutto irrilevante la prova della provenienza illecita dei beni, qualora sia già stata dimostrata la sproporzione degli stessi rispetto ai redditi o all’attività economica svolta dal soggetto.

Ebbene, sulla base di queste premesse si deve rilevare come il decreto della Corte d’appello abbia da un lato evidenziato la disponibilità dei beni in capo a D.F.G. (circostanza peraltro evidente, dal momento che i rapporti bancari e postali assoggettati al sequestro sono intestati o cointestati comunque a lui), dall’altro che essi sono assolutamente sproporzionati sia con riferimento ai redditi di quest’ultimo, sia con riferimento ai redditi percepiti in vita dalla madre S.G., sia infine con riferimento ai redditi di Di.Fi.Gu.. Sul punto vi è una motivazione abbondante, specifica e assolutamente logica e coerente della Corte d’appello (cfr. pagg. 7-13), che questa Corte condivide appieno e che, comunque, non sarebbe in questa sede censurabile, trattandosi di valutazione di merito sottratta a ogni tipo di controllo in sede di legittimità, se correttamente motivata.

In questa situazione ai ricorrenti non rimaneva che dimostrare la provenienza lecita di tali capitali, ma tale onere non è stato adempiuto in quanto, come correttamente osservato dalla Corte d’appello, non una prova di tali redditi è stata fornita, essendosi limitati i ricorrenti a mere affermazioni prive di riscontri documentali e dovendosi altresì tener conto del fatto che i redditi comunque percepiti in quegli anni, sia dalla madre che da entrambi i ricorrenti, dovevano servire anche al mantenimento dei rispettivi nuclei familiari.

Per gli stessi motivi – si deve ritenere insussistente la violazione del comma terzo dello stesso articolo, laddove dispone che "Con l’applicazione della misura di prevenzione il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati di cui la persona, nei cui confronti è instaurato il procedimento, non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo". I motivi B, D ed E sono inammissibili in quanto – a prescindere dall’esistenza di una coerente e logica motivazione sui punti indicati – in materia di misure di prevenzione, personali e patrimoniali, il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, secondo il disposto della L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 4, comma 11, richiamato anche dalla L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 5 ter, comma 2. Ne consegue che, in tema di sindacato sulla motivazione, sono escluse dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità le ipotesi previste dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso il caso di motivazione inesistente o meramente apparente, qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d’appello dalla predetta L. n. 1423 del 1956, art. 4, comma 9, (Cassazione penale, sez. 6^, 10/03/2008, n. 25795, conf.

Cassazione penale, sez. 6^, 26/06/2002, n. 28837).

Lamentano, poi, i ricorrenti violazione di legge nella parte in cui la Corte d’appello ha sostenuto l’operatività in capo alla signora S.G., madre dei ricorrenti, della presunzione di cui alla L. n. 575 del 1965, art. 2 bis, comma 3, dal momento che tale presunzione opererebbe solo per chi ha convissuto con il soggetto nell’ultimo quinquennio, mentre per gli altri soggetti l’accertamento dovrebbe essere assai rigoroso, occorrendo la prova piena della disponibilità dei beni oggetto di confisca da parte del soggetto interessato; inoltre, la presunzione non potrebbe operare nei confronti della signora S. perchè deceduta nel 2002 e quindi ben prima del periodo quinquennale di convivenza contemplato dalla norma, nè nei confronti di Di.Fi.Gu., anch’egli non convivente con il fratello G.. A questo proposito si deve ribadire che la prova della disponibilità dei beni in capo a D. F.G. risulta oggettivamente dalla intestazione in capo allo stesso dei rapporti bancari e postali oggetto di sequestro e confisca; in particolare, mentre alcuni rapporti sono cointestati con il fratello, i titoli di cui ai numeri 5, 6 e 7 dell’elenco contenuto alla pagina due del decreto della Corte d’appello di Palermo risultano intestati unicamente a D.F.G., per cui almeno su questi ultimi nessun dubbio può esservi in ordine alla piena disponibilità in capo al ricorrente, mentre nessuna differenziazione viene operata nel ricorso per cassazione. Quanto alla presunzione di cui all’art. 2 bis, comma 3, se ne deve rilevare la irrilevanza proprio in forza di quanto detto al capoverso precedente. Dice la norma richiamata che "Le indagini sono effettuate anche nei confronti del coniuge, dei figli e di coloro che nell’ultimo quinquennio hanno convissuto con i soggetti indicati al comma 1 nonchè nei confronti delle persone fisiche o giuridiche, società, consorzi od associazioni, del cui patrimonio i soggetti medesimi risultano poter disporre in tutto o in parte, direttamente o indirettamente"; ne consegue che la norma si riferisce ai casi in cui l’autorità giudiziaria sequestra beni intestati a diverse persone, presumendo la intestazione fittizia in virtù del rapporto di convivenza. Nel caso in esame, invece, i beni confiscati sono tutti nella titolarità del ricorrente (cfr. pag. 2 del decreto della Corte d’appello di Palermo, mentre nel ricorso per cassazione non vi è alcuna indicazione relativa ai beni sequestrati, se non un semplice rinvio alle indicazioni contenute nel provvedimento impugnato), per cui non c’è alcun bisogno di invocare la presunzione di legge. Quanto al fatto che alcuni rapporti bancari risultano cointestati a Di.Fi.

G., la Corte ha dato ampia motivazione in relazione all’impossibilità che tali beni siano provenienti dall’attività lecita dello stesso, il quale, esercitando la professione di insegnante di educazione fisica ed avendo una moglie e tre figli da mantenere, non poteva cumulare un capitale di tale entità, che non poteva nemmeno derivare dalla attività lecita della madre (e dunque essere trasmesso per successione) per i motivi specificamente indicati dal decreto impugnato alle pagine da 9 a 13.

Vale la pena, infine, rilevare che la confisca dei beni acquistati dal sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale è legittima anche per il periodo antecedente all’inizio della sua appartenenza al sodalizio mafioso, purchè il loro valore risulti sproporzionato rispetto al reddito o alla attività economica svolta dal prevenuto (cfr. Cassazione penale, sez. 6^, 15/01/2010, n. 4702) in quanto la norma, nei limiti della ragionevolezza, non obbliga alla correlazione temporale con la contestazione associativa per i beni di cui la persona non possa giustificare la legittima provenienza e disponga in valore sproporzionato al proprio reddito (Cassazione penale, sez. 1^, 04/06/2009, n. 35175).

Il secondo motivo di ricorso è riferibile alla misura personale e con esso si lamenta la illogica e carente motivazione in ordine alla durata; orbene, sul punto si deve ricordare che in materia di misure di prevenzione, personali e patrimoniali, il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, secondo il disposto della L. 27 dicembre 1956 n. 1423, art. 4, comma 11, richiamato anche dalla L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 5 ter, comma 2, (Cassazione penale, sez. 6^, 10/03/2008, n. 25795, Cassazione penale, sez. 6^, 26/06/2002, n. 28837). E’ ben vero che i ricorrenti hanno lamentato anche la totale assenza di motivazione, ma – a prescindere dalla considerazione che se la motivazione manca, non può per ciò stesso essere illogica – la censura è totalmente infondata, dal momento che il provvedimento impugnato fornisce una motivazione specifica sul punto alla pagina sei, essendo del tutto indifferente che il giudice di appello abbia ritenuto congrua la durata della misura per gli stessi motivi già esposti dal giudice di primo grado.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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