Cass. pen., sez. I 15-03-2007 (02-03-2007), n. 11203

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
I. All’origine di questa vicenda giudiziaria c’è l’aggressione subita la sera del 24 luglio 2003 da un giovane marocchino, O.O.R., all’interno dell’alloggio da lui occupato abusivamente a (OMISSIS) e nel quale avevano fatto irruzione un gruppo di uomini che lo avevano aggredito violentemente abbandonandolo privo di sensi nella vasca da bagno riempita d’acqua fino a quando un vicino, trovatolo esanime e sanguinante, non aveva chiamato il 118 e un equipaggio di infermieri lo aveva trasportato in ospedale.
Stando alle prime dichiarazioni rese dal R. alla polizia prima il 26 e poi il 28 luglio 2003, l’aggressione da lui subita si ricollegava a un diverbio sorto poco prima dell’aggressione in uno stabilimento balneare, di cui era titolare T.V. e in cui svolgeva attività di bagnino F.A.: il R. era stato rimproverato dai due ed aveva reagito colpendo il T. al capo con un sasso o un pezzo di legno raccolto sulla spiaggia. Di qui l’immediata spedizione punitiva organizzata ai suoi danni dal T..
Riascoltato dalla polizia il 9 settembre 2003 e poi nel corso di un incidente probatorio richiesto dalla difesa dei due indagati dianzi indicati, il R. cambiava versione, attribuendo le sue precedenti dichiarazioni accusatone a uno stato confusionale e fornendo una spiegazione alternativa dell’aggressione subita, accusando altri extracomunitari abitanti nello stesso stabile o comunque ospitati nel suo alloggio nel 2001. Per la falsità delle dichiarazioni rese il 5 novembre 2003 in sede di incidente probatorio, peraltro, il R. veniva processato per falsa testimonianza, patteggiando la pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. Condannati dal tribunale di Roma con sentenza del 17 marzo 2005 per concorso in tentato omicidio pluriaggravato e in violazione di domicilio alla pena rispettivamente di anni dieci di reclusione (il T.) e di anni sei di reclusione (il F.), la corte di appello della stessa città, con la sentenza qui impugnata (che è del 19 dicembre 2005) riduceva la pena inflitta al F. ad anni cinque e mesi due di reclusione, confermando nel resto le statuizioni del giudice di prime cure.
Secondo la corte territoriale, doveva ritenersi pienamente credibile il primo racconto fatto dal R., essendo la ritrattazione successiva frutto di evidenti pressioni subite ad opera degli stessi indagati, come si evinceva del resto da alcune circostanze dettagliatamente indicate (in particolare, lo strano comportamento dell’avvocatessa che lo aveva accompagnato al Commissario di polizia il 9 settembre e te confidenze fatte dalla vittima all’ispettore D.F.): tanto più che il marocchino aveva avuto la possibilità di vedere in viso gli aggressori. Secondo la corte di merito poi i tempi dell’intera vicenda si incastravano alla perfezione ( T. si era recato al pronto soccorso dell’ospedale (OMISSIS) di (OMISSIS) alle ore 19,34 e veniva dimesso alle 20,54, alle ore 21,30 si era recato alta Stazione CC. di (OMISSIS) per apporre la prescritta firma essendo sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, la telefonata al 118 risaliva alle 21,37; ergo l’aggressione era avvenuta tra le 20,54 e le 21,30). Gli alibi forniti dai due imputati, peraltro, dovevano ritenersi falsi, sia perché facevano leva su dichiarazioni di persone compiacenti, sia perché erano spuntati per la prima volta solo in vista del dibattimento (p. 11).
La sentenza concludeva per l’esatta configurazione del reato sub A) come tentato omicidio, e non come lesioni personali volontarie, avuto riguardo alle condizioni gravissime in cui la vittima venne trovata dal vicino di casa E. e dall’equipaggio del 118 che le prestò soccorso.
II. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati.
T. deduce, a mezzo del suo difensore, quattro motivi che possono cosi sintetizzarsi:
1) violazione di legge e vizio della motivazione in relazione all’art. 500 c.p.p., commi 4 e 5. La difesa contesta l’acquisizione ed utilizzazione delle dichiarazioni rese dalla persona offesa il 26 e il 28 luglio 2003, contestando il giudizio di legittimità e di rispetto dei diritti della difesa formulato in proposito dalla corte di merito. La difesa lamenta in particolare che il procedimento incidentale disciplinato dall’art. 500 c.p.p., comma 5 sia scattato non in sede di incidente probatorio allorché la persona offesa cambiò la versione originariamente fornita il 26 e il 28 luglio 2003 ma in sede dibattimentale allorché due agenti di polizia fecero riferimento alle minacce loro confidate dal R., in violazione dell’art. 195 c.p.p., comma 4. Apoditticamente infine la corte aveva ritenuto irrilevanti le dichiarazioni del fratello della vittima, criticando il modo in cui si era svolto il contraddittorio nella fase del dibattimento, ritenuto "del tutto formale"; 2) violazione di legge e vizio della motivazione in relazione alla utilizzazione delle dichiarazioni accusatone del R.. La difesa critica il modo apodittico col quale la sentenza aveva ritenuto inattendibili le dichiarazioni rese dalla persona offesa il 9 settembre alla polizia e poi il successivo 5 novembre 2003 in sede di incidente probatorio, allorché ritrattò le precedenti dichiarazioni accusatorie rese inaudita altera parte e in modo ambiguo. Senza contare che il R. aveva assunto la veste, quale imputato di falsa testimonianza, di persona imputata di reato connesso o comunque collegato; e che la Corte aveva fissato sempre in modo assertorio e illogico l’ora dell’aggressione, escludendo tout court l’attendibilità di tutti i testimoni indicati a difesa del T..
Seguono altre censure in ordine alla ritenuta sussistenza della volontà omicida (terzo motivo) e alla denegata concessione delle attenuanti generiche stante lo stato di incensuratezza dell’imputato, anche se sottoposto a una misura di prevenzione personale (quarto motivo).
F. lamenta innanzitutto, a mezzo del suo difensore, una manifesta illogicità della motivazione per quanto concerne la ricostruzione del fatto, ravvisando una limitazione dell’esercizio del diritto di difesa nella mancata rinnovazione del dibattimento, nella mancata citazione del fratello della persona offesa, nell’assenza di un esame peritale circa la durata della malattia. La difesa critica in particolare il modo sbrigativo con cui la sentenza aveva liquidato la credibilità dei testi indicati a sostegno dell’alibi del F. e l’orario dell’aggressione, fondato su un errore di prospettiva, ai limiti del travisamento del fatto. La seconda doglianza investe la configurazione giuridica del fatto come tentato omicidio, pur essendo mancato un accertamento sulla durata della malattia e pur non risultando dalle certificazioni mediche acquisite che la vittima fosse mai stata in pericolo di vita.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente ricostruita la sequenza delle cadenze temporali che hanno scandito le varie dichiarazioni rese dalla persona offesa, anche alla luce della motivazione della sentenza di primo grado.
O.O.R. rendeva dichiarazioni accusatone nei confronti del T. e del F. il 28 luglio 2003 (la prima volta, il 26 luglio, si era limitato a riferire di aver subito un’aggressione senza fare i nomi degli aggressori). Successivamente, il 9 settembre 2003, si presentava al Commissariato di polizia di (OMISSIS) e, alla presenza dell’avvocatessa M.G., modificava la sua originaria versione accusatoria, ritrattatando le accuse contro gli imputati. Uscita dal Commissariato, l’avvocatessa M. (che nel giudizio di primo grado difendeva uno degli imputati, tale E.F.M., poi assolto dal reato di falsa testimonianza) veniva sentita dall’assistente di polizia D.P. mentre faceva delle strane confidenze ai suo assistito E.F., sì da convincere l’assistente di polizia che il legale "aveva svolto un ruolo di controllo sulla fedele esecuzione di un precedente accordo del teste con i beneficiari delle sue false dichiarazioni. L’esistenza di questo accordo veniva confermata dal R. all’agente di polizia D.F. del Commissariato di polizia di (OMISSIS) il successivo 13 settembre, allorché gli confidò che persone vicine alla famiglia T. gli avevano promesso dei soldi e una casa nel caso avesse ritrattato tutto. Nell’occasione sarebbe stato redatto un verbale che però il R. si rifiutò di firmare.
Nel corso dell’incidente probatorio del 5 novembre 2003, il R. ribadiva le sue dichiarazioni liberatorie nei confronti degli imputati e lo stesso faceva nel corso del procedimento aperto a suo carico per falsa testimonianza, conclusosi il 1^ aprile 2004 con una sentenza di patteggiamento e, da ultimo, all’udienza dibattimentale svoltasi il 2 marzo 2005 davanti al tribunale di Roma. E’ significativo che nessuna spiegazione logicamente accettabile sia mai stata fornita dal R. sulle ragioni della radicale divergenza tra le sue dichiarazioni accusatone originarie del 28 luglio e quelle contrarie rese a partire dal 9 settembre 2003, secondo le quali l’aggressione subita era da attribuire a persone diverse dagli imputati, anche se nominativamente non indicate.
La perseverante condotta di ritrattazione del R. sollecitava il tribunale, stante l’inutilizzabilità delle dichiarazioni accusatone originarie da lui rese nel segreto delle indagini preliminari e l’inevitabile giudizio negativo sulla credibilità del teste che scaturiva dalla varietà delle versioni rese sull’episodio dell’aggressione patita, a instaurare un procedimento incidentale ex art. 500 c.p.p., comma 4, in esecuzione del principio costituzionale enunciato dall’art. 111 Cost., comma 5, secondo il quale le dichiarazioni rese fuori del contraddittorio sono recuperabili ed utilizzabili solo in caso di "provata condotta illecita". Venivano così ascoltati, su richiesta del PM e con l’opposizione della difesa degli imputati, i testi D.F., T. e D., tutti appartenenti alla polizia di Stato, al fine di acquisire "concreti elementi legittimanti l’utilizzo delle originarie dichiarazioni del R.’ (cfr. sentenza di primo grado). All’esito del procedimento incidentale, il tribunale acquisiva al fascicolo del dibattimento le dichiarazioni del R. del 26 e del 28 luglio 2003 ritenendo le successive dichiarazioni a favore degli imputati "frutto di illecite pressioni" e valutando quindi le dichiarazioni originarie come prova nel contesto di tutto il materiale probatorio legittimamente acquisito al processo.
Questa analitica ricostruzione delle cadenze temporali che hanno contraddistinto l’evoluzione delle dichiarazioni del R. si è resa necessaria sia perché la sentenza di secondo grado è molto scarna in proposito ed è motivata in modo da non rendere chiara la loro successione, sia perché il nucleo centrale delle censure di legittimità della difesa (soprattutto della difesa del T.) si incentra fondamentalmente sull’apertura del procedimento incidentale disciplinato dall’art. 500 c.p.p., comma 4 attraverso il quale sarebbe stata dimostrata la sussistenza delle minacce e delle illecite promesse rivolte al testimone.
Secondo la difesa dei ricorrenti, un accertamento di questo tipo avrebbe dovuto svolgersi in sede di incidente probatorio e non in sede di dibattimento, subito dopo l’esame testimoniale del R.: tanto più che il procedimento incidentale si era svolto ledendo i diritti della difesa, che aveva richiesto inutilmente l’esame del fratello del R., presente il 13 settembre 2003 allorché la persona offesa riferì all’agente D.F. delle illecite pressioni subite da persone vicine alla famiglia T..
Ciò premesso, si osserva.
Il ricorso è fondato.
Innanzitutto non si può fare a meno di rilevare che di quanto riferito dall’avv. M. al suo assistito E.F.M. il 9 settembre 2003 e dello strano accordo percepito dall’assistente di polizia D. presente al colloquio non c’è traccia alcuna negli atti, a parte le dichiarazioni orali del teste in sede di procedimento incidentale ex art. 500 c.p.p., comma 4. La stessa mancanza di verbalizzazione caratterizza le confidenze ricevute dall’agente D.F. il 13 settembre 2003 da parte del R., alla presenza del fratello: sarebbe stato redatto un verbale che il R. si era rifiutato di firmare ma che, in ogni caso, non è mai stato acquisito agli atti. Su fatti così rilevanti (un comportamento che solo eufemisticamente può definirsi deontologicamente scorretto da parte di un legale è la notizia di pressioni illecite fatte su un testimone per indurlo a dichiarare il falso) nessuno ha mai provveduto a fare relazione all’autorità giudiziaria o a rendere immediate dichiarazioni de relato. La conseguenza di queste omissioni è che agenti e ufficiali di polizia giudiziaria hanno deposto sul contenuto di dichiarazioni spontanee rese da un testimone, in aperta violazione dell’art. 195 c.p.p., comma 4 e dell’art. 357 c.p.p. Di qui l’inutilizzabilità delle loro dichiarazioni.
Quanto all’apertura del procedimento incidentale volto ad accertare che un testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, è quanto meno singolare che si sia atteso il dibattimento di primo grado per disporre tali accertamenti e non si sia pensato di disporli prima, avendo il R. cambiato versione fin dal 9 settembre 2003, ritrattando le sue accuse contro gli imputati, né si sia colta l’occasione per disporli in esito all’incidente probatorio cui venne sottoposto il 5 novembre 2003. Strano davvero che allora nessuno (né il PM né il gip) abbia mostrato segni di stupore di fronte alla scelta del R. di rendere dichiarazioni "riparatici" (è questo l’aggettivo usato nella sentenza di primo grado), senza fornire uno straccio di spiegazione logica di quella radicale divergenza tra le sue dichiarazioni accusatone originarie e quelle tanto favorevoli agli imputati rese in occasione dell’incidente probatorio. E’ oltremodo singolare che a far scattare il procedimento incidentale sia stato il mero esame testimoniale disposto in sede dibattimentale del R. dopo una sentenza di patteggiamento per falsa testimonianza che l’aveva condannato a mesi dieci e giorni venti di reclusione. Anche perché è fortemente dubbio che il quantum di prova necessario per ritenere accertata la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 500 c.p.p., comma 4 possa essere, da sola, la circostanza della deposizione di un teste.
La norma dell’art. 500 c.p.p., comma 4 è chiaramente finalizzata a tutelare la prova, valorizzando la deroga alla formazione della prova in contraddittorio prevista dall’art. 111 Cost., comma 5, che contempla il caso di "provata condotta illecita", sicché l’accertamento incidentale può aprirsi tutte le volte che sorga il sospetto che un teste sia stato minacciato o subornato. La disposizione regola un accertamento incidentale, inserito in un subprocedimento innestato nel procedimento principale, che tende a giustificare l’introduzione di prove dichiarative in deroga alla regola generale della tassatività dell’osservanza del contraddittorio nella formazione della prova: con la conseguenza che, proprio per questa sua peculiare natura, esso rappresenta una palese deviazione dalle linee fondanti del giusto processo e concretizza un istituto eccezionale di stretta interpretazione (Cass., Sez. I, 17 giugno 2004, Brisciano e altri). Ora, la norma autorizza la lettura-acquisizione delle dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero "anche per le circostanze emerse nel dibattimento", il che lascia chiaramente intendere, di fronte alla mancata riproduzione nel testo vigente della "modalità della deposizione" contemplata nella precedente formulazione dell’art. 111 Cost., comma 5, che una semplice deposizione testimoniale non può, da sola, assumere un rilievo decisivo per affermare che sia inquinata. Come è stato esattamente evidenziato in dottrina, esclusa la necessità di una prova che abbia la stessa consistenza di quella richiesta per un giudizio di condanna, nell’accertamento dell’intimidazione o della subornazione del teste, al giudice è lasciato un certo margine di elasticità che, in ogni caso, deve essere ancorato ad elementi concreti e non di natura meramente logica (cfr. Cass., Sez. I, 17 giugno 2004, cit., dove si precisa che deve motivatamente argomentarsi che l’accertamento deve avere ad oggetto elementi di prova, normativamente configurati e qualificati dal requisito della concretezza e delta rilevanza).
La sentenza deve essere quindi annullata e gli atti inviati ad altra sezione della corte di appello di Roma, perché, stante l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dagli agenti ed ufficiali di polizia giudiziaria che hanno deposto sul contenuto delle dichiarazioni rese dal R., provveda ad integrare e completare l’eventuale prova della responsabilità degli imputati mediante l’acquisizione di altri elementi di prova.
Restano assorbite tutte le altre censure.
P.Q.M.
Visti gli artt. 606 e 623 c.p.p. annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della corte di appello di Roma.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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