Cons. Stato Sez. V, Sent., 05-09-2011, n. 4977 Appello al Consiglio di Stato avverso le sentenze del T.A.R Procedimento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sez. II, con la sentenza n. 1070 dell’11 maggio 2004, nella resistenza del Comune di Crotone, definitivamente pronunciando sul ricorso proposto dal sig. G. F. per l’accertamento dell’illegittimità del diniego di licenza commerciale e dell’ordinanza di chiusura del locale bar in data 23 aprile 1993, nonché per il risarcimento del danno derivante dall’illegittimo silenzio serbato dall’amministrazione comunale di Crotone sull’istanza di autorizzazione commerciale presentata il 17 dicembre 1992, lo dichiarava in parte inammissibile ed in parte lo accoglieva.

In particolare, respinta l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dall’intimata amministrazione comunale e dichiarata inammissibile la domanda tesa all’accertamento dell’illegittimità del diniego di licenza commerciale e della successiva ordinanza di chiusura del locale in data 23 aprile 1993 (trattandosi di questione già decisa in senso favorevole al ricorrente con la sentenza n. 49 del 13 gennaio 2004 della Quinta Sezione del Consiglio di Stato), il predetto tribunale riteneva innanzitutto ammissibile la domanda di risarcimento del danno per il silenzio serbato dall’amministrazione comunale sull’istanza del 17 dicembre 1992, diretta ad ottenere il rilascio di un’autorizzazione commerciale di tipo B per la somministrazione di alimenti e bevande da esercitare nel locale sito in Crotone, via Vittorio Veneto, n. 38, precisando che, formatosi il silenzio assenso su detta istanza a decorrere dal sessantunesimo giorno dalla presentazione dell’istanza (18 febbraio 1993), l’amministrazione comunale aveva illegittimamente disposto la chiusura del locale con l’ordinanza del 23 aprile 1993 per mancanza di autorizzazione ed aveva altresì serbato un illegittimo silenzio, quanto meno sino al 24 febbraio 1994 (allorquando erano stati rimossi i sigilli apposti al locale); essendo rimasto poi inoppugnato il provvedimento del 14 luglio 1995, notificato il successivo 18 luglio 1995, con cui era stata espressamente rigettata la istanza di autorizzazione commerciale del 17 dicembre 1992, il predetto tribunale condannava l’amministrazione comunale al risarcimento del danno subito dal ricorrente per non aver potuto svolgere l’attività commerciale, riconoscendogli a titolo di danno emergente l’importo complessivo di Euro. 30.430,24 (Euro. 5.531,25 per i canoni di locazioni pagati per il periodo 15 marzo 1993/15 maggio 1993; Euro. 8.604,17 per lavori di ristrutturazione del locale; Euro. 16.284,82 per l’acquisto di varie attrezzature), oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, nulla invece a titolo di lucro cessante per carenza di prova.

2. Con atto di appello notificato il 21 luglio 2004 il signor G. F. ha chiesto la parziale riforma della predetta sentenza, lamentandone l’erroneità alla stregua di un solo articolato motivo di gravame, rubricato "Manifesto travisamento della domanda di risarcimento danni. Mancata decisione su alcune domande avanzate dal ricorrente, violazione e falsa applicazione del disposto di cui all’art. 112 c.p.c. – Errata quantificazione del danno subito".

A suo avviso, non solo la somma riconosciutagli a titolo di danno emergente era ingiustamente esigua e non aveva tenuto conto della notevole produzione documentale versata in atti, per quanto del tutto ingiustamente gli era stata negata qualsiasi somma a titolo di lucro cessante (in relazione alla quale chiedeva la condanna dell’amministrazione al pagamento di Euro. 1.032.913,80, ovvero del maggiore o minore importo ritenuto giusto ed equo), il tutto omettendo ingiustificatamente di ammettere i mezzi di prova richiesti (consulenza tecnica e prove testimoniali); inoltre i primi giudici avevano omesso di pronunciarsi sulla domanda di risarcimento del danno morale ed esistenziale.

Ha resistito al gravame il Comune di Crotone che ne ha chiesto il rigetto, sottolineando la correttezza della sentenza impugnata, tanto più che le ulteriori richieste dall’appellante, oltre ad essere del tutto sfornite di qualsiasi prova, erano anche inammissibili per la omessa impugnazione del provvedimento in data 14 luglio 1995 di rigetto della domanda avanzata il 17 dicembre 1992.

3. Le parti hanno illustrato con apposite memorie le proprie tesi difensive.

All’udienza pubblica del 22 febbraio 2011, dopo la rituale discussione, la causa è stata trattenuta in decisione.

Motivi della decisione

4. L’appello è fondato secondo quanto appresso indicato.

4.1. Preliminarmente occorre rilevare che, come risulta dalla documentazione in atti:

– in data 17 febbraio 1992 il sig. G. F. presentava al Comune di Crotone un’istanza per il rilascio di un’autorizzazione amministrativa per l’attività di somministrazione di alimenti e bevande, di tipo B, nei locali siti in Crotone alla via V. Veneto n. 38;

– in data 26 marzo 1993, essendo rimasta senza esito la ricordata istanza, egli comunicava all’amministrazione comunale che intendeva avvalersi del disposto di cui agli articoli 19 e 20 della legge 7 agosto 1990, n. 241, presentando quindi una denuncia di inizio di attività;

– in data 4 aprile 1993 l’amministrazione comunale di Crotone rilasciava all’interessato per i locali sopra indicati l’autorizzazione igienico – sanitaria n. 590 per la gestione del "Caffè dell’arte";

– in data 23 aprile 1993 con ordinanza sindacale n. 326 veniva tuttavia disposta la chiusura del predetto esercizio commerciale per la mancanza in capo al sig. G. F. di autorizzazione amministrativa per l’esercizio dell’attività di pubblico esercizio;

– con l’ordinanza sindacale n. 443 del 14 giugno 1993 venivano apposti i sigilli al locale in questione;

– con altra ordinanza sindacale n. 152 del 24 febbraio 1994 veniva disposta la rimozione dei sigilli per consentire al sig. G. F. di ottemperare all’ordinanza di sfratto emessa a suo carico dalla competente autorità giudiziaria;

– con provvedimento in data 14 luglio 1995 il Comune di Crotone respingeva espressamente la domanda presentata il 17 dicembre 1992 per la mancata produzione della documentazione richiesta, ritenendo "l’interessato rinunciatario ai sensi della nota trasmessa dall’ufficio in data 20.06.95": tale provvedimento non è stato impugnato;

– il Consiglio di Stato, con la decisione n. 49 del 13 gennaio 2004, riformando la sentenza n. 690 del 13 giugno 2000 del Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, ha dichiarato illegittimo il silenzio serbato dall’amministrazione comunale di Crotone sull’istanza in data 17 dicembre 1992, dalla data in cui avrebbe dovuto provvedere (2 marzo 1993) fino all’8 settembre 1994, data a decorrere dalla quale sulla predetta istanza di è comunque formato il silenzio – assenso per effetto della specifica normativa sopravvenuta ( D.P.R. 9 maggio 1994, n. 407).

E’ pertanto, per un verso, coperta dal giudicato ogni questione relativa all’illegittimità del comportamento omissivo tenuto dal Comune di Crotone sulla richiesta di autorizzazione commerciale in data 17 dicembre 1992, mentre per altro verso la pretesa risarcitoria dell’interessato non può essere estesa ad eventuali danni prodottisi successivamente al 14 luglio 1995, allorquando l’amministrazione comunale di Crotone ha rigettato espressamente la istanza di autorizzazione commerciale presentata il 17 dicembre 1992, essendo rimasto non solo (e non tanto) tale diniego in oppugnato, quanto piuttosto essendo irrilevanti le ragioni, esclusivamente personali, che hanno determinato tale omessa impugnazione.

4.2. Così chiarito il substrato fattuale della domanda risarcitoria e delimitatone l’ambito territoriale, occorre ancora precisare, primo di procedere all’esame del gravame, che l’appellata amministrazione comunale di Crotone non ha contestato che, come appurato dai giudici di primo grado, dal proprio comportamento siano derivati danni risarcibili, avendo piuttosto ritenuto corretto l’operato dei primi giudici e quindi non provate le ulteriori richieste risarcitorie, sia a titolo di danno emergente che di lucro cessante.

4.3. Passando all’esame del gravame la Sezione osserva che l’appellante ha innanzitutto contestato la quantificazione del risarcimento del danno ritenuto dovuto a titolo di danno emergente, sostenendone la ingiustificata esiguità.

4.3.1. La doglianza può essere accolta quanto alla pretesa collegata al pagamento dei canoni di locazione del locale adibito all’esercizio commerciale.

Come risulta dalla documentazione in atti, effettivamente la società Linea Moda s.a.s. concesse in locazione al sig. G. F. l’immobile magazzino, sito in Crotone, alla via V. Veneto n. 36 – 38, per adibirlo a esercizio commerciale "BAR" per sei anni dal 15 marzo 1993 al 15 marzo 1999 per un canone mensile di Lire 4.500.000, oltre I.V.A.

La locatrice in data 10 dicembre 1993 notificò al conduttore una intimazione di sfratto per morosità per il mancato pagamento dei mesi ottobre, novembre e dicembre 1993, chiedendo altresì un decreto ingiuntivo per i canoni relativi ai mesi da giugno a settembre 1993, ugualmente non corrisposti.

Con la sentenza n. 133 dell’11 febbraio 2008, depositata dallo stesso appellante in data 26 aprile 2010, il Tribunale civile di Crotone, Sezione Stralcio, ha, tra l’altro, dichiarato risolto il ricordato contratto di locazione, condannando il sig. G. F. al pagamento in favore della società Linea Moda s.a.s. della somma di Euro. 20.916,50 per i canoni di locazione relativi al periodo giugno 1993/febbraio 1994, oltre interessi legali dalla scadenza dei singoli ratei e fino al soddisfo.

Posto che già i primi giudici hanno ritenuto fondato la domanda risarcitoria tesa al riconoscimento del danno subito per il pagamento dei canoni di locazione per il locale non potuto utilizzare, limitandola al solo periodo 15.3/15.5.1993, la Sezione ritiene che, pur non potendo ricollegarsi direttamente all’illegittimo comportamento dell’amministrazione comunale il mancato pagamento dei canoni che ha determinato la morosità ed ha legittimato il successivo provvedimento giudiziale di sfratto, nondimeno al sig. G. F. vadano riconosciute a titolo di risarcimento del danno emergente i canoni di locazione da lui dovuti alla società proprietaria del locale per il periodo giugno 1993/febbraio 1994, per un importo complessivo di Euro. 24.890,64 (pari a Lire 48.195.500.000, Lire 4.500.000 per nove mesi, oltre IVA al 19%).

Essendo stato poi effettivamente eseguito lo sfratto, come si evince dall’ordinanza sindacale n. 152 del 24 febbraio 1994, null’altro può essere riconosciuto all’appellante a titolo di canoni di locazione per il locale adibito a bar; tanto meno possono essere riconosciute, a titolo di risarcimento del danno emergente, le somme sostenute dall’appellante per la difesa nel giudizio di sfratto, atteso che, come si è già accennato, la morosità non può essere considerata conseguenza esclusiva, diretta ed immediata del comportamento illegittimo dell’amministrazione.

4.3.2. Quanto alla richiesta del riconoscimento di ulteriori somme a titolo di danno emergente, con particolare riferimento ai lavori di ristrutturazione asseritamente eseguiti nel locale, la Sezione osserva che i giudici di prime cure hanno già ritenuto spettante l’importo di Euro. 8.604,17, corrispondenti alla somma di Lire 16.600.000 di cui alla fattura n. 40 del 30 marzo 1993 della ditta Edilia Costruzioni per lavori di pavimentazione.

Oltre a ciò non è stata fornita alcuna prova (né in primo grado, né in sede di appello) di ulteriori spese sostenute per i predetti lavori di ristrutturazione, nulla emergendo neppure dalla depositata sentenza del Tribunale civile di Crotone n. 133 dell’11 febbraio 2008.

Infatti, anche a voler prescindere dalla circostanza che i lavori eseguiti di cui vi è menzione non risultano neppure totalmente pagati dall’appellante e che non è dato stabilire se essi siano in tutto o in parte coincidenti con quelli le cui spese sono state già riconosciute dai primi giudici, in ogni caso giammai ne è stata provata la loro specifica entità e la loro necessità ai fini dell’esercizio dell’attività commerciale.

Ciò esclude, sotto altro concorrente profilo, anche il fondamento della doglianza avanzata dall’appellante per la mancata ammissione di prove testimoniali e della consulenza tecnica d’ufficio: non solo dall’esame del ricorso di primo grado risulta che le circostanze in relazione alle quali è stata articolata la prova testimoniale sono del tutto generiche e quindi inidonee a fondare il convincimento del giudicante, per quanto esse fanno riferimento (paragrafi XV, XVI e XVII del ricorso di primo grado) a fatture versate in atti di cui i primi giudici hanno poi effettivamente tenuto conto.

Nessuna violazione dell’attività difensiva, sotto il profilo della predisposizione dell’adeguata attività istruttoria, vi è stato, non mancando di segnalarsi che, come del resto confermato da un consolidato indirizzo giurisprudenziale, con riferimento alle domande risarcitorie nel giudizio amministrativo non trova applicazione il principio acquisitivo delle prove da parte del giudizio, essendo preciso onere della parte istante provare puntualmente il danno e la sua entità, ai sensi dell’art. 2697 C.C.; ciò senza contare che la consulenza tecnica d’ufficio non è neppure un mezzo di prova, ma uno strumento di valutazione della prova eventualmente già fornita, così che anche la sua mancata ammissione non può avere in alcun modo inficiato la sentenza impugnata.

4.4. L’appellante ha poi lamentato il mancato riconoscimento di qualsiasi somma a titolo di risarcimento del danno per lucro cessante, rilevando che esso era stato individuato "in termini di perdita di utile negli anni a seguire, anche alla luce della preesistenza di un altro esercizio bar nel medesimo locale", nonché in generale in ragione della considerazione che "…qualsiasi attività commerciale allocata in pieno centro cittadino, aperta dal ricorrente e abusivamente chiusa dalla P.A., non poteva non produrre utile"; anche con riguardo a tale profilo i primi giudici avevano inopinatamente respinto le richieste istruttorie debitamente avanzate.

A sostegno della pretesa l’appellante ha prodotto fatture concernenti l’acquisto di prodotti tipici dell’attività di bar, la cui presenza nel locale al momento della illegittima chiusura risultava anche dal relativo verbale, ed ha depositato anche copia del registro dei corrispettivi relativo al periodo marzo/ giugno 1993, da cui emergeva un significativo incasso complessivo di circa 30 milioni)

La doglianza non può trovare accoglimento.

Come correttamente rilevato dai primi giudici, senza che sul punto vi sia stata alcuna puntuale critica da parte dell’appellante, non è stata fornita alcuna prova dell’effettivo avviamento che sarebbe stato conseguito dal precedente gestore del locale, non risultando neppure che il sig. G. F. sia effettivamente subentrato nella gestione del precedente esercizio.

Né a tanto può supplire la prova testimoniale articolata nel ricorso di primo grado che non solo è del tutto generica (paragrafo XVII del ricorso), per quanto smentisce addirittura la tesi dell’appellante, ammettendo che la precedente attività di bar era cessata un anno prima (il che esclude in radice la continuità dell’attività commerciale, presupposto imprescindibile dell’invocato avviamento, così che la decisione dei giudici di prime cure anche sotto tale profilo appare immune da qualsiasi censura.

Né in mancanza di prova sull’avviamento o quanto meno di elementi indiziari sulla sua entità poteva essere disposta una consulenza tecnica d’ufficio, non essendo questa, come già ricordato, un mezzo di prova.

D’altra parte le prove offerte in sede di appello dall’interessato a sostegno della domanda, indipendentemente dalla loro rilevanza e dalla loro pertinenza (essendo utili sotto il diverso profilo del danno emergente piuttosto che del lucro cessante), sono inammissibili, trattandosi di prove nuove, in quanto non prodotte nel giudizio di primo grado, vigendo anche nel processo amministrativo il principio del divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova in appello, sancito dall’art. 345 c.p.c., che riguarda anche le prove cd. precostituite, quali i documenti, la cui produzione è subordinata, alla pari delle prove cd. costituende, alla verifica della sussistenza di una causa non imputabile, che abbia impedito alla parte di esibirli in primo grado, ovvero alla valutazione della loro indispensabilità (C.d.S., sez. IV, 12 ottobre 2010, n. 7440), divieto peraltro confermato anche dall’art. 104, comma 2, c.p.a.

Peraltro è appena il caso di rilevare che ai fini dell’accoglimento della domanda di risarcimento del danno da lucro cessante è necessaria la prova, ancorché anche presuntiva, dell’esistenza di elementi oggettivi e certi dai quali desumere con ragionevole certezza o quanto meno con elevata probabilità, la sussistenza di un pregiudizio economicamente valutabile, non essendo sufficiente elementi o indizi presuntivi di mera potenzialità (Cass. civ., sez. III, 11 maggio 2010).

4.5. Infine non può essere accolta neppure la richiesta di risarcimento dei danni morali ed esistenziali, asseritamente subiti in conseguenza del comportamento illegittimo serbato dall’amministrazione.

Secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, infatti, anche il danno non patrimoniale, costituendo in ogni caso un danno – conseguenza del fatto illecito, deve essere specificamente allegato e provato ai fini risarcitori (tra le tante, Cass. civ. III, 8 ottobre 2007, n. 20987; 4 luglio 2007, n. 15131).

Nel caso di specie l’interessato, oltre alla generica ed apodittica affermazione di essere stato danneggiato dal comportamento tenuto dall’amministrazione e di aver subito perciò patimenti determinati dalla necessità di doversi difendere le sue ragione nelle sedi giudiziarie anche penali, con discredito anche della sua reputazione, non ha puntualmente provato né il danno morale soggettivo (consistente nel mero dolore o patema d’animo interiore), né il danno esistenziale (consistente nella modifica peggiorativa della personalità cui consegue uno sconvolgimento delle sue abitudini di vita, con alterazione del modo di rapportarsi con gli altri nell’ambito della comune vita di relazione, sia all’interno che all’esterno del nucleo familiare).

5. In conclusione l’appello deve essere accolto, nei limiti di cui in motivazione.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull’appello proposto dal signor G. F. avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sez. II, n. 1070 dell’11 maggio 1994, lo accoglie nei sensi di cui in motivazione e per l’effetto, in parziale riforma della stessa, condanna il Comune di Crotone al pagamento in favore del sig. G. F. a titolo di risarcimento del danno della somma di Euro. 24.890,64, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, oltre alle somme già riconosciute dalla sentenza impugnata.

Condanna altresì l’amministrazione comunale di Crotone al pagamento in favore dell’appellante del pagamento delle spese del doppio grado di giudizio che liquida complessivamente in Euro. 5.000,00 (euro cinquemila).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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