Cass. pen., sez. I 26-02-2007 (06-02-2007), n. 7970 Premeditazione – Elementi – Fattispecie in tema di associazione a delinquere di stampo mafioso.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 14 giugno 2006 il gup del Tribunale di Bari, all’esito di giudizio abbreviato, dichiarava:
1) F.A. colpevole dei delitti di associazione per delinquere di stampo mafioso (capo a: art. 416 bis c.p., commi 2, 3, 4), commesso in (OMISSIS) dal 24 giugno 2002 al 23 maggio 2003, in esso compresa l’aggravante dell’associazione annata contestata in fatto ex art. 416 bis c.p., comma 4, e, per l’effetto, in esso assorbita l’imputazione di detenzione e porto aggravato di armi comuni da sparo (capo q: art. 110 c.p., L. n. 497 del 1974, artt. 10, 12 e 14, L. n. 895 del 1967, artt. 2 e 4, L. 203 del 1991, art. 7), nonchè dei reati di tentato omicidio aggravato (capo I, artt. 56, 575 c.p., art. 577 c.p., comma 1, n. 3, L. n. 203 1991, art. 7), commesso in Foggia il giorno 1 aprile 2003, e di quello previsto dall’art. 678 c.p (capo r) e, ritenuta la continuazione tra gli stessi, tenuto conto dell’aggravante di cui alla L. n. 203 1991, art. 7 e della diminuente per la scelta del rito, lo condannava alla pena di anni dodici di reclusione;
2) F.E. colpevole del delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso (capo a) e, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche dichiarate equivalenti alle contestate aggravanti e della diminuente per la scelta del rito, lo condannava alla pena di anni quattro di reclusione;
3) F.G. colpevole dei delitti di associazione per delinquere di stampo mafioso (capo a: art. 416 bis c.p., commi 2, 3, 4), commesso in Foggia dal 24 giugno 2002 al 23 maggio 2003, in esso compresa l’aggravante dell’associazione armata contestata in fatto ex art. 416 bis c.p., comma 4, e, per l’effetto, in esso assorbita l’imputazione di detenzione e porto aggravato di armi comuni da sparo (capo q: art. 110 c.p., L. n. 497 del 1974, artt. 10, 12, 14, L. n. 895 del 1967, artt. 2 e 4, L. n. 203 del 1991, art. 7), nonchè dei reati di tentato omicidio aggravato (capo 1^, artt. 56 e 575 c.p., art. 577 c.p., comma 1, n. 3, L. n. 203 1991, art. 7), commesso in Foggia il giorno 1 aprile 2003, detenzione e spaccio continuato aggravato di sostanze stupefacenti (artt. 110, 112, 81 cpv. c.p., D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 4, (capo g1), commesso in Foggia dal settembre 2002 al maggio 2003, tentata estorsione continuata aggravata (capi i1, m1, s1, z1, h2,: artt. 81 cpv, 110, 56 c.p. e art. 629 c.p., comma 2 in relazione all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1 e 3, L. n. 203 del 1991, art. 7), commessi in (OMISSIS) il 9, 10, 15 luglio 2002, il 27 dicembre 2002, tra la fine di dicembre 2002 e i primi di gennaio 2003, il 2 e il 21 gennaio 2003, dal 13 febbraio sino al 6 marzo 2003, il 24 marzo 2003, estorsione consumata (capi p2 e n2 artt. 10, 81 cpv. e 629 c.p. in relazione all’art. 628 c.p., comma 3, nn. 1 e 3, L. n. 203 del 1991, art. 7), commesso in (OMISSIS) dal 5 febbraio 2002 al 17 marzo 2003 e, inoltre, sino al 13 maggio 2003, danneggiamento aggravato (capi k1, o1, i1 art. 110 c.p., art. 61 c.p., n. 2, art. 635 c.p., commi 1 e 2, n. 1, L. n. 203 del 1991, art. 7), commessi in (OMISSIS) il 9 e il 10 luglio 2002, il 18 e il 25 febbraio 2003, detenzione e porto continuato aggravato di armi comuni da sparo (capi n1, z1, h2, m2, r2 art. 110 c.p., art. 61 c.p., n. 2, L. n. 497 del 1974, artt. 10 e 12, L. n. 203 del 1991, art. 7), commessi in (OMISSIS) il 18, 25 febbraio 2003, il 27 dicembre 2002, il 2 e il 21 gennaio 2003, il 10 aprile 2003 e, ritenuta la continuazione tra gli stessi, previa concessione di circostanze attenuanti generiche dichiarate equivalenti, tenuto contro dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 e della diminuente del rito, lo condannava alla pena di anni quattordici di reclusione.
Dichiarava, inoltre, F.A. e F.G. interdetti in perpetuo dai pubblici uffici, nonchè in stato di interdizione legale durante la pena e ordinava che, a pena espiata, essi venissero sottoposti alla libertà vigilata per anni tre.
Dichiarava, infine, F.E. interdetto dai pubblici uffici per anni cinque.
2. Con sentenza del 14 giugno 2006 la Corte d’assise d’appello di Bari, in parziale riforma della sentenza del gup appellata dagli imputati, dichiarava non doversi procedere nei confronti di F.A., F.E., F. G. in ordine al delitto di cui all’art. 416 bis c.p. (capo a), perchè l’azione penale non poteva essere esercitata per preesistente giudicato, riduceva la pena inflitta a F.A., esclusa l’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7 contestata in relazione alla contravvenzione di cui all’art. 678 c.p. (capo r), ad anni otto e mesi otto di reclusione; riduceva la pena inflitta a F.G. ad anni dieci e mesi otto di reclusione.
Confermava nel resto la decisione impugnata.
I giudici d’appello stralciavano dal processo la posizione di S., assolto in primo grado, nei cui confronti il pubblico ministero aveva proposto appello, divenuto inammissibile in conseguenza dell’entrata in vigore della L. n. 46 del 2006 in ordine alla quale veniva sollevata questione di legittimità costituzionale.
3. La sentenza di secondo grado osservava che, in ordine al delitto di cui all’art. 416 bis c.p., contestato agli odierni ricorrenti, sussisteva la preclusione di cui all’art. 649 c.p.p., attesa l’identità dei fatti (intesi come elementi costitutivi del reato), considerati non solo nella loro dimensione storico-naturalistica, ma anche in quella giuridica, contestati nell’ambito del presente processo, denominato "araba fenice", conclusosi con la loro assoluzione, e quelli oggetto di precedente decisione del gup di Bari del 5 aprile 2004 (irrevocabile il 28 ottobre 2004, c.d. proc. "doublè edge"), riguardante la contestazione del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., commesso in un più ampio lasso di tempo a partire dal settembre 1998, dopo l’omicidio di F.M., padre degli odierni ricorrenti F.A. ed F.E., verificatosi in Foggia il 22 gennaio 1998, che segnava l’inizio di una serie di gravi fatti di sangue, riconducigli alla contrapposizione tra due "batterie" facenti capo all’associazione di stampo mafioso denominata "società", l’una capeggiata dal trio T. – M. – P. e l’altra a P.A.V..
Ad avviso dei giudici la contestazione "aperta" effettuata nel processo "doublè edge" e, quindi, estesa, alla luce dei principi elaborati dalla giurisprudenza, ai fatti commessi sino al 5 aprile 2004 (data della decisione di primo grado), era comprensiva dei fatti contestato nel presente processo, attesa l’identità della struttura criminale denominata "società" e del contesto operativo, della suddivisione della stessa in sottogruppi dotati di relativa autonomia e denominati "batterie", dell’esistenza di un conflitto tra la batteria capeggiata dal trio T. – M. – P. e quella che vedeva la partecipazione dei F., dell’oggetto del programma, delle modalità di gestione degli illeciti, della sua composizione, del programma criminoso nonchè l’identità dei reati fine.
Ad avviso dei giudici, alla luce dei principi giurisprudenziali, non potevano considerarsi elementi ostativi al riconoscimento dell’ipotesi di cui all’art. 649 c.p.p. la non perfetta coincidenza nella composizione soggettiva dei due sodalizi e il diverso ruolo contestato ai F. nei due processi.
I giudici ritenevano provata la responsabilità degli imputati in ordine ai restanti reati in precedenza indicati sulla base del contenuto delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, ritenute univocamente indicative della commissione degli illeciti e del coinvolgimento nella consumazione degli stessi, dell’esito dei sequestri operati che consentivano il rinvenimento di armi e di materie esplodenti, delle dichiarazioni rese dalle persone offese dai reati in ordine alle modalità di svolgimento dei fatti, degli esiti dei sopralluoghi effettuati in occasione dei singoli fatti di sangue e delle azioni di danneggiamento, prodromiche e funzionali alla commissione delle estorsioni, degli accertamenti svolti sui tabulati e sulle schede prepagate utilizzate per effettuare, tramite cabine pubbliche, telefonate estorsive, delle dichiarazioni rese da M.P., sentimentalmente legata a F.G., delle sentenze acquisite ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p.;
4. Avverso la sentenza della Corte d’assise d’appello di Bari hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Bari e, tramite i rispettivi difensori di fiducia, gli imputati.
Il Procuratore generale lamenta mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta preclusione ex art. 649 c.p., con riferimento alla imputazione di cui all’art. 416 bis c.p., avendo la Corte territoriale omesso di apprezzare la diversità delle compagini associative, indicative di un pactum sceleris stretto tra persone differenti, eccezion fatta per F.G., F.E., F. A. e S.F., la diversità di direzione dei rispettivi gruppi criminali, di organizzazione gerarchica, la diversità dei responsabili dei depositi delle armi e della gestione della cassa comune, nonchè la circostanza che l’associazione contestata nel presente processo ebbe a costituirsi autonomamente, pur derivando dalla struttura associativa denominata "Società", proprio all’indomani dell’arresto dei componenti la "batteria" capeggiata da T., M., P., imponendosi nella città di Foggia e procedendo alla sistematica eliminazione di tutti coloro che facevano parte o, comunque, erano prossimi alla anzidetta frangia malavitosa, molti dei quali venivano eliminati.
F.G. e F.A. formulano doglianze comuni che possono essere così sintetizzate:
a) carenza, manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza della responsabilità degli imputati per tutti i delitti per cui è intervenuta l’affermazione di penale responsabilità, alla configurabilità, quanto al delitto di cui al capo I (tentato omicidio in danno di B.R. e B. G.), della volontà omicida, del mandato omicidiario, della premeditazione, alla luce della valenza non univoca e obiettiva del contenuto delle intercettazioni, caratterizzate da riferimenti contraddittori o criptici e prive di ulteriori elementi di riscontro;
b) contraddittorietà e illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 alla luce della ritenuta preclusione ex art. 649 c.p.p. in ordine al reato associativo in relazione al quale gli imputati erano stati in precedenza assolti dal gup del Tribunale di Bari;
c) inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni per violazione del disposto dell’art. 268 c.p.p., comma 3, applicabile anche alle intercettazioni ambientali, essendo i decreti emessi dal pubblico ministero privi della prescritta motivazione in ordine alle ragioni d’urgenza e a quelle derogatorie nell’utilizzo di impianti diversi da quelli in dotazione della Procura e non potendo ritenersi equipollente alla mancata motivazione la mera attestazione di cancelleria apposta sul retro del provvedimento esecutivo del pubblico ministero in ordine alla indisponibilità di linee ed apparecchiature libere;
d) violazione di legge, difetto, contraddittorietà e illogicità della motivazione con riferimento ai canoni di valutazione della prova ex art. 192 c.p.p., non potendo le sole intercettazioni, suscettibili di differenti interpretazioni, fondare un giudizio di penale responsabilità;
e) violazione di legge, difetto, contraddittorietà e illogicità della motivazione con riferimento al trattamento sanzionatorio, in quanto, all’esito dell’aumento di pena conseguente al riconoscimento dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 si sarebbe dovuto procedere alla diminuzione di un terzo della pena per effetto delle applicate delle circostanze attenuanti generiche che, in ogni caso, avrebbero dovuto essere dichiarate prevalenti.
F.G. lamenta, inoltre, violazione dell’art. 474 c.p.p, art. 147 bis disp. att. c.p.p., con conseguente nullità ex art. 178 c.p.p., lett. c), avuto riguardo alle cattive condizioni tecniche di espletamento dei collegamenti in videoconferenza con conseguente impossibilità dell’imputato di seguirlo in maniera concentrata e continuativa e ovvi riflessi sull’effettivo esercizio del diritto di difesa.
OSSERVA IN DIRITTO
1. Il ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte d’appello di Bari nei confronti di F.A., F.E., F.G. non è fondato.
La preclusione del ne bis in idem sussiste soltanto se si verte in ordine ad un unico fatto il quale dia origine ad una pluralità di procedimenti penali. Per accertare se il fatto in esame sia il medesimo nei diversi procedimenti occorre verificare se vi sia coincidenza degli elementi costitutivi del fatto, identificabili nella condotta, nell’evento, nel nesso di causalità. Sicchè, allorquando vi sia ripetizione della condotta in tempi diversi, ancorchè violatrice della stessa norma, la diversità della condotta esclude che possa esserci ostacolo alla instaurazione di un nuovo procedimento per il comportamento successivo (Cass. 13 giugno 1991, ric. Fiascone; Cass, 15 aprile 1994, ric. Matrone; Cass. 18 aprile 1995, ric. Lazzaroni; Cass. 8 novembre 1996, ric. Privitera).
Per medesimo fatto deve, quindi, intendersi identità degli elementi costitutivi del reato, e cioè di condotta, evento e nesso di causalità considerati non solo nella loro dimensione storico naturalistica (Sez. Un. 28 giugno 2005, n. 34665), ma anche in quella giuridica, potendo una medesima condotta violare contemporaneamente più disposizioni di legge (Cass. 23 ottobre 2000, ric. Fumo; Cass. 18 gennaio 2005, n. 8697).
In tema di reati permanenti – quale nel caso in esame il delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso – costituisce fatto diverso, ai fini della preclusione del giudicato, quello che, pur violando la stessa norma ed integrando gli estremi dello stesso reato, rappresenta l’ulteriore estrinsecazione dell’attività del soggetto, diversa e distinta nello spazio e nel tempo da quella posta in essere in precedenza e accertata con sentenza irrevocabile.
L’effetto interruttivo della permanenza del reato deve ricollegarsi alla sentenza, anche non irrevocabile, che accerti la responsabilità dell’imputato, da ciò conseguendo che la porzione di condotta illecita successiva a detta pronunzia, pur non ontologicamente disgiungibile dalla precedente, rimane perseguibile a titolo di reato autonomo.
Qualora, viceversa, sia stata pronunziata assoluzione, non può ritenersi operante in virtù di tale sentenza alcun effetto interruttivo della permanenza della condotta criminosa proprio perchè è carente l’accertamento di un reato, da ciò conseguendo esclusivamente la preclusione del giudicato ex art. 649 c.p.p.;
in tale ipotesi, pertanto, il divieto di un secondo giudizio vale soltanto per i fatti verificatisi fino alla data indicata nella contestazione, indipendentemente dalla data di pronuncia della sentenza assolutoria (Cass. 14 marzo 1997, ric. Maranto; Cass. 4 ottobre 2000, ric. Drago Ferrante; Cass. 13 marzo 2001, ric. Migliorato).
Alla luce di questi principi, la sentenza impugnata ha correttamente ravvisato nel caso in esame, un’ipotesi di preclusione ex art. 649 c.p.p..
Al fine di escludere la medesimezza del fatto non rilevano, infatti, eventuali mutamenti nelle modalità di partecipazione del soggetto all’organizzazione (ruolo, attività), la diversità di articolazione del disegno criminoso, la differenza nel numero dei componenti.
E’, peraltro, riservato al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se congruamente e logicamente motivato, il giudizio in ordine all’inquadramento delle condotte poste in essere da un soggetto nel contesto di un medesimo sodalizio criminoso o alla loro riconducibilità ad una organizzazione criminale ontologicamente e strutturalmente diversa, sia pure operante con la medesima denominazione nello stesso territorio (in senso conforme Sez. 2^, 18 gennaio 2005, ric. Romito).
La sentenza impugnata, con motivazione compiuta e logicamente coordinata, ha evidenziato che i fatti ascritti nell’ambito del presente processo ai ricorrenti costituiscono l’espressione dell’operatività dell’associazione di stampo mafioso denominata "società", struttura unitaria articolata in "batterie", due delle quali, l’una diretta dal trio T. – M. – P. e l’altra capeggiata da P.A.V., annoverante tra i propri affiliati i cugini F.A., F.E., F.G., erano entrate in guerra tra di loro.
Di conseguenza, il reato associativo preso in esame dal gup del Tribunale di Bari con la sentenza del 5 aprile 2004 (irrevocabile il 28 ottobre 2004), contestato in relazione all’arco di tempo compreso tra il settembre 1988 e il 5 aprile 2004, coincide nei suoi elementi costitutivi, sia da un punto di vista storico-naturalistico che giuridico, con quello oggetto del presente processo, considerato il fatto che la sentenza del gup del Tribunale di Bari non ha ritenuto provata con certezza l’esistenza della "batteria" P., qui riproposta, quale ipotesi di accusa, nella sua dimensione autonoma e conflittuale con l’organismo unitario denominato "società" con riguardo ad un lasso temporale più ristretto e ricompreso nella precedente contestazione.
Nessuna violazione dell’art. 649 c.p.p. si è, quindi, verificata, attesa l’identità del contesto in cui si collocano le vicende esaminate nei due processi, dell’ipotizzata suddivisione dell’organizzazione mafiosa unitaria "società" in sottogruppi ("batterie") dotati di relativa autonomia, dell’esistenza del conflitto tra la batteria capeggiata dal trio T. – M. – P. e quella che vede la partecipazione dei F., dell’oggetto del programma delittuoso, tenuto altresì conto dell’irrilevanza, per le ragioni già sopra esposte, del diverso ruolo dei ricorrenti (meri partecipi nel processo ed. "double edge" e capi nel processo c.d. "araba fenice").
Anche le censure formulate dalle difese dei ricorrenti non sono fondate.
2. Logicamente pregiudiziale è l’esame della doglianze concernente l’asserita violazione dell’art. 268 c.p.p., comma 3, con conseguente inutilizzabilità delle intercettazioni ex art. 271 c.p.p..
S’impongono, in proposito, alcune premesse metodologiche.
2.1. La motivazione della sentenza impugnata è sicuramente viziata e deve, quindi, essere corretta ex art. 619 c.p.p., laddove muove dalla erronea premessa che la violazione del disposto dell’art. 268 c.p.p., comma 3 non costituisca un’ipotesi di inutilizzabilità patologica (Sez. Un. 21 giugno 2000, ric. Tammaro).
Invero le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. Un. 27 marzo 1996, ric. Monteleone; Sez. Un. 20 novembre 1996, ric. Glicora; Sez. Un. 21 giugno 2000, ric. Primavera; Sez. Un. 31 ottobre 2001, ric. Policastro) hanno costantemente stabilito che la sanzione dell’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge o senza l’osservanza delle prescrizioni stabilite dall’art. 267 c.p.p., art. 268 c.p.p., commi 1 e 3, trova applicazione non solo nel processo di cognizione, ma addirittura nel procedimento cautelare, in quanto investe l’elemento dimostrativo, probatorio o indiziario, acquisito in violazione dei divieti stabiliti dalla legge.
E’, quindi, da escludere definitivamente, anche a livello ordinamentale e in piena coerenza con le chiare indicazioni del giudice delle leggi, che i risultati delle intercettazioni illegittimamente acquisiti possano considerarsi rilevanti, non solo a fini probatori nel dibattimento e in rapporto ad ogni altra decisione da adottare nei riti alternativi negoziali, ma anche nell’udienza preliminare e nella fase delle indagini preliminari, come elementi apprezzabili per l’adozione di provvedimenti di cautela personale (cfr. in tal senso Sez. Un. 31 ottobre 2001, ric. Policastro).
2.2. Quando è dedotto, mediante ricorso per cassazione, un error in procedendo ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), la Corte di cassazione è giudice anche del fatto e per risolvere la relativa questione può – e talora deve necessariamente – accedere all’esame dei relativi atti processuali, esame che è, invece, precluso soltanto se risulti denunziata la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) (Sez. Un. 31 ottobre 2001, ric. Policastro).
2.3. La possibilità di deroga circa l’uso esclusivo di impianti installati presso la Procura della Repubblica esige, ai sensi dell’art. 268 c.p.p., comma 3, la sussistenza di due presupposti:
a) l’insufficienza o inidoneità degli impianti in dotazione del predetto ufficio giudiziario;
b) la sussistenza di eccezionali ragioni di urgenza.
Come già rilevato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. Un. 26 novembre 2003, n. 919, ric. Gatto), l’aggettivazione di tali ragioni di urgenza come "eccezionali" rende avvertiti che deve trattarsi di connotazioni più cospicue e pregnanti rispetto a quelle riferibili ai soli "casi di urgenza" di cui all’art. 267 c.p.p., comma 2, che legittimano il pubblico ministero a disporre direttamente l’intercettazione con decreto motivato soggetto poi a convalida da parte del giudice.
In presenza di questi due presupposti, a rendere legittima l’intercettazione per mezzo di impianti esterni all’ufficio giudiziario occorre, altresì, che il pubblico ministero emetta apposito decreto motivato prima dell’esecuzione delle operazioni captative (Sez. Un. 29 novembre 2005, n. 21, ric. Campennì);
occorre, cioè, un congruo apparato giustificativo dal quale possa dedursi l’iter cognitivo e valutativo seguito dall’autorità giudiziaria (Sez. Un. 21 giugno 2000, ric. Primavera).
Quanto all’inidoneità e insufficienza degli impianti captativi in dotazione all’ufficio di Procura, si è puntualizzato che la motivazione relativa ad essi non può certo limitarsi a dare atto dell’esistenza di tale situazione, ma deve specificare la ragione dell’inidoneità o dell’insufficienza, sia pure mediante un’indicazione sintetica, purchè questa non si traduca nella mera riproduzione del testo della norma, ma dia conto del fatto storico, ricadente nell’ambito dei poteri di cognizione del pubblico ministero (Sez. Un. 26 novembre 2003, ric. Gatto).
Con specifico riferimento, poi, alla indicazione delle "eccezionali ragioni di urgenza", la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto idoneo ad integrare tale parametro normativo il rinvio al passo del decreto autorizzativi del gip in ordine alla situazione criminosa in atto, di per sè indicativa della gravità del pregiudizio per le indagini che soltanto la deroga potrebbe evitare (Sez. Un. 31 ottobre 2001, n. 32, ric. Policastro; Sez. Un. 26 novembre 2003, ric. Gatto, cit.).
2.3. Alla luce dei principi sinora illustrati, nel caso in esame, il decreto emesso il 15 febbraio 2003 dal pubblico ministero, nel disporre l’esecuzione della intercettazione ambientali all’interno dell’autovettura Audi 6, targata (OMISSIS), e BMW 520, targata (OMISSIS), per mezzo degli impianti installati presso la sala ascolto della Comando Provinciale dei Carabinieri di Foggia:
a) richiama espressamente l’autorizzazione del giudice per le indagini preliminari in data 13 febbraio 2003, che, a sua volta, fa riferimento alla richiesta formulata dal pubblico ministero in pari data, in cui, premesso che era in corso una serie di attività intimidatorie in danno di vari imprenditori edili Foggia, da inquadrare in un contesto di criminalità organizzata di stampo mafioso, si da atto della inidoneità degli impianti in possesso della Procura, attesa la necessità "di interventi operativi urgenti, da espletarsi in loco contestualmente alla captazione delle conversazioni".
Si tratta di una motivazione esistente circa l’inidoneità (e non insufficienza come dedotto dalla difesa) degli impianti in dotazione della Procura della Repubblica, perchè, attraverso il rinvio ai precedenti provvedimenti, è possibile individuare non solo la particolare urgenza delle operazioni di intercettazione, correlate all’attualità delle estorsioni in corso poste a fondamento delle intercettazioni ambientali all’interno delle autovetture (v. in tal senso richiesta del pubblico ministero del 13 febbraio 2003 e provvedimento di autorizzazione del giudice per le indagini preliminari in pari data), ma anche l’inidoneità in concreto degli impianti della Procura, data la necessità di coordinare le intercettazioni con immediati e indifferibili interventi operativi da svolgere in loco contestualmente alla captazione delle conversazioni per impedire il protrarsi delle gravi condotte delittuose in atto (v. in tal senso la richiesta di autorizzazione formulata dal pubblico ministero il 13 febbraio gennaio 2003 e la autorizzazione del gip in pari data, richiamata per relationem nel decreto esecutivo emesso il 15 febbraio 2003).
Occorre aggiungere che la motivazione per relationem, seppure discutibile sotto il profilo della chiarezza e dell’opportunità, è, per giurisprudenza consolidata (Sez. Un. 26 novembre 2003, ric. Gatto, cit.), legittima allorchè risultino rispettate le seguenti condizioni, nel caso di specie sussistenti:
a) idonea giustificazione, contenuta nel provvedimento richiamato della sussistenza di eccezionali ragioni di urgenza o dell’insufficienza o inidoneità degli impianti installati presso la Procura della Repubblica;
b) natura di atto del medesimo procedimento del provvedimento cui si fa rinvio;
c) conoscibilità o ostensibilità dell’atto richiamato al momento in cui si rende attuale l’esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed, eventualmente, di gravame, con conseguente controllo dell’organo dell’impugnazione (Sez. Un. 31 ottobre 2001, ric. Policastro).
Infine, l’inidoneità degli impianti di ascolto della Procura deve essere interpretata, in assenza di limitazioni testuali nella legge, non già restrittivamente, come mancanza dei requisiti tecnici necessari, ma come impossibilità di effettuare in modo utile e coordinato l’attività di intercettazione, secondo quanto ritualmente evidenziato nei provvedimenti in precedenza richiamati.
3. Per quanto concerne le censure difensive concernenti i vizi di violazione dei canoni di valutazione probatoria e di carenza e manifesta illogicità della motivazione, il Collegio osserva quanto segue.
Nella valutazione della prova il giudice deve prendere in considerazione ogni singolo fatto e il loro insieme non in modo parcellizzato e avulso dal generale contesto probatorio, verificando se essi, ricostruiti in sè e posti vicendevolmente in rapporto, possano essere ordinati in una costruzione logica, armonica e consonante che consenta, attraverso la valutazione unitaria del contesto, di attingere la verità processuale del caso concreto.
Le intercettazioni sia esse telefoniche che ambientali sono idonee a ricostruire il fatto da accertare, costituiscono cioè fondamento del giudizio critico complessivo che sostanzia la prova del fatto. A tal fine esse vengono recepite come parte da cui può trarsi una circostanza (premessa minore) che, sussuma nella massima di esperienza corrispondente (premessa maggiore), consente di trarre una deduzione che logicamente costituisce la verità o non verità del fatto da provare.
Nel caso di specie il contenuto delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, ritenute dai giudici di merito univocamente indicative della commissione degli illeciti e del coinvolgimento nella consumazione degli stessi, è stato criticamente letto ed apprezzato, con motivazione esaustiva e logicamente coordinata, alla luce dell’esito dei sequestri operati, che consentivano il rinvenimento di armi e di materie esplodenti funzionali tra l’altro alla consumazione delle estorsioni, delle dichiarazioni rese dalle persone offese dai reati in ordine alle modalità di svolgimento dei fatti, degli esiti dei sopralluoghi effettuati in occasione dei singoli fatti di sangue e delle azioni di danneggiamento, prodromiche alla coartazione della volontà delle parti offese in vista del versamento della tangente richiesta, degli accertamenti svolti sui tabulati e sulle schede prepagate utilizzate per effettuare, tramite cabine pubbliche, telefonate estorsive, delle dichiarazioni rese da M.P., sentimentalmente legata a F.G., delle sentenze acquisite ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p..
Occorre, poi, osservare che l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione essere limitato, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni. Allorchè sia denunciato con ricorso per cassazione vizio di motivazione del provvedimento impugnato, a questa Corte spetta, quindi, il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni poste a fondamento della decisione adottata, controllando la congruenza della motivazione, riguardante la valutazione degli elementi apprezzati rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano la valutazione delle risultanze processuali (Sez. Un. 2.5.2000, n. 11, riv. 215828).
Il controllo della Corte di legittimità non concerne nè la ricostruzione dei fatti nè l’apprezzamento del giudice di merito, essendo inammissibile in sede di legittimità la prospettazione di una diversa valutazione di circostanze già esaminate dal giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile:
1) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato;
2) l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Sez. 6^, 1.2.1999, n. 3529, riv. 212565; Sez. 6^, 24.10.1996, n. 2050, riv. 206104).
Esula, pertanto, dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. Un. 2.7.1997, n. 06402, ric. Dessimone ed altri, riv. 207944; Sez. Un. 12.12.1994, n. 19, riv. 199391).
L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento (Sez. Un. 16.12.1999, n. 00024, ric. Spina, riv. 214794). Dedurre tale vizio in sede di legittimità significa dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Sez. Un. 22.10.1996, n. 00016, ric. Di Francesco, riv. 205621).
In sede di legittimità sono, pertanto, rilevabili esclusivamente i vizi argomentativi che incidano sui requisiti minimi di esistenza e di logicità del discorso motivazionale svolto nel provvedimento e non sul contenuto della decisione (Sez. 1^, 14.3.1998, n. 1083, riv.
210019).
In altri termini il controllo di questa Corte è diretto semplicemente ad accertare che a base della pronuncia esista un concreto apprezzamento delle risultanze e che la motivazione non sia puramente assertiva o palesemente affetta da errori logico-giuridici;
restano escluse da tale sindacato le deduzioni che riguardano l’interpretazione e la specifica consistenza dei fatti, la valutazione comparativa della loro rilevanza, la scelta di quelli determinanti.
Nel caso in esame la sentenza impugnata, con motivazione esente da vizi logici e giuridici ha diffusamente spiegato, con riguardo alle posizioni dei ricorrenti, gli elementi su cui ha fondato l’affermazione di penale responsabilità in ordine ai reati in precedenza specificati, costituiti:
a) dalle risultanze delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, contenenti chiari e univoci riferimenti ai delitti contro la persona (tentato omicidio in danno di B.R. e B.G., costituente l’immediata e mirata risposta all’agguato in precedenza perpetrato ad opera delle due parti offese, il 31 marzo 2003, in danno di V.F.), in materia di armi, ai reati contro il patrimonio (estorsioni), nonchè nel settore degli stupefacenti;
b) dall’esito dei sequestri operati, che consentivano il rinvenimento di armi e di materie esplodenti;
c) dalle dichiarazioni rese dalle persone offese che, pur non fornendo indicazioni sull’identità degli autori dei fatti a causa del diffuso clima di intimidazione e di omertà, riferivano in merito alle modalità di svolgimento degli episodi criminosi subiti;
d) dalle risultanze dei sopralluoghi effettuati in occasione dei singoli fatti di sangue e delle azioni di danneggiamento, prodromiche e funzionali alla commissione delle estorsioni, che permettevano di riscontrare il contenuto dei dialoghi intercettati;
e) dagli accertamenti esperiti sui tabulati e sulle schede prepagate utilizzate per effettuare, tramite cabine pubbliche, telefonate estorsive, elementi idonei a confortare le altre emergenze processuali in ordine ai rapporti intercorrenti tra gli imputati, agli obiettivi delittuosi da essi perseguiti ed effettivamente posti in essere;
f) dalle dichiarazioni rese da M.P., sentimentalmente legata a F.G., rilevanti per la ricostruzione degli spostamenti sul territorio nazionale dell’imputato, quali emergenti dal tenore delle conversazioni captate;
g) dalle sentenze acquisite ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p., contenenti la articolata ricostruzione delle dinamiche criminali operanti prevalentemente in territorio di Foggia e provincia sul cui sfondo devono essere collocate le vicende oggetto del presente processo.
Nessuna censura può essere mossa alla sentenza anche per quanto riguarda l’apprezzamento delle risultanze processuali e l’impianto motivazionale con riferimento alla prova del dolo omicida, normalmente e prevalentemente affidata alle peculiarità estrinseche dell’azione criminosa, aventi valore sintomatico in base alle comuni regole di esperienza, quali il comportamento antecedente e susseguente al reato, la natura del mezzo usato, le parti del corpo della vittima attinte, la reiterazione dei colpi, nonchè tutti quei dati che, secondo l’id quod plerumque accidit, abbiano un valore sintomatico.
I giudici di merito hanno fatto corretta applicazione di questi principi e con riguardo al duplice tentato omicidio B., valorizzando, con motivazione compiuta e logica, quali elementi sintomatici della volontà omicidiaria, aggravata dalla premeditazione, la puntigliosa indagine volta ad identificare i responsabili dell’agguato in danno di V.F., individuati nei due B., la meticolosa preparazione dell’agguato a mano armata nelle circostanze di tempo e di luogo ottimali, la predisposizione di un ciclomotore di grossa cilindrata destinato ad essere utilizzato dagli esecutori materiali e ad essere sostituito dopo l’azione con un mezzo "pulito", il reperimento degli esecutori in un diverso contesto territoriale al fine rendere più difficile la individuazione dei mandanti e di non destare sospetti nelle guardinghe parti offese.
La sentenza ha, inoltre, individuato le ragioni del fallito agguato da ricercare nell’inceppamento dell’arma e nella condotta del conducente della moto che ebbe a fermarsi lontano dalle vittime designate, presenti sul luogo del fatto come riferito dal teste D.G., dando così alle stesse la possibilità di avvedersi dell’agguato e di fuggire rapidamente a bordo della loro autovettura.
La causale, l’anticipata manifestazione del proposito, la ricerca dell’occasione propizia, la accurata preparazione dell’agguato costituiscono altrettanti fatti estrinseci e sintomatici della premeditazione per la cui sussistenza sono necessari due elementi:
uno, ideologico o psicologico, consistente nel perdurare nell’animo del soggetto, senza soluzione di continuità fino alla commissione del reato, di una risoluzione criminosa ferma ed irrevocabile;
l’altro, cronologico, rappresentato dal trascorrere fra l’insorgenza e l’attuazione di tale proposito di un intervallo di tempo apprezzabile, la cui consistenza minima non può essere in astratto rigidamente quantificata, ma deve risultare in concreto sufficiente a far riflettere l’agente sulla decisione presa e a consentire il prevalere dei motivi inibitoli su quelli a delinquere (Sez. 1^, 3.10.1997, n. 08974, ric. Ogliari, riv. 208471; Sez. 1^, 21.6.2001, n. 25221, ric. Muratore, riv. 219966; Sez. 1^, 14.4.1999, n. 04678, ric. Ventra, riv. 213018).
Alla stregua di questi parametri e degli elementi i precedenza enunciati il provvedimento impugnato è esente dai vizi denunciati, laddove ha ritenuto indubbia la configurabilità della premeditazione consistente in una particolare intensità del dolo, nella risoluzione criminosa, che permane ferma nell’animo dell’agente per un apprezzabile periodo di tempo e fino alla commissione del reato (Sez. 1^, 27.2.1998, n. 02586, ric. Di Pinto, riv. 209957).
4. Non fondata è anche la doglianza riguardante l’erroneo riconoscimento dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 avendo i giudici di merito correttamente evidenziato, mediante il puntuale richiamo alle emergenze di fatto, in quanto tali insindacabili in sede di legittimità, che i reati commessi dai ricorrenti costituivano l’espressione di una più ampia vicenda associati va (per la quale è intervenuta sentenza di condanna irrevocabile nei confronti dei correi dei F. in relazione al delitto di cui all’art. 416 bis c.p.), caratterizzata dalla ricerca del predominio territoriale incontrastato nella zona di Foggia e provincia, anche mediante il ricorso a forme di violenza su persone e cose e di intimidazione, all’eliminazione di gruppi avversari e al conseguimento di utili illeciti ed erano funzionali al rafforzamento del sodalizio di stampo mafioso.
5. Relativamente alla violazione dell’art. 474 c.p.p. e art. 147 bis disp. att. c.p.p., con conseguente nullità ex art. 178 c.p.p., lett. c), avuto riguardo alle cattive condizioni tecniche di espletamento della videoconferenza che non avrebbero consentito all’imputato F.G. di partecipare in maniera proficua al dibattimento e di esercitare compiutamente i suoi diritti di difesa, il Collegio osserva che si tratta di una doglianza formulata in maniera assolutamente aspecifica. Manca, infatti, qualsiasi obiettivo riferimento alle udienze in cui il sistema di videoconferenza avrebbe presentato problemi, all’assunzione della prova la cui formazione e acquisizione sarebbe stata in tal modo pregiudicata, alla durata della asserita interruzione del collegamento, nonchè ai profili di mancata osservanza di quanto disposto dall’art. 147 bis disp. att. c.p.p..
6. Non meritano, infine, accoglimento le censure relative alle modalità del computo della pena e al complessivo trattamento sanzionatorio.
La circostanza aggravante ad effetto speciale prevista dalla L. n. 203 del 1991, art. 7 non è soggetta al giudizio di comparazione delle circostanze previsto dall’art. 69 c.p., stante l’obbligatorietà dell’aggravamento della sanzione allorchè ricorrano le condizioni per la sua applicazione. Pertanto, le circostanze attenuanti genetiche eventualmente riconosciute rientrano nel giudizio di comparazione con le altre, diverse aggravanti eventualmente contestate.
Alla luce di questi principi il provvedimento impugnato è esente dal vizio denunciato, in quanto correttamente i giudici d’appello hanno ritenuto che il giudizio di equivalenza delle circostanze attenuanti generiche debba operare rispetto alle aggravanti diverse da quella ad effetto speciale disciplinata dalla L. n. 203 del 1991, art. 7.
Nessuna censura può poi essere mossa alla motivazione della sentenza nella parte in cui, in conformità con i principi costantemente affermati dalla giurisprudenza di legittimità ha negato il giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche, tenuto conto della gravità dei reati commessi, del loro elevato numero, del contesto di criminalità organizzata di stampo mafioso in cui essi si collocano.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi.
Condanna i ricorrenti F.A. e F. G. in solido al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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