Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 29-03-2011) 01-08-2011, n. 30480 Associazione per delinquere

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza dell’8.10.2010 il Tribunale di Perugia, decidendo quale giudice del riesame, confermava il provvedimento emesso dal Gip dello stesso tribunale, in data 1.9.2010, con il quale era stata applicata a X.S. la misura cautelare della custodia in carcere, in relazione al reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, commesso dal (OMISSIS).

Premetteva il Tribunale che il Gip non aveva applicato la misura con riferimento al reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commesso il (OMISSIS), contestato al capo b), atteso che in relazione a tale episodio l’indagato era stato tratto in arresto il 12.1.2009 e sottoposto alla misura cautelare in carcere, nonchè giudicato in primo grado quando già erano decorsi i termini di custodia cautelare.

Gli indizi in ordine alla esistenza del sodalizio contestato venivano tratti dagli elementi acquisiti attraverso intercettazioni telefoniche alle quali si erano accompagnati servizi di osservazione e pedinamento della polizia giudiziaria che avevano condotto agli arresti di alcuni dei ventiquattro indagati ed al sequestro di quantitativi elevati di cocaina e marijiana, fatti contestati ai capi da b) ed n) quali reati fine dell’associazione. Era emerso, quindi, un compendio indiziario compiuto in ordine alla esistenza di un gruppo di soggetti albanesi, con distinzione di compiti, che operava tra l’Italia, il Belgio e l’Albania ed organizzava operazioni di importazione di stupefacenti destinati al commercio in varie piazze.

Il ricorrente, in specie, veniva tratto in arresto, a seguito di quanto emerso da conversazioni intercettate, per aver partecipato in concorso con altri coindagati alle transazioni relative all’acquisto e trasporto dal Belgio di kg. 1 di cocaina; nonchè a quelle relative al trasporto di kg. 1,750 di cocaina.

Quanto alla doglianza difensiva relativa alla violazione della disciplina dell’art. 297 cod. proc. pen., comma 3, il Tribunale, richiamando le argomentazioni del Gip, rilevava: a) che se è vero che all’indagato è stata applicata la misura cautelare in carcere con ordinanza del 9.6.2010 in relazione al reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, contestato dal luglio 2007 con condotta perdurante, tuttavia, la stessa era stata emessa in procedimento diverso, si trattava di altra associazione composta da soggetti diversi da quelli cui si riferisce la contestazione in esame; b) che con riferimento alla misura già applicata all’indagato il 12.1.2009 per lo specifico episodio contestato al capo b), l’art. 297 cod. proc. pen., comma 3, non trova applicazione riferendosi la misura in esame al reato associativo che si è protratto oltre la data in cui è stata emessa la prima misura (marzo 2010), quindi non è anteriore alla emissione di detta misura.

Avuto riguardo alle esigenze cautelari, il Tribunale affermava la sussistenza del pericolo di fuga, di reiterazione delle condotte e di inquinamento probatorio, evidenziando il carattere permanente del vincolo associativo, la capacità di muoversi sul territorio e di mantenere contatti con l’estero ove dimorano alcuni sodali, l’esigenza di individuare tutti i canali di approvvigionamento degli stupefacenti.

2. Avverso il citato provvedimento l’indagato ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia.

2.1. Con il primo motivo di ricorso deduce la violazione della disciplina dell’art. 297 cod. proc. pen., comma 3, ed il vizio di motivazione in ordine alla mancata dichiarazione della perdita di efficacia della misura cautelare impugnata per decorrenza dei termini di fase, versandosi in ipotesi di cd. contestazione a catena.

Lamenta, in primo luogo, l’erronea valutazione – sulla base della documentazione prodotta – della insussistenza dei presupposti per l’applicazione della disciplina della contestazione a catena tra la misura oggetto di impugnazione e quella applicata all’indagato il 9.6.2010 in ordine al reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 commesso dal luglio 2007 con condotta perdurante, sussistendo, ad avviso del ricorrente, la connessione tre le due contestazioni riferite a condotte omogenee, commesse in epoca contigua.

Contesta, quindi, la valutazione del Tribunale in ordine all’applicabilità della richiamata disciplina con riferimento alla misura cautelare alla quale l’indagato è stato sottoposto il 12.1.2009 per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 (per il quale è stato anche separatamente giudicato) indicato tra i reati fine dell’associazione illecita contestata con la successiva misura cautelare applicata l’1.9.2010. Evidenzia, in specie, che la connessione qualificata tra i due reati contestati viene riconosciuta dallo stesso Gip nell’ordinanza genetica e rileva, quanto al protrarsi della condotta associativa in epoca successiva alla data di emissione della prima misura cautelare, che il Tribunale ha apoditticamente escluso che, in mancanza di elementi contrari, lo stato detentivo dell’indagato da gennaio 2009 ad ottobre 2010 sia valso ad interrompere i rapporti con il sodalizio. Infatti, l’indagato è rimasto ristretto in carcere dal 12.1.2009 al 15.7.2009, data in cui la misura veniva sostituita con quella degli arresti domiciliari alla quale restava sottoposto sino all’11.1.2010, quando veniva scarcerato per scadenza dei termini di fase; a giugno 2010 veniva nuovamente sottoposto alla custodia in carcere sino ad ottobre 2010; nè Il ricorrente risulta coinvolto in fatti ulteriori successivi al gennaio 2009; anche nelle informazioni acquisite nel procedimento di sorveglianza, per l’affidamento in prova al servizio sociale, si dava atto della presa di distanza del ricorrente dalla precedente condotta e si escludevano collegamenti dello stesso con ambienti malavitosi. Pertanto, l’immanenza del sodalizio criminoso affermata dal Tribunale è fondata esclusivamente su congetture.

Si aggiunge, altresì, che sin dal momento dell’emissione della ordinanza di applicazione della prima misura cautelare dagli atti emergevano con tutta evidenza i fatti posti a fondamento della seconda misura come si rileva dall’annotazione della polizia giudiziaria del 14.9.2009 nella quale si da atto che sin dall’inizio le indagini (2008) erano finalizzate a disarticolare un sodalizio di etnia albanese attivo nel traffico di stupefacenti.

2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla sussistenza delle esigenze cautelari ed alla adeguatezza della misura della custodia in carcere. La motivazione del Tribunale sul punto è caratterizzata da genericità ed indeterminatezza riferendosi a tutti gli indagati e non alla pericolosità del singolo. In specie, non è stato valutato come, contrariamente a quanto affermato nell’ordinanza impugnata, risulti accertata la mancanza di contatti con i sodali; come l’indagato sia stabilmente inserito e radicato sul territorio nazionale il che contrasterebbe con l’asserito pericolo di fuga; come sia ormai insussistente un pericolo di inquinamento probatorio trattandosi di indagini iniziate nel 2008; come il Gip avesse già valutato, per la precedente misura cautelare, l’entità delle esigenze di cautela sostituendo la misura della custodia in carcere con quella dell’obbligo di dimora.

Motivi della decisione

1. Il primo motivo di ricorso è infondato.

Va premesso, invero, che secondo un indirizzo prevalente la perdita di efficacia della misura cautelare deve essere fatta valere in sede di richiesta di scarcerazione per decorrenza termini. E’ stato, infatti, affermato che nel procedimento di riesame non è deducibile la questione relativa all’inefficacia sopravvenuta dell’ordinanza di custodia cautelare per decorrenza dei termini di fase, in relazione all’asserita contestazione a catena, poichè il giudizio di riesame è preordinato alla verifica dei presupposti legittimanti l’adozione del provvedimento cautelare, e non anche di quelli incidenti sulla sua persistenza (Sez. 6, n. 10325, 23/01/2008, Zecchetti, rv. 239016;

Sez. 1, n. 35113, 13/07/2007, Chiodo, rv. 237632).

Secondo un diverso orientamento – che il Collegio ritiene di condividere – la questione della retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare per effetto della cosiddetta "contestazione a catena" è rilevabile invece nel corso del procedimento di riesame nel quale sia stata invocata l’insussistenza delle esigenze cautelari (Sez. 3, n. 9946, 09/02/2010, Chiaravalloti, rv. 246237), sempre che sia prospettato un interesse concreto. Del resto, nel caso di specie deve tenersi conto che la questione aveva formato oggetto di valutazione da parte del Gip, come si desume dall’ordinanza impugnata.

Orbene, il Tribunale ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto esplicitando le regioni delle decisione attraverso un percorso motivazionale che, richiamando anche la valutazione sul punto dell’ordinanza genetica, benchè sintetico è esente da vizi.

In specie deve rilevarsi che: all’indagato è stata applicata la misura cautelare oggetto del presente ricorso in data 1.9.2010 in relazione al solo reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, contestato dal dicembre 2009 al marzo 2010, mentre non è stata applicata per il reato di cui all’art. 73 del citato d.P.R., capo b), in relazione al quale al predetto era già stata applicata la misura cautelare in data 12.1.2009; all’indagato era, altresì, stata applicata misura cautelare con ordinanza del 9.6.2010 in relazione al reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 (commesso dal (OMISSIS) con condotta perdurante). Pertanto, il reato di cui all’art. 74 cui si riferisce la misura cautelare in esame è anteriore (marzo 2010) alla data di emissione della precedente misura.

Tuttavia, il reato di cui all’art. 74 cui si riferisce la misura cautelare applicata con l’ordinanza precedente del 9.6.2010 – come ha evidenziato il Tribunale, per quanto si desume in atti – ha riguardo ad una diversa associazione e non può ritenersi la connessione qualificata, nè i fatti oggetto della successiva contestazione potevano desumersi dagli atti posti a fondamento della precedente ordinanza.

In ogni caso, deve rilevarsi che essendo stata emessa la precedente ordinanza in data 9.6.2010 i termini di fase non sono scaduti e, pertanto, non sussiste un interesse concreto determinato dalla inefficacia della misura impugnata.

Quanto alla misura applicata per il singolo reato fine in data 12.1.2009 l’ordinanza impugnata esclude l’applicabilità della disciplina dell’art. 297 cod. proc. pen., comma 3, sul presupposto che la condotta associativa, oggetto della misura in esame, non può ritenersi anteriore alla data del 12.1.2009 (emissione della precedente misura cautelare), atteso che il reato associativo si è protratto oltre detta data essendo contestato sino al marzo 2010.

E’ indirizzo costante quello cui si richiama l’ordinanza impugnata secondo il quale ai fini della retrodatazione dei termini di decorrenza della custodia cautelare ai sensi dell’art. 297 cod. proc. pen., comma 3, il presupposto dell’anteriorità dei fatti oggetto della seconda ordinanza coercitiva, rispetto all’emissione della prima, non ricorre allorchè il provvedimento successivo riguardi un reato di associazione e la condotta di partecipazione alla stessa si sia protratta dopo l’emissione della prima ordinanza (S.U., n. 14535, 19/12/2006, Librato, rv. 235910; Sez. 1, Ordinanza n. 20882 del 21/04/2010, Giugliano, rv. 247576).

Sul punto va ricordato, peraltro, che in più occasioni è stato ribadito che non opera la regola della retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare nel caso in cui l’ordinanza successiva abbia ad oggetto la contestazione del reato di associazione per delinquere con descrizione del momento temporale di commissione mediante una formula cosiddetta aperta, che faccia uso di locuzioni tali da indicare la persistente commissione del reato pur dopo l’emissione della prima ordinanza (Sez. 2, n. 34576, 08/05/2009, Zizzo, rv. 245256; Sez. 2, n. 17575, 16/03/2006, Cardella, rv.

233833).

Orbene, se è vero che la permanenza dell’appartenenza all’associazione dopo che l’associato sia stato sottoposto a misura cautelare in carcere in riferimento ad uno dei reati fine della medesima, non può essere affermata per la sola assenza di indici positivi di dissociazione, tuttavia, nella specie le circostanze di fatto introdotte dal ricorrente per contraddire la permanenza del sodalizio e della partecipazione dell’indagato oltre il gennaio 2009 non sono dirimenti. Del resto, è lo stesso ricorrente ad indicare che la detenzione non è stata continuativa nel periodo tra gennaio 2009 e marzo 2010, essendo stata sostituita la originaria misura cautelare con quella degli arresti domiciliari in data 15.7.2009.

Soprattutto però è da rilevare che in relazione ai fatti contestati con l’ordinanza cautelare 12.1.2009 il 25.11.2009 era celebrato il giudizio abbreviato. I termini di base per le indagini preliminari non potevano dunque ritenersi esauriti.

2. Anche il secondo motivo di ricorso deve ritenersi infondato.

Va ricordato che in materia di esigenze cautelari il parametro della concretezza cui si richiama l’art. 274 cod. proc. pen., lett. c), non si identifica con quello di "attualità" del pericolo, derivante dalla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati, dovendo, al contrario, il predetto requisito essere riconosciuto alla sola condizione necessaria e sufficiente che esistano elementi "concreti" (cioè non meramente congetturali) sulla base dei quali possa affermarsi che l’imputato possa, verificandosene l’occasione, commettere reati della stessa specie di quello per cui si procede, ossia che offendono lo stesso bene giuridico (Sez. 1, 3 giugno 2009, n. 25214, Pallucchini, riv.

244829; Sez. 1, 20 gennaio 2004, n. 10347, Catanzaro, rv. 227227).

Deve essere, altresì, ribadito che l’insussistenza delle esigenze cautelari è censurabile in sede di legittimità soltanto se si traduce nella violazione di specifiche norme o nella mancanza o manifesta illogicità della motivazione, rilevabili dal testo del provvedimento impugnato (Sez. 1, 6 febbraio 1996, n. 795, rv.

204014).

Orbene, la motivazione della ordinanza impugnata sullo specifico punto contestato dal ricorrente si sottrae alle censure che le sono state mosse perchè ha rappresentato con argomenti logici e coerenti, riferiti specificamente alla natura del reato associativo contestato ed alla personalità dell’indagato le ragioni che hanno indotto il giudice a ritenere sussistenti le esigenze cautelari poste a fondamento della misura.

3. In conclusione, risultando infondato, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.

La cancelleria dovrà provvedere all’adempimento prescritto dall’art. 94, disp. att. cod. proc. pen., comma 1 ter.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Dispone trasmettersi a cura della cancelleria copia del provvedimento al Direttore dell’istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. cod. proc. pen., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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