Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 15-07-2011) 02-08-2011, n. 30558

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con la sentenza in epigrafe la corte d’appello di Bologna confermò la sentenza 2 novembre 2000 del GUP del tribunale di Parma, che aveva dichiarato S.S. colpevole del reato di cui all’art. 609 bis cod. pen. per avere con violenza compiuto atti sessuali nei confronti di una ragazza minore degli anni 14, palpandole le parti intime della zona pubica, e con le attenuanti generiche prevalenti lo aveva condannato alla pena di anni 2 e mesi 4 di reclusione, oltre pene accessorie e risarcimento del danno in favore della parte civile.

L’imputato propone ricorso per cassazione deducendo violazione di legge e mancanza o manifesta illogicità della motivazione.

Lamenta che erroneamente non sono state prese in considerazione le deposizioni dei testi A.M. ed P.A., che peraltro confermavano le conclusione del consulente di parte.

Non sono state considerate le gravi incongruenze nel racconto della ragazza ed il fatto che questo avvenne dopo un anno dal fatto, anno durante il quale la ragazza continuò a frequentare l’imputato.

La corte d’appello non ha poi tenuto conto della ipotesi prospettata di mera molestia sessuale.

Erroneamente non è stata ritenuta l’ipotesi di cui all’art. 609 quater cod. pen., per mancanza di violenza, ipotesi che era stata inizialmente contestata dall’accusa.

Lamenta infine che è erroneo e manifestamente illogico il mancato riconoscimento della ipotesi di minore gravità.

Motivi della decisione

Il ricorso si risolve in gran parte in una censura in punto di fatto della decisione impugnata, con la quale si richiede una nuova e diversa valutazione delle risultanze processuali riservata al giudice del merito e non consentita in questa sede di legittimità, ed è comunque infondato.

Dalla lettura delle sentenze di primo e di secondo grado, infatti, emerge che i giudici del merito hanno fornito congrua, specifica ed adeguata motivazione sulle ragioni per le quali hanno ritenuto provata la responsabilità dell’imputato per il fatto contestato.

Quanto alla deposizione di P.A.M., i giudici hanno rilevato che la stessa aveva più che altro riferito una sua opinione e non fatti, e che comunque le sue dichiarazioni erano state confuse, totalmente imprecise e vaghe nonchè condizionate dalla pessima opinione che aveva della moralità della famiglia della persona offesa. P.A., allo stesso modo, era stato particolarmente contraddittorio; aveva dimostrato di essere anch’egli prevenuto e le sue dichiarazioni avevano comunque finito per confermare l’assunto probatorio.

Quanto al fatto che la parte lesa lasciò passare un anno dal fatto prima di raccontarlo, anno durante il quale continuò a frequentare l’imputato, il giudice di primo grado ha plausibilmente osservato che le passeggiate serali di J. con il prevenuto potevano spiegarsi nell’ambito di un processo di rimozione e negazione con il quale per un anno la psiche della bambina aveva tentato di difendersi dal ricordo dell’abuso subito.

Quanto alla ipotesi che il fatto integrerebbe solo una molestia sessuale e non un atto di violenza sessuale, la corte d’appello ha correttamente rilevato che, essendovi stato il toccamento delle parti intime della bambina, e quindi il coinvolgimento della sfera fisica di quest’ultima, il fatto andava inquadrato nell’ambito dell’art. 609 bis cod. pen. e non il quello dell’art. 660.

Esattamente, poi, non è stata ravvisata l’ipotesi di cui all’art. 609 quater cod. pen., avendo la corte d’appello accertato che vi era stato da parte dell’imputato un atto di coercizione nei confronti della bambina, consistito nell’afferrarla per il braccio onde trattenerla mentre le abbassava i pantaloncini e la toccava.

Il Collegio ritiene infondato anche l’ultimo motivo relativo al mancato riconoscimento della ipotesi di minore gravita in quanto la sentenza di primo grado aveva fatto riferimento, per escludere l’attenuante, oltre che alla elevata valenza criminale delle modalità della condotta dell’imputato, anche alla gravita dell’offesa arrecata alla vittima ed all’entità ed alla prevedibile lunga durata nel tempo delle conseguenze negative provocate nella psiche della parte lesa dall’episodio, in tal modo correttamente applicando i principi di diritto costantemente affermati da questa Corte, secondo cui, poichè la mitigazione della pena risponde alla minore lesività del fatto, da rapportare al grado di violazione del bene giuridico della libertà sessuale della vittima, il criterio da utilizzare ai fini della configurabilità dell’ipotesi di minore gravita è quello che fa riferimento al grado di coartazione esercitato sulla vittima, alle condizioni fisiche e mentali di questa, alle caratteristiche psicologiche, al danno arrecato alla vittima anche in termini psichici, così da potere ritenere che la libertà sessuale sia stata compressa in maniera non grave (Sez. 3, n. 5002 del 07/11/2006, Mangiapane, Rv. 235648; Sez. 3, n. 27272 del 15/06/2010, P., Rv. 247931; Sez. 3, n. 11085 del 26/01/2010, D.S., Rv. 246439). Con l’atto di appello l’imputato si è limitato a richiamare in astratto questi principi di diritto ed a contestare solo genericamente la motivazione della sentenza di primo grado, senza specificare i motivi per i quali, nel caso concreto in esame, l’offesa arrecata alla vittima non sarebbe stata grave o le conseguenze negative sulla psiche della stessa non sarebbero state rilevanti e di lunga durata. Di conseguenza, di fronte alla genericità del motivo di appello, è irrilevante che la corte d’appello si sia limitata ad indicare – peraltro ad integrazione delle ragioni già precisate dal giudice di primo grado – la circostanza che il S. aveva indotto la bambina a recarsi nel suo appartamento con conseguente minore possibilità di difendersi dall’aggressione, e cioè una circostanza che non attiene direttamente al danno arrecato alla vittima ed alla compromissione della libertà sessuale di questa.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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