Cass. civ., sez. Unite 07-12-2006, n. 26182 Provvedimento disciplinare – Motivazione – Sindacabilità in sede di legittimità – Vizio di difetto di motivazione- Termine quinquennale di prescrizione dell’azione disciplinare

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Fatto

Con Delib. 10 maggio 1993, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Chieti disponeva l’apertura di un procedimento disciplinare a carico del Dott. proc. B.A., sottoposto a processo per i reati di concussione continuata e ricettazione, e contestualmente ne disponeva la sospensione in attesa della definizione del processo penale; quindi, divenuta irrevocabile la sentenza con la quale era stata applicata su richiesta dell’imputato la pena, condizionalmente sospesa, di anni uno, mesi sei e giorni sette di reclusione e di L. 300.000 di multa, disponeva la prosecuzione del procedimento e, previa contestazione degli stessi fatti, ritenuti contrari ai doveri di correttezza, lealtà e probità professionale, infliggeva all’incolpato la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione forense per la durata di nove mesi con decisione del 25 luglio 1994.

Su ricorso depositato il 27 ottobre 1994 dall’avv. B. il Consiglio Nazionale Forense, con decisione del 25 novembre 2005 – 22 marzo 2006, confermava la pronunzia impugnata.

Dichiarata la inammissibilità delle censure n svolte nelle diverse memorie aggiunte depositate dal ricorrente, e ritenuta la manifesta infondatezza delle questioni di illegittimità costituzionale sollevate con riferimento sia alla violazione del principio di immutabilità del collegio giudicante nel giudizio dinanzi al Consiglio dell’Ordine sia alla mancanza di un termine di prescrizione dell’azione disciplinare nei confronti degli avvocati e procuratori legali, affermava che i fatti che avevano formato oggetto del procedimento penale concluso con una sentenza di patteggiamento dovevano essere autonomamente valutati sotto il profilo probatorio dall’organo disciplinare e sosteneva che, non avendo il Consiglio dell’Ordine proceduto ai necessari accertamenti, a tanto doveva provvedere il Consiglio Nazionale Forense; ciò premesso, giungeva alla conclusione che i fatti trovavano conferma negli atti istruttori penali e non erano stati contestati dal ricorrente tanto più che il Giudice penale aveva escluso la sussistenza degli estremi per una sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., sicchè l’illecito addebitato al ricorrente, pur non attenendo all’attività forense, offendeva gravemente per la sua notorietà e il clamore suscitato la dignità e il prestigio della classe forense.

Contro la decisione ricorre per Cassazione l’avv. B.A. con sei motivi proponendo contestuale istanza di sospensione dell’esecuzione della decisione impugnata.

Non hanno presentato difese gli intimati.

Inizio documento

Diritto

Dev?essere disposta preliminarmente la riunione al presente ricorso di quello avente a oggetto l’istanza di sospensione dell’esecuzione della decisione impugnata (N.R.G. 18792/06 bis).

Va dichiarata quindi la carenza di legittimazione passiva dell’Ordine degli Avvocati di Chieti e del Consiglio Nazionale Forense in quanto nel giudizio dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in materia disciplinare sono parti necessarie unicamente il Consiglio dell’Ordine che ha irrogato la sanzione impugnata e il Procuratore Generale presso la Suprema Corte (Cass. 11 aprile 2003, n. 5715).

Passando alle censure sollevate dall’avv. B., debbono essere esaminate con priorità, per motivi di ordine logico, quelle articolate con il quarto, il quinto e il sesto motivo di ricorso che investono questioni di carattere pregiudiziale.

Con il quarto motivo si denuncia la violazione e la falsa applicazione del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 54, comma 1, del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 51 e dell’art. 111 Cost., e, in via subordinata, si solleva l’eccezione di legittimità costituzionale del predetto art. 51 per contrasto con gli artt. 3,24, 104, 105, 106, 108 e 111 Cost., e si sostiene che erroneamente la decisione impugnata avrebbe escluso la decorrenza del termine di prescrizione anche nel corso del procedimento giurisdizionale di impugnazione della sanzione disciplinare irrogata dal Consiglio dell’Ordine in base alla considerazione che l’illecito disciplinare assomiglia all’illecito penale come può dedursi dai richiami alle norme del codice di procedura penale contenuti nel R.D. n. 37 del 1934, artt. 51 e 64.

A conclusione dell’illustrazione del motivo in esame il ricorrente – in osservanza dell’art. 366 bis cod. proc. civ., applicabile nella specie ai sensi del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 27, comma 2 – ha formulato il quesito di diritto con il quale ha chiesto alla Corte di affermare se il termine di cinque anni stabilito dal R.D.L. 27 novembre 1933, n. 157, art. 51, per la conclusione del procedimento disciplinare nei confronti di un avvocato sia assoggettato al principio dell’effetto interruttivo permanente ai sensi degli artt. 2945, co. 2, e 2943 cod. civ., ovvero se, in via meramente gradata, sia suscettibile di interrom pere il predetto termine un?ordinanza istruttoria meramente reiterativa e sprovvista di natura e valenza propulsiva.

Premesso che la violazione del R.D. del 1934, art. 54, cumulativamente dedotta dal ricorrente, deve ritenersi frutto di un errore poiché la norma suddetta non riguarda la materia della prescrizione in contestazione ma disciplina la ricusazione dei componenti del consiglio dell’ordine, che non viene in questione nella specie, la censura in esame sembra doversi interpretare nel senso che la prescrizione dell’azione disciplinare non dovrebbe ritenersi soggetta all’effetto interruttivo sospensivo di cui all’art. 2945 cod. civ., ma dovrebbe continuare anche nel corso del processo di impugnazione in sede giurisdizionale promosso dal professionista come previsto per l’illecito penale, restando soggetta solo all’interruzione istantanea.

Così individuata la portata della censura, lo stato della normativa vigente non consente un?interpretazione che possa condurre al suo accoglimento.

Va considerato, infatti, che la pretesa punitiva esercitata dal Consiglio dell’Ordine nei confronti degli illeciti disciplinari commessi dai propri iscritti ha natura di diritto soggettivo potestativo che, sebbene di natura pubblicistica, resta soggetto a prescrizione, essendo stato escluso che il termine in questione debba intendersi, in realtà, come un termine di decadenza, insuscettibile, in quanto tale, di interruzione o di sospensione: va perciò ribadito l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. 4 maggio 1989, n. 2095) secondo cui il termine di prescrizione di soli cinque anni è diretto a sollecitare l’inizio del procedimento disciplinare senza porre peraltro termini per la sua definizione.

Al regime della prescrizione estintiva è stato per lungo tempo ritenuta applicabile la disciplina dettata dal codice civile, considerata espressione dei principi generali della materia, e quindi la disposizione dell’art. 2945 cod. civ. cpv., secondo cui, se l’interruzione consegue al compimento di uno degli atti di esercizio di un?azione giudiziaria, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio, salvo il caso dell’estinzione del giudizio (da ultimo: Cass. 15 ottobre 1992, n. 3284).

Tale orientamento è stato però abbandonato in quanto contrario all’esigenza, imposta dai principi costituzionali di ragionevolezza e di buon andamento della pubblica amministrazione, che i procedimenti disciplinari trovino la loro definizione in un congruo termine; è stato, così, affermato che la previsione di un termine quinquennale di prescrizione non solo delimita nel tempo l’inizio dell’azione disciplinare, ma vale anche ad assicurare il rispetto dell’esigenza che il tempo dell’applicazione della sanzione non si protragga in modo indefinito, poiché al procedimento sanzionatorio amministrativo è da ritenersi applicabile non già la regola dell’effetto interruttivo permanente della prescrizione sancito dall’art. 2945 cod. civ., bensì quello dell’interruzione con effetti istantanei (SS.UU. 22 maggio 1995, n. 5603). Si è ulteriormente specificato che il giudizio che segue alla conclusione della fase amministrativa dinanzi al Consiglio dell’Ordine non ha come oggetto un mero sindacato di legittimità sull’atto di applicazione della sanzione disciplinare, ma ha ad oggetto la relazione tra il potere disciplinare e la soggezione a tale potere, resa concreta dall’incolpazione contestata, come si desume dal rilievo che il Consiglio Nazionale Forense può procedere, su richiesta delle parti o d’ufficio, a tutte le ulteriori indagini ritenute necessarie per l’accertamento dei fatti (R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 63, u.c.) e può annullare, revocare o modificare la Deliberazione impugnata: ne consegue che si ha applicazione della sanzione non solo da parte del Consiglio dell’Ordine, ma anche da parte del Consiglio Nazionale Forense, sicchè anche alla fase giudiziale del procedimento si estende la norma sulla prescrizione che ha la funzione di escludere che l’infrazione possa ancora avere rilevanza (SS.UU. 4 luglio 2002, n. 9694).

ÿ stato, peraltro, osservato che la potestà di infliggere sanzioni disciplinari, in quanto diretta a perseguire interessi pubblicistici, non può essere regolata unicamente dalle norme del diritto civile in quanto non sono suscettibili di applicazione al procedimento disciplinare le norme che disciplinano la sospensione e l’interruzione della prescrizione di cui agli artt. 2941 e 2945 cod. civ., e quindi si afferma l’estensione a tutta la materia punitiva alle norme contenute nell’art. 160 cod. pen., che collegano l’interruzione della prescrizione ad atti di natura propulsiva del procedimento, come gli atti di impugnazione, ovvero di natura probatoria o decisoria, i quali dimostrano l’interesse all’applicazione della sanzione disciplinare, pur non potendo trovare applicazione il prolungamento oltre la metà del termine di prescrizione anche in caso di interruzione (Cass. 18 aprile 1968, n. 1158,23 ottobre 1979, n. 5523; 7 marzo 1985, n. 1884). La specialità della materia giustifica anche l’efficacia interruttiva di atti provenienti dal soggetto passivo diversi dal riconoscimento e intesi, anzi, a contestare il diritto, come l’impugnazione della decisione del Consiglio dell’Ordine (in tal senso, più diffusamente e con ampi richiami della giurisprudenza sui singoli punti, vedi SS.UU. 26 marzo 1997, n. 2661; 26 febbraio 1999, n. 372).

A conforto di tale interpretazione può rilevarsi che il legislatore, non solo non ha posto nel procedimento disciplinare a carico degli avvocati un termine di durata insuperabile, ma neppure ha stabilito, con una norma di rinvio di carattere generale, l’osservanza generale delle forme del processo penale che consenta di desumere una parificazione a tutti gli effetti dell’illecito disciplinare, avente natura di illecito amministrativo, all’illecito penale.

Nè, infine, può farsi riferimento alla disciplina specifica dettata per altri ordinamenti professionali che contengono una espressa disciplina della prescrizione (L. 16 febbraio 1913, n. 89, art. 146, sulla professione di notaio, come sostituito dal D.Lgs. 1 agosto 2006, n. 249, art. 29; della L. 3 febbraio 1963, n. 69, art. 58, sulla professione di giornalista; della L. 7 gennaio 1076, n. 3, art. 45, sulla professione di dottore agronomo; della L. 15 gennaio 1994, n. 59, art. 37, sulla professione di tecnologo alimentare) poiché questa Corte ha reiteratamente dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità della normativa che, per talune categorie professionali non prevede – analogamente a quanto previsto per gli appartenenti ad altri ordini professionali – termini di prescrizione dell’azione disciplinare, in considerazione dell’ampia sfera di indipendenza e discrezionalità riconosciuta dall’ordinamento agli ordini professionali nel governo dei rispettivi iscritti, con la conseguente scelta libera ed autonoma, all’interno di ciascuno di essi, dell’opportunità di prevedere termini prescrizionali o di decadenza con riferimento all’azione disciplinare a seconda della ritenuta prevalenza dell’interesse irrinunciabile dell’ordine alla repressione degli abusi dei rispettivi appartenenti ovvero all’interesse del professionista a non essere più per seguito a notevole distanza di tempo dai fatti addebitatigli (SS.UU. 19 luglio 1982, n. 4210).

Ribadita l’efficacia interruttiva istantanea degli atti autoritativi di natura propulsiva del procedimento, va riconosciuta tale natura alle ordinanze in data 18 aprile 1996, 9 marzo 2001 e 28 ottobre 2004 con le quali il Consiglio Nazionale Forense ha disposto l’acquisizione di copia dell’intero fascicolo delle indagine preliminari nonchè di ulteriori atti del procedimento penale per la necessità di integrare il materiale istruttorie acquisito agli atti, trattandosi di atti di impulso processuale compiuti prima della scadenza del quinquennio decorrente dalla proposizione del ricorso al Consiglio Nazionale Forense e, poi, da ciascun atto interruttivo.

Per quanto concerne poi l’eccezione di legittimità costituzionale, dell’art. 51 in esame per contrasto con gli artt. 3,24, 104, 105, 106, 108 e 111 Cost., formulata in via subordinata e senza alcuna illustrazione da parte del ricorrente, essa va dichiarata manifestamente infondata non essendo ravvisabile nella disciplina della prescrizione dell’azione disciplinare nei confronti degli avvocati alcuna violazione del principio di eguaglianza, attesa l’autonomia dei singoli ordini professionali innanzi ricordata (art. 3 Cost.); né poi l’interruzione della prescrizione comporta indebite limitazioni del diritto di difesa in giudizio (art. 24 Cost.) o collide in alcun modo con le prerogative della magistratura (art. 104 Cost.) con le funzioni del Consiglio Superiore della Magistratura (art. 105 Cost.), con la disciplina della nomina dei magistrati (art. 106 Cost.) o con l’indipendenza dei Giudici delle magistrature speciali (art. 108 Cost.); né vale, infine, il contrasto denunciato con l’art. 111 Cost., che ha costituzionalizzato il principio della ragionevole durata del processo poi che nella specie non viene in discussione alcun istituto processuale, ma solo la disciplina dell’istituto sostanziale della prescrizione dell’illecito disciplinare e del suo corso in pendenza del giudizio di impugnazione dinanzi al Consiglio Nazionale Forense, e, successivamente, dinanzi alle Sezioni Unite della Suprema Corte.

Con il quinto motivo viene denunziata la violazione del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, artt. 47,50,51, art. 54, comma 1, e art. 63, del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, artt. 38,54, e 565, e dell’art. 111 Cost., e si contesta la commistione di funzioni inquirenti e giudicanti del Consiglio Nazionale Forese: si sottopone quindi alla Corte il quesito se detto organo possa assommare in sè entrambe le funzioni e ritenersi titolare del potere di disporre ex novo l’intera istruttoria disciplinare rinnovandola in maniera reiterata.

La censura, ancor prima che infondata, è inammissibile poiché costituisce mera riproposizione di una questione già sottoposta all’esame del Consiglio Nazionale Forense che l’ha dichiarata inammissibile in quanto contenuta in una memoria aggiunta e integrativa, senza che il ricorrente abbia impugnato l’asserita inammissibilità della questione tardivamente proposta in giudizio.

Con il sesto motivo si denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 6 della Convenzione per i Diritti dell’Uomo, degli artt. 3,24 e 111 Cost., del R.D. 22 gennaio 1937, n. 34, art. 48 e del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 63 e si eccepisce la nullità delle acquisizioni disposte in violazione del principio del contraddittorio e nonostante la formulata richiesta di prove anche testimoniali dirette e contrarie, anche sui medesimi elementi probatori oggetto di tali acquisizioni e si sottopone alla Corte il quesito se sia conforme con il dettato delle norme denunciate l’acquisizione di una pluralità di documenti effettuati dal Consiglio Nazionale Forense in difetto di qualsiasi forma di contraddittorio e con la radicale compressione dei diritti di difesa, essendo state costantemente disattese le richieste probatorie del ricorrente.

La duplice censura non può trovare accoglimento poiché, innanzi tutto, deve ritenersi pienamente legittima, come già rilevato, l’acquisizione del fascicolo relativo al giudizio penale al quale è stato sottoposto il ricorrente disposta d’ufficio, né ciò incide sul diritto di difesa del ricorrente il quale può sempre contestare le risultanze documentali dopo aver preso visione della documentazione acquisita agli atti.

Inammissibile è, poi, la censura mossa contro il mancato accoglimento delle istanze istruttorie formulate dal ricorrente in quanto l’omesso o insufficiente esame dell’istanza istruttoria diretta a dimostrare punti decisivi della controversia si traduce in vizio di motivazione della sentenza impugnata – vizio che può formare oggetto di denuncia per Cassazione contro le decisioni del Consiglio Nazionale Forense ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., u.c., nel testo modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2 – ma che richiede, a pena di inammissibilità, l’esposizione del contenuto delle istanze istruttorie non accolte onde consentire al Giudice di legittimità il controllo della loro rilevanza ai fini di una diversa decisione della controversia per effetto dell’espletamento delle prove richieste.

Esaurito l’esame delle questioni pregiudiziali, con il primo motivo si denuncia la violazione dell’art. 445 cod. proc. pen., e del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 47, comma 2, e art. 54, comma 1, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5, per carenza assoluta dell’indicazione dei fatti contestati e totale mancanza di motivazione, non essendo consentito desumere dalla lettura della decisione impugnata l’oggetto della contestazione e, in particolare, l’indicazione dei fatti disciplinarmente rilevanti di cui si sarebbe trovato conferma negli atti del processo penale a carico del ricorrente, poiché questi, accedendo al rito alternativo, aveva definito la sua posizione senza ammettere alcuna forma di responsabilità penale e senza alcun accertamento dei fatti da parte di un Giudice del dibattimento nel contraddittorio delle parti.

A conclusione dell’illustrazione della suddetta censura il ricorrente ha sottoposto all’esame della Corte il quesito se il Consiglio Nazionale Forense debba indicare le circostanze di fatto prese in considerazione per giustificare la legittimità e la congruità della sanzione disciplinare inflitta al professionista o possa limitarsi a richiamare genericamente gli atti istruttori penali e i fatti inerenti a una sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., nei confronti del destinatario della sanzione disciplinare.

La censura è fondata e merita accoglimento in quanto la decisione impugnata, pur affermando che per effetto della dichiarazione di incostituzionalità della L. 27 marzo 2001, n. 97, art. 10, che aveva esteso l’efficacia del giudicato di condanna nei giudizi per responsabilità disciplinare ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della disciplina sopravvenuta, la quale aveva equiparato la sentenza di patteggiamento ad una sentenza di condanna, il giudice disciplinare non era vincolato dall’accertamento dei fatti compiuti nel giudizio penale conclusosi con una sentenza di patteggiamento, ma doveva procedere ad una valutazione autonoma della loro sussistenza e rilevanza sotto il profilo disciplinare, ha sostanzialmente omesso ogni motivazione al riguardo, limitandosi ad affermare testualmente, quanto alla sussistenza dei fatti posti a fondamento dell’incolpazione che "i fatti in questione trovano conferma negli atti istruttori penali e non sono stati peraltro oggetto di contestazione da parte del ricorrente" e che, quanto alla loro gravità, che "l’illecito commesso dall’avv. B., sebbene non attenga all’attività forense, per la notorietà dello stesso e il clamore suscitato, ha senza dubbio offeso gravemente la dignità della classe forense": trattasi di affermazioni del tutto apodittiche che si risolvono nella constatazione che la mera imputazione dei reati di concussione e ricettazione è sufficiente a integrare un capo di incolpazione e costituisce di per sè un fatto notorio che provoca clamore nell’opinione pubblica e discredito per la classe forense prescindendo da qualsiasi riscontro obbiettivo.

La mera apparenza della motivazione posta a fondamento del provvedimento disciplinare in contestazione comporta l’annullamento della decisione impugnata mentre gli ulteriori motivi di ricorso di natura subordinata, con i quali viene denunciata, rispettivamente, la mancata indicazione dei fatti contestati (secondo motivo), la mancata specificazione della loro capacità offensiva agli effetti disciplinari (terzo motivo), sono inammissibili per la mancata formulazione del quesito di diritto di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ..

In conclusione, quindi, il ricorso merita accoglimento nei limiti meglio innanzi precisati e, conseguentemente, la decisione impugnata dev?essere cassata con rinvio della causa al Consiglio Nazionale Forense il quale provvedere a riesaminare la controversia fornendo effettiva e reale motivazione.

l’annullamento della decisione assorbe l’esame dell’istanza di sospensione dell’esecuzione.

P.Q.M.

La Corte, decidendo a sezioni unite, riunisce i ricorsi, accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara inammissibili il secondo, il terzo e il quinto, rigetta il quarto e il sesto, dichiara assorbito l’esame dell’istanza di sospensione, cassa la decisione impugnata e rinvia la causa al Consiglio Nazionale Forense.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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