T.A.R. Lazio Roma Sez. I, Sent., 12-09-2011, n. 7182

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Premette in fatto la società odierna ricorrente – attiva nel commercio degli integratori alimentari, nutrizionali e funzionali – la ricostruzione dell’iter procedimentale confluito nell’adozione del provvedimento con il quale è stata ritenuta la scorrettezza, ai sensi degli artt. 20, 21, comma 1 lettera b) e 22, commi 1 e 2, del Codice del Consumo, della pratica commerciale relativa alla promozione dell’integratore alimentare denominato Kilocal compresse, vietandone l’ulteriore diffusione ed irrogando alla società ricorrente la sanzione amministrativa pecuniaria di euro 200.000.

Al riguardo, precisa parte ricorrente che con nota datata 16 settembre 2009 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha richiesto informazioni circa la campagna pubblicitaria relativa alla commercializzazione del prodotto Kilocal compresse, cui la ricorrente ha dato riscontro in data 31 ottobre 2008.

Con nota del 9 marzo 2010 l’Autorità ha comunicato l’avvio del procedimento PI 1898 relativamente alla pubblicizzazione di detto prodotto sulla base di due segnalazioni alla stessa pervenute, con contestuale richiesta di informazioni, cui la ricorrente ha dato riscontro.

Con nota del 26 maggio 2010 l’Autorità ha rigettato l’istanza della ricorrente di assunzione di impegni e, a conclusione del procedimento, ha adottato il gravato provvedimento dell’8 settembre 2010 con cui è stata ritenuta la scorrettezza, ai sensi degli artt. 20, 21 comma 1 lettera b), e 22, commi 1 e 2, del Codice del Consumo, della pratica commerciale posta in essere dalla società ricorrente, vietandone l’ulteriore diffusione ed irrogando una sanzione amministrativa pecuniaria di euro 200.000.

Avverso tale determinazione deduce parte ricorrente i seguenti motivi di censura:

A) Sulla correttezza della pubblicità. Insussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi degli illeciti contestati: assenza delle violazioni di cui agli artt. 20, 21, comma 1 lettera b) e 22, commi 1 e 2. Illegittimità del provvedimento impugnato per violazione di legge, eccesso di potere sotto il profilo del travisamento dei fatti e omessa valutazione dei presupposti, vizio di motivazione.

Denuncia parte ricorrente l’erroneità – in quanto basate su di una non corretta valutazione dei fatti e dei relativi presupposti – delle valutazioni sulla cui base l’Autorità ha ricondotto la scorrettezza della pratica in esame alla circostanza che il prodotto sia stato proposto come correttivo dopo pasti abbondanti senza adeguatamente evidenziare la sua funzione meramente coadiuvante nel controllo del peso in associazione ad un regime alimentare controllato ed esercizio fisico, affermando come la promozione del prodotto sia rimasta invariata sin dal 2004, con l’approvazione dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria, e come la stessa sia volta a rappresentare il prodotto come utile in caso di un pasto occasionalmente abbondante, e dunque come correttivo episodico, non continuativo, nell’ambito di una dieta controllata ed esercizio fisico, e coadiuvante nelle diete volte al controllo del peso, così giustificandosi i richiami ai piaceri della tavola i quali, sostiene parte ricorrente, non possono essere estrapolati dal complessivo messaggio, cui sarebbe comunque connaturale l’iperbole e la vanteria pubblicitaria.

Sostiene, al riguardo, parte ricorrente come la necessità di abbinare il prodotto ad una dieta ipocalorica ed esercizio fisico sia adeguatamente rappresentata nei messaggi pubblicitari, ivi compresi quelli televisivi, in cui tale indicazione compare mediante scritta dinamica, fatta unicamente eccezione per quelli radiofonici, non potendo conseguentemente ritenersi, come invece sostenuto dall’Autorità, che l’efficacia del prodotto prescinda da restrizioni alimentari.

Contesta, inoltre, parte ricorrente la possibilità di ravvisare profili di scorrettezza nell’omissione, nei messaggio pubblicitari, del richiamo alle avvertenze relativamente alla necessità di consultare un medico ove la dieta – e non l’uso del prodotto, come riferito dall’Autorità – si protragga per più di tre settimane, essendo stata tale avvertenza introdotta solo nel 2009 a seguito di sopravvenute modifiche ministeriali ed avendo il Ministero della Salute espressamente autorizzato il commercio delle precedenti confezioni prive di tale indicazione.

Ne conseguirebbe che nessun profilo di scorrettezza sarebbe riscontrabile con riferimento alla pubblicità priva dell’indicazione della necessità di consultare il medico fintanto che era consentita la commercializzazione delle confezioni prive di tale avvertenza, essendo l’obbligo di inserire l’avvertenza in esame intervenuto solo a metà del 2009 con le nuove Linee Guida ministeriali, con conseguente esclusione, dall’ambito di operatività di tale onere, dei messaggi diffusi prima di tale data.

Peraltro, tale avvertenza è stata dalla ricorrente inserita nei messaggi promozionali successivamente alla presentazione degli impegni, illegittimamente rigettati dall’Autorità con motivazione abnorme ed ingiustificata.

B) Profili procedurali: violazione dei principi del contraddittorio, del diritto di difesa e del giusto procedimento. Violazione dell’art. 27 del Codice del Consumo, violazione della legge n. 241 del 1990, violazione dell’art. 14 della legge n. 689 del 1981, violazione degli artt. 4,6,12 e 16 del Regolamento del 15 novembre 2007.

Quanto al provvedimento di rigetto degli impegni presentati dalla società ricorrente, basato anche sulla considerazione dell’assenza dell’avvertenza prescritta dalle linee guida ministeriali, ribadisce parte ricorrente come tale avvertenza fosse necessaria solo con riferimento ai messaggi promozionali successivi all’entrata in vigore del relativo obbligo.

Contesta, sotto altro profilo, parte ricorrente l’illegittimità dell’andamento complessivo del procedimento, per effetto del quale sarebbero stati violati i principi del giusto procedimento ed i diritti di difesa ed al contraddittorio, evidenziando di aver dato riscontro alla richiesta di informazioni formulata dall’Autorità con riferimento alla promozione del prodotto in data 31 ottobre 2008, mentre solo in data 9 marzo 2010 è stata data comunicazione di avvio del procedimento, con conseguente irragionevolmente lunga durata della fase pre istruttoria.

Al riguardo, afferma parte ricorrente che pur non prevedendo il vigente regolamento un termine di durata per tale fase, laddove il D.P.R. n. 284 del 2003, all’art. 5, prevedeva stabiliva precisi termini dalla data della segnalazione o di acquisizione del messaggio, dovrebbero comunque essere rispettate le esigenze di certezza del procedimento, altrimenti potendo i relativi termini di durata essere dilazionati sine die.

Nel precisare parte ricorrente come l’irragionevole durata della fase pre istruttoria non troverebbe alcuna giustificazione in relazione alla natura dell’accertamento svolto, rappresenta il pregiudizio che ne è alla stessa derivato, essendo la durata della diffusione dei messaggi stata posta a fondamento sia del rigetto degli impegni che della quantificazione della sanzione.

Contesta, altresì, parte ricorrente il mancato accoglimento della richiesta di essere sentita in audizione, con conseguente ulteriore pregiudizio al principio del contraddittorio e di difesa.

C) Sul carattere sproporzionato della sanzione irrogata: violazione e falsa applicazione dell’art. 27 del codice del consumo, nonché dell’art. 11 della legge n. 689 del 1981. Eccesso di potere per ingiustizia manifesta e violazione del principio di proporzionalità.

Lamenta parte ricorrente il carattere sproporzionato ed irragionevole della sanzione irrogata, peraltro asseritamente non sorretta da adeguata motivazione e basata su di una non corretta applicazione dei relativi criteri di determinazione.

In proposito evidenzia parte ricorrente come taluni dei profili di scorrettezza della pratica ipotizzati in fase di avvio del procedimento non siano confluiti nel provvedimento finale, lamentando come l’Autorità non abbia tenuto conto della disponibilità dimostrata in sede di presentazione degli impegni a modificare i messaggi e l’effettiva loro modifica, nonché la propria buona fede per aver risposto alla richiesta di informazioni di due anni precedente senza ricevere alcuna ulteriore comunicazione, sino all’avvio del procedimento intervenuto a seguito di una irragionevolmente lunga fase pre istruttoria.

Contesta inoltre, parte ricorrente, la determinazione della sanzione in relazione alla durata della diffusione della pratica, da imputarsi alla lunghezza della fase pre istruttoria, precisando come il profilo relativo alla omissione delle avvertenze potesse riferirsi solo al periodo successivo alla seconda metà del 2009.

La sanzione irrogata sarebbe, inoltre, immotivata e sproporzionata anche in relazione ai dati di bilancio, in quanto più elevata rispetto al complessivo utile annuo ricavato dalla società per tutta l’attività svolta, senza peraltro tener conto della redditività del prodotto cui la condotta si riferisce, denunciando la genericità del riferimento alla rilevanza delle dimensioni del professionista e lamentando l’idoneità della sanzione a pregiudicare l’attività economica dalla stessa svolta, avvantaggiando la concorrenza.

Si è costituita in resistenza l’intimata Amministrazione sostenendo, con articolate controdeduzioni, l’infondatezza del ricorso con richiesta di corrispondente pronuncia.

Con ordinanza n. 8880/2011 è stata rigettata la domanda incidentale di sospensione degli effetti del gravato provvedimento.

Con memoria successivamente depositata parte ricorrente ha insistito nelle proprie deduzioni, ulteriormente argomentando.

Alla Pubblica Udienza del 18 6 luglio 2011, la causa è stata chiamata e, sentiti i difensori delle parti, trattenuta per la decisione, come da verbale.

Motivi della decisione

Con il ricorso in esame è proposta azione impugnatoria avverso il provvedimento – meglio descritto in epigrafe nei suoi estremi – con cui l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in esito alla compiuta istruttoria, acquisito il parere dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ed apprezzata la scorrettezza, ai sensi degli artt. 20, 21, comma 1, lettera b), e 22, commi 1 e 2, del Codice del Consumo, della pratica commerciale posta in essere dalla società ricorrente, volta a promuove l’integratore alimentare Kilocal, ne ha vietato l’ulteriore diffusione e ha irrogato alla ricorrente una sanzione amministrativa pecuniaria di euro 200.000.

L’impianto ricorsuale, come delineato dalle censure proposte dalla società ricorrente, si snoda attraverso la proposizione di censure volte, innanzitutto, a contestare la sussistenza di profili di scorrettezza della pratica, procedendo alla puntuale confutazione delle valutazioni espresse dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (hic hinde Autorità) con riferimento alla condotta sanzionata, denunciando, altresì, sotto altro profilo, l’intervenuta violazione dei diritti di difesa e del principio del contraddittorio avuto riguardo alla concreta scansione del procedimento ed alla fase della pre istruttoria, di cui lamenta l’irragionevolmente lunga durata, sulla cui base assume parte ricorrente l’illegittimità della gravata decisione e delle valutazioni poste a suo fondamento.

Sotto altro profilo, si duole parte ricorrente della quantificazione della sanzione, lamentandone il carattere sproporzionato, anche in relazione ai dati di bilancio ed alla dimensione economica, e la mancanza di adeguata motivazione, significando altresì come non si sia tenuto adeguatamente conto della disponibilità dimostrata in sede di presentazione degli impegni a modificare i messaggi e l’effettiva modifica degli stessi, mentre, con riferimento alla commisurazione della sanzione in relazione alla durata della diffusione della pratica, sostiene parte ricorrente come la stessa sarebbe da imputarsi alla illegittima lunghezza della fase pre istruttoria.

Ciò posto, prima di procedere alla disamina delle censure ricorsuali proposte, giova premettere un breve cenno descrittivo della condotta sanzionata con il gravato provvedimento, al fine di meglio delineare i contorni della vicenda in esame e più compiutamente definire la portata delle doglianze che alla stessa afferiscono, rinviando al prosieguo della trattazione il più esaustivo esame del contenuto della gravata delibera nei limiti in cui lo stesso si riveli funzionale alla delibazione rimessa al Collegio.

In tale direzione, va precisato che il gravato provvedimento ha ritenuto integrare una pratica commerciale scorretta la promozione – attraverso messaggi diffusi tramite internet, stampa, spot televisivi e radiofonici – dell’integratore alimentare denominato Kilocal compresse, presentato come rimedio agli eccessi alimentari e per non rinunciare ai piaceri della tavola, riducendo le calorie assunte dopo pasti abbondanti in quanto idoneo a contrastare l’assorbimento di grassi e zuccheri, anche senza sottoporsi a restrizioni alimentari, inducendo i consumatori a comportamenti alimentari non corretti, laddove, invece, il prodotto consiste in un integratore alimentare per il controllo del peso corporeo come coadiuvante nelle diete ipocaloriche in abbinamento ad uno stile di vita sano che includa attività fisica, inidoneo quindi, per le sostanze vegetali in esso contenute e contrariamente a quanto suggerito nei messaggi sanzionati, a contenere l’eccesso di grassi e calorie assunte.

Ciò posto, ritiene il Collegio, nella gradata elaborazione logica delle questioni sollevate, di dover preliminarmente procedere all’esame dei denunciati vizi di carattere procedimentale, con i quali parte ricorrente lamenta l’eccessiva durata della fase preistruttoria del procedimento confluito nell’adozione del gravato provvedimento, con conseguente lesione dei principi del giusto procedimento, del contraddittorio e dei diritti di difesa delle parti, significando in proposito come l’irragionevole durata di tale fase non possa trovare alcuna giustificazione in relazione alla natura dell’accertamento svolto.

In punto di fatto, occorre precisare che la censura in esame si ancora alla circostanza che l’Autorità ha richiesto alla società ricorrente informazioni in merito alla pratica commerciale relativa alla promozione del prodotto Kilocal compresse con comunicazione del 16 settembre 2008, cui è stato dato riscontro in data 31 ottobre 2008, mentre l’avvio del procedimento è intervenuto con comunicazione del 9 marzo 2010.

La censura non merita favorevole esame.

Pur dovendo darsi atto del lungo periodo temporale intercorso tra le segnalazioni pervenute all’Autorità – segnatamente in data 11 luglio 2008 e 19 marzo 2009 – tra la richiesta di informazioni rivolta alla società ricorrente, intervenuta in data 16 settembre 2008, e l’avvio del procedimento, avvenuto solo in data 9 marzo 2010, decisivo rilievo deve tributarsi, nella delibazione della censura in esame, alla disciplina normativa di riferimento come dettata dal D.Lgs. n. 206 del 2005 – recante il Codice del Consumo – e dal Regolamento sulle procedure istruttorie, adottato con delibera dell’Autorità del 15 novembre 2007 n. 17589, in base ai quali nessun termine di durata è fissato con riferimento alla fase precedente l’avvio del procedimento.

Ed infatti, l’art. 27, comma 3, del D.Lgs. n. 206 del 2005, dispone che l’Autorità comunica al professionista l’apertura dell’istruttoria, mentre l’art. 7 del Regolamento – intitolato ai termini del procedimento – dispone che "Il termine per la conclusione del procedimento è di centoventi giorni, decorrenti dalla data di protocollo della comunicazione di avvio e di centocinquanta giorni quando, ai sensi dell’art. 27, comma 6, del Codice del Consumo, si debba chiedere il parere dell’Autorità per le garanzie nelle Comunicazioni".

L’art. 6 del Regolamento stabilisce che "Il responsabile dell’istruttoria, valutati gli elementi comunque in suo possesso e quelli portati a sua conoscenza con la richiesta di intervento (…), avvia l’istruttoria al fine di verificare l’esistenza di pratiche commerciali scorrette di cui al Codice del Consumo".

Appare chiaro, alla luce delle illustrate disposizioni, che solo con riferimento alla conclusione del procedimento il citato Regolamento reca l’indicazione di termini perentori, prorogabili nella misura e alle condizioni ivi stabilite, non sussistendo, con riferimento alla fase di avvio, alcun termine, neppure di natura acceleratoria, ricollegabile alla data di presentazione delle segnalazioni o di richiesta di informazioni, entro il quale debba intervenire la comunicazione d’avvio del procedimento, la cui temporalizzazione è all’evidenza condizionata dal numero e dal contenuto delle segnalazioni, dall’ampiezza temporale della stessa pratica commerciale scorretta e dalla maggiore o minore complessità della fattispecie (TAR Lazio – Roma – Sez. I – 13 luglio 2010 n. 24994; 23 febbraio 2011 n. 1691).

Per la fase che precede l’avvio del procedimento nessun termine, né perentorio né ordinatorio, è previsto dalla normativa di settore, la quale dispone che tale avvio debba intervenire previo svolgimento di una attività valutativa volta a verificare la sussistenza delle condizioni per instaurare il procedimento di accertamento di eventuali profili di scorrettezza di una pratica commerciale, non essendo prevista per la fase che precede la comunicazione dell’avvio dell’istruttoria alcuna durata prestabilita, né alcun termine acceleratorio.

Il che si presenta coerente con la considerazione che in materia di pratiche scorrette l’Autorità è chiamata, in ragione proprio della struttura dell’illecito e diversamente da quanto accade nei procedimenti intesi a reprimere la pubblicità ingannevole e comparativa, al compimento di una – spesso – complessa attività istruttoria volta alla individuazione con precisione – salvi i casi di condotte "tipizzate" elencate agli artt. 23 e 26 del Codice del Consumo – delle azioni, omissioni o dichiarazioni ritenute scorrette, ingannevoli o aggressive, nonché, come nella fattispecie in esame, dei soggetti responsabili delle stesse, che risulta quindi incompatibile con una predefinita limitazione temporale.

Né può ritenersi che tale fase del procedimento possa ricadere nell’ambito di applicazione dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990 – con conseguente suo assoggettamento al termine di durata massima di 30 giorni – trovando tale soluzione ostacolo nella disciplina di settore che, come illustrato, dispone diversamente rispetto alla legge generale sul procedimento amministrativo quanto alla durata di tale fase procedimentale, e ciò in coerenza con le esigenze istruttorie emergenti a seguito delle segnalazioni pervenute all’Autorità, insuscettibili ad essere imbrigliate in predefiniti limiti di durata.

Alla luce della specifica disciplina, sopra illustrata, sulla cui base occorre condurre il vaglio della censura in esame, risulta quindi preclusa la possibilità di enucleare profili di illegittimità della durata della fase preistruttoria, irrilevante dovendo pertanto ritenersi a tali fini l’eventuale semplicità degli accertamenti svolti.

Ed infatti, la mancata previsione di un termine di durata della fase che precede l’avvio dell’istruttoria costituisce regola generale che trova, invero, la propria ragione giustificatrice nel rilievo degli interessi tutelati, prevalenti rispetto a quelli dell’autore della condotta sanzionata alla certezza in ordine ai tempi del procedimento, venendo in rilievo una tipologia di procedimento che, nel sanzionare condotte illecite, è al contempo volto alla tutela dei consumatori a fronte di pratiche a efficacia durevole.

E’pertanto alle indicate coordinate normative che va parametrata la valutazione in ordine alla legittimità del procedimento esitato nell’adozione del gravato provvedimento, potendo la durata della fase preistruttoria incidere unicamente sulla quantificazione della sanzione in relazione al criterio inerente la durata della condotta, laddove – come avviene nella fattispecie in esame – tale durata avrebbe potuto essere ridotta a fronte di un più tempestivo intervento dell’Autorità, per come più avanti andrà ad illustrarsi.

Non conduce a diverse conclusioni la circostanza, dedotta da parte ricorrente, che la durata della condotta – determinata dalla irragionevole lunghezza della fase preistruttoria – sia stata posta a fondamento del provvedimento di rigetto degli impegni dalla stessa presentati al fine di rimuovere i segnalati profili di scorrettezza della pratica.

In proposito, osserva il Collegio che, seppure un più tempestivo intervento dell’Autorità avrebbe limitato la durata della pratica, il rigetto degli impegni è stato determinato dalla considerazione dell’elevato grado di offensività della condotta, dalla sua vastissima diffusione – che è cosa diversa dalla durata – e dalla possibile integrazione di una pratica manifestamente scorretta e grave con riferimento alla quale l’art. 27, comma 7, del Codice del Consumo, esclude l’applicabilità dell’istituto degli impegni, risultando quindi coerentemente adottato in relazione alle circostanze di rilievo della fattispecie concreta e dei relativi presupposti normativi.

Giova al riguardo ricordare che l’istituto degli impegni, delineato dall’art. 27, comma 7, del Codice del Consumo, come sostituito – unitamente al complesso degli articoli da 18 a 27- dall’art. 1 del D.Lgs. 2 agosto 2007, n. 146, emanato in attuazione della Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 2005/29/CE dell’11 maggio 2005 relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica la Direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le Direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio e il Regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento Europeo e del Consiglio ("direttiva sulle pratiche commerciali sleali") – comma che peraltro non trova specifico riscontro nelle disposizioni della direttiva comunitaria – appare modellato su quello della c.d. "decisione con impegni", introdotto, nell’ambito della tutela della concorrenza, dall’art. 9 del Regolamento CE n. 1/2003 e, analogamente a quest’ultimo, comporta una valutazione ampiamente discrezionale da parte dell’Autorità, tenuto conto del fatto che l’accettazione degli impegni non produce quell’effetto di chiarimento della regola giuridica che deriva, invece, dalle decisioni con le quali venga accertata la sussistenza e consistenza di un’infrazione.

Più specificamente, l’istituto è ispirato, nella sua struttura e nelle sue finalità, agli "impegni" noti alla legislazione antitrust comunitaria, già disciplinati dall’art. 3 del Regolamento del Consiglio (CEE) n. 17/1962 del 6 febbraio1962 (di attuazione degli artt. 85 e 86 del Trattato Istitutivo della Comunità Europea, ora artt. 81 e 82 della versione consolidata integrata dal Trattato di Nizza del 26 febbraio 2001, pubblicato nella G.U.C.E. 24 dicembre 2002, n. C 325), e quindi dall’art. 9 del successivo Regolamento del Consiglio (CE) n. 1/2003 del 16 dicembre 2002 (in tal senso: T.A.R. Lazio – Roma – Sez. I – 8 aprile 2009, n. 3723). Le disposizioni citate, come noto, autorizzano la Commissione a obbligare, mediante decisione, le imprese e associazioni d’impresa a porre fine all’infrazione (ossia a cessare da pratiche concordate anticoncorrenziali o da abusi di posizione dominante), mentre l’art. 5 del Reg. n. 1/2003, nel demandare alle Autorità garanti della concorrenza negli Stati membri l’applicazione degli artt. 81 e 82 "in casi individuali", egualmente le ha autorizzate ad "accettare impegni" di tal genere.

In attuazione dell’art. 5 del Reg. (CE) n. 1/2003, è stato introdotto – dall’art. 14 del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito nella legge 4 agosto 2006, n. 248- l’art. 14 ter della legge 10 settembre 1990, n. 287, che consente alle imprese, entro tre mesi dall’apertura dell’istruttoria per l’accertamento di un’infrazione alla disciplina antitrust nazionale o comunitaria, la presentazione d’impegni che – ove valutati idonei dall’Autorità – sono resi obbligatori e comportano la chiusura del procedimento senza accertamento dell’infrazione, con sanzione sino al 10% del fatturato nel caso di mancato rispetto degli impegni.

Con riferimento agli impegni previsti dall’art. 14 ter della legge n. 287 del 1990, questo Tribunale ha già avuto modo di precisare che l’accettazione degli impegni rispecchia valutazioni di ampia discrezionalità e che può essere rifiutata quando l’Autorità ritenga di dover comunque disporre l’irrogazione di una sanzione amministrativa in ragione della natura ed entità dell’infrazione, arguendo dal "considerando" di cui al punto 13 del Reg. (CE) n. 1/2003, secondo il quale "Le decisioni concernenti gli impegni non sono opportune nei casi in cui la Commissione intende comminare un’ammenda" (cfr. T.A.R. Lazio – Roma – Sez. I – 6 giugno 2008, n. 557; 13 luglio 2010, n. 24991).

La disciplina degli impegni di cui all’art. 27 comma 7 del D.Lgs. n. 206 del 2005 è stata integrata con le disposizioni contenute nell’art. 8 del Regolamento sulle procedure istruttorie in materia di pratiche commerciali e scorrette, di cui al provvedimento n. 17589, assunto con deliberazione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato del 15 novembre 2007, il quale a sua volta prevede testualmente che "Entro e non oltre trenta giorni dalla ricezione della comunicazione di avvio del procedimento, il professionista può presentare, in forma scritta, impegni tali da far venire meno i profili di illegittimità della pratica commerciale" (comma 1). "L’Autorità valuta gli impegni e: a) qualora li ritenga idonei, dispone con provvedimento la loro accettazione rendendoli obbligatori per il professionista, chiudendo il procedimento senza accertare l’infrazione; b) qualora li ritenga parzialmente idonei, fissa un termine al professionista per un’eventuale integrazione degli impegni stessi; c) nei casi di manifesta scorrettezza e gravità della pratica commerciale di cui all’articolo 27, comma 7, del Codice del Consumo o in caso di inidoneità degli impegni, delibera il rigetto degli stessi" (comma 2). "Successivamente alla decisione di accettazione di impegni, il procedimento potrà essere riaperto d’ufficio, laddove: a) il professionista non dia attuazione agli impegni assunti; b) si modifichi la situazione di fatto rispetto ad uno o più elementi su cui si fonda la decisione; c) la decisione di accettazione di impegni si fondi su informazioni trasmesse dalle parti che siano incomplete, inesatte o fuorvianti" (comma 3).

Orbene, dal coordinamento esegetico tra le disposizioni normative e regolamentari è agevole desumere che la sfera delle pratiche commerciali scorrette alle quali risulta riferibile l’istituto degli impegni è limitata a fattispecie di maggiore tenuità e minore impatto socioeconomico, stante l’espressa esclusione per le ipotesi di pratiche "manifestamente scorrette e gravi", che – deve ritenersi – individua una sorta di endiadi, essendo arduo immaginare che una pratica grave non sia anche "manifestamente", ossia ictu oculi, scorretta, e che a sua volta una pratica di palese evidente scorrettezza non presenti, proprio in funzione della sua qualificata scorrettezza, profili di gravità (T.A.R. Lazio Roma, sez. I, 13 luglio 2010, n. 24991).

Tale conclusione è confermata dalla circostanza che l’accettazione degli impegni da parte dell’Autorità implica la chiusura del procedimento istruttorio senza assunzione di alcun provvedimento, precludendo l’accertamento dell’infrazione, salva la sua riapertura nelle ipotesi espressamente previste (violazione degli impegni assunti, modificazioni della situazione di fatto presupposta all’accettazione degli impegni, erronea e fuorviante rappresentazione degli elementi informativi comunicati e considerati ai fini dell’accettazione degli impegni).

In sostanza, il legislatore nazionale ha introdotto un meccanismo di "definizione semplificata" per le pratiche commerciali scorrette di minore entità (potrebbe dirsi con assonanza penalistica "bagatellari"), fondato sulla formulazione di impegni da parte del professionista che risultino compiutamente idonei, secondo le circostanze e la discrezionale valutazione dell’Autorità, a determinare la cessazione della pratica, la eliminazione dei suoi effetti e/o comunque dei suoi profili d’illegittimità, secondo un meccanismo che richiama, in qualche modo, nei suoi presupposti, se non ovviamente nei suoi effetti, la desistenza volontaria ed ancor più il recesso attivo del delitto tentato e che invece, nella disciplina generale delle violazioni implicanti l’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie, incide soltanto sulla determinazione della misura della sanzione (ai sensi dell’art. 11 della legge 24 novembre 1981, n. 689, infatti, l’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione assume rilievo, assieme alla gravità della violazione, alla personalità dell’autore e alle sue condizioni economiche, ai fini della determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo ed un limite massimo).

La disciplina di riferimento, pertanto, nel circoscrivere, attraverso la previsione di specifici limiti all’applicabilità dell’istituto degli impegni, la potestà discrezionale dell’Autorità, ne riconosce tuttavia l’ampia latitudine relativamente all’accertamento della sussistenza di tali limiti ed alla valutazione circa la ricorrenza di condizioni che, per la peculiarità e complessità del caso concreto, ovvero per la necessità di stabilire dei principi con riguardo alla fattispecie, ovvero, ancora, per la presenza di un interesse dell’Autorità ad irrogare un’ammenda (attesa la funzione deterrente e di monito per gli operatori rivestita da quest’ultima), giustifichino – o meno – il rigetto degli impegni presentati, così procedendo, concludendo il procedimento ordinario, all’accertamento dell’infrazione.

Nessuna incidenza viziante del provvedimento di rigetto degli impegni può dunque attribuirsi alla durata della fase preistruttoria, sia in ragione delle illustrate coordinate di riferimento, sia in ragione delle ragioni sottese all’adozione dello stesso.

Quanto alla denunciata violazione del diritto di difesa della società ricorrente per non avere l’Autorità disposto l’audizione della stessa, in accoglimento della relativa richiesta, osserva il Collegio che, alla luce della previsione di cui all’art. 12 del Regolamento sulle procedure istruttorie, adottato con delibera dell’Autorità del 15 novembre 2007 n. 17589 – il quale dispone, al comma 2, che "Il responsabile del procedimento, ove ciò sia necessario ai fini della raccolta o della valutazione degli elementi istruttori, o venga richiesto da almeno una delle parti, può disporre che le parti siano sentite in apposite audizioni nel rispetto del principio del contraddittorio, fissando un termine inderogabile per il loro svolgimento" – non sussiste alcun diritto per la parte interessata ad essere sentita in apposita audizione, di cui ha fatto eventualmente richiesta, essendo rimessa al responsabile del procedimento la valutazione discrezionale in ordine alla utilità di esperire tale mezzo istruttorio in relazione alle specifiche esigenze istruttorie ed alle particolarità della fattispecie oggetto di indagine (ex plurimis: T.A.R. Lazio – Roma – Sez. I – 16 giugno 2011 n. 5390; 23 febbraio 2011, n. 1690; 8 aprile 2009, n. 3723; 9 dicembre 2009, n. 12593; Consiglio di Stato – Sez. VI – 23 luglio 2009, n. 4598).

La lettera della norma induce, difatti, a ritenere che, coerentemente con la ratio della stessa, la potestà attribuita al responsabile del procedimento di procedere all’audizione abbia carattere discrezionale sia quando l’audizione è disposta d’ufficio, sia quando la stessa è disposta su richiesta di almeno una delle parti.

Invero, decisivo rilievo ermeneutico deve tributarsi al dato letterale della norma laddove indica che, in entrambi i casi, il responsabile del procedimento "può disporre" tale mezzo istruttorio, per cui nessun dubbio può sussistere sulla discrezionalità della scelta.

Inoltre, da un punto di vista sistematico deve ritenersi che il normatore abbia inteso subordinare l’audizione alla verifica di un’effettiva esigenza istruttoria anche quando sia la parte a presentare la richiesta, atteso che, diversamente opinando, si perverrebbe alla paradossale conclusione che, a prescindere da qualunque valutazione di tipo istruttorio, debba procedersi a tutte le audizioni richieste, anche se innumerevoli, con conseguente aggravio del procedimento anche in assenza di specifiche necessità di disporre tale mezzo istruttorio.

Giova, peraltro, in proposito ricordare che il procedimento amministrativo, secondo quanto stabilito dalla legge n. 241 del 1990, si ispira al principio generale del contraddittorio scritto, e non a quello dell’oralità, come emerge chiaramente dall’art. 10 della citata legge, e tale principio costituisce indubbiamente anche il criterio informatore del procedimento in materia di pratiche commerciali scorrette come delineato dal citato Regolamento.

La circostanza che l’audizione debba essere sempre correlata alla sussistenza di esigenze istruttorie non interferisce con i diritti partecipativi e le prerogative difensive delle parti, che si compendiano nella possibilità di prendere visione degli atti del procedimento e di presentare memorie e documenti.

Ed infatti, il procedimento in materia di pratiche commerciali scorrette è caratterizzato da un compiuto sistema partecipativo, nel cui ambito il diritto di difesa dei soggetti coinvolti viene garantito e concretamente esercitato attraverso una pluralità di strumenti, cui vanno correlati specifici obblighi di comunicazione incombenti sull’Autorità, che mirano ad assicurare un pieno contraddittorio procedimentale.

Se, dunque, è rimessa alla discrezionale valutazione del responsabile del procedimento la decisione di disporre l’audizione, sia d’ufficio che su richiesta della parte del procedimento, deve ulteriormente osservarsi che la prospettazione del vizio relativo alla irregolarità procedimentale, connessa alla mancata audizione, deve necessariamente assumere una specifica rilevanza causale sul contenuto del provvedimento conclusivo, dovendo il professionista dimostrare in che misura la mancata audizione abbia interferito sulla decisione finale, esplicitando come il mancato espletamento dell’incombente istruttorio abbia impedito l’acquisizione di elementi determinanti o abbia dato causa ad un’errata valutazione delle circostanze di fatto.

Ciò posto, osserva il Collegio come parte ricorrente non abbia fornito precisi ed univoci elementi che possano ricondurre alla mancata audizione la presenza di vizi inficianti la gravata determinazione, essendosi essa limitata a lamentare come la mancata audizione non le abbia consentito di replicare alle deduzioni ed alle richieste del segnalante, con asserito pregiudizio del contraddittorio e del principio di difesa.

In proposito va precisato, in punto di fatto, che parte ricorrente ha, coerentemente con i principi che informano il procedimento concernente le pratiche commerciali scorrette, prodotto memorie e documenti al fine di rappresentare le proprie ragioni e tutelare la propria posizione, così esercitando pienamente e compiutamente le proprie prerogative difensive, senza che emergano ragioni per cui tale difesa avrebbe dovuto essere ulteriormente esplicata nel corso di un’audizione, non venendo indicato se e in che modo tale mezzo istruttorio avrebbe riguardato elementi nuovi o non già acquisiti dall’Autorità o che la parte non avrebbe potuto compiutamente illustrare e meglio esplicitare mediante produzione di memorie difensive, né risulta in alcun modo che la mancata audizione della parte avrebbe potuto condurre ad una diversa determinazione finale da parte dell’Autorità o che la stessa sia affetta da vizi causalmente riconducibili a tale denunciato profilo procedimentale che abbia impedito l’acquisizione di elementi determinanti o dato causa a un’errata valutazione delle circostanze di fatto.

Negativamente delibate le censure inerente i denunciati vizi procedimentali, vengono quindi in rilievo le contestazioni sollevate da parte ricorrente in ordine alle valutazioni espresse dall’Autorità sulla cui base è stato formulato il gravato giudizio di scorrettezza della pratica sanzionata.

Al riguardo, ritiene il Collegio indubitabile che, in ragione del contenuto dei messaggi pubblicitari, il prodotto Kilocal compresse sia stato presentato al pubblico dei consumatori, con elevata efficacia persuasiva veicolata dall’associazione visiva dello stesso alle immagini di piatti calorici, tra cui dolci, e dall’affermazione "non rinunciare ai piaceri della tavola’, quale rimedio svolgente una sicura azione inibitoria dell’assorbimento dei grassi e delle calorie, laddove trattasi, in realtà, come indicato peraltro sulla relativa confezione notificata al Ministero della Salute, di un integratore alimentare meramente coadiuvante nel controllo del peso in abbinamento ad una dieta ipocalorica ed a uno stile di vita sano che includa attività fisica, non potendo alle sostanze che compongono il prodotto riconoscersi la vantata efficacia di assorbimento dell’eccesso di calorie assunte.

La scorrettezza della pratica emerge, quindi, dalla falsa ed ambigua rappresentazione del prodotto, delle sue caratteristiche e dei risultati ottenibili, attribuendo allo stesso un’efficacia che in realtà non possiede, omettendo di indicare – quanto ai messaggi radiofonici – o non indicando con modalità idonee – come avviene per i messaggi televisivi e a mezzo stampa – la necessità di associare l’uso dell’integratore alimentare ad una dieta ipocalorica ed ad uno stile di vita adeguato, in tal modo inducendo i consumatori a comportamenti alimentari non corretti nella convinzione di poter utilizzare il prodotto come rimedio in caso di pasti abbondanti, tenuto anche conto della particolare predisposizione dei consumatori che hanno problemi di peso a prestare attenzione e credito a soluzioni facili ed efficaci.

In relazione al contenuto concreto dei messaggi sanzionati non può, dunque, condividersi quanto affermato da parte ricorrente che, nel giustificare l’enfasi utilizzata in ragione della natura pubblicitaria degli stessi, assume l’avvenuta corretta ed adeguata rappresentazione della necessità di abbinare il prodotto ad una dieta ipocalorica ed all’esercizio fisico.

Invero, tale indicazione risulta del tutto omessa nei messaggi radiofonici, mentre non è veicolata attraverso modalità idonee a controbilanciare la portata dei claims pubblicitari nei messaggi televisivi e in quelli diffusi a mezzo stampa, essendo nel primo caso riportata mediante scritta dinamica con caratteri ridotti, e nel secondo caso con una scritta priva di centralità ed inidonea a catturare l’attenzione.

Se, quindi – condividendo sul punto quanto affermato da parte ricorrente – non possono estrapolarsi dal complessivo messaggio singoli elementi al fine di verificare la scorrettezza della pratica, deve tuttavia rilevarsi, con riferimento al concreto atteggiarsi della fattispecie in esame ed avuto riguardo ai messaggi diffusi tramite spot televisivi e a mezzo stampa, che la collocazione marginale, anche dal punto di vista grafico, dell’indicazione della reale natura del prodotto e della sua efficacia meramente coadiuvante nella perdita di peso in associazione ad una dieta ipocalorica, appare inidonea a depotenziare l’autonoma valenza degli assertivi claims principali, volti ad enfatizzare il prodotto come rimedio dopo un pasto abbondante in quanto capace di assorbire le calorie ed i grassi, accompagnati da immagini di piatti calorici e da affermazioni quali "non rinunciare ai piaceri della tavolà o "dopo un pasto abbondante riduce le calorie’, che risultano quindi idonei ad indurre in errore i consumatori.

Aggiungasi che nei messaggi radiofonici la necessità di abbinare il prodotto ad una dieta ipocalorica ed ad attività fisica è completamente omessa, non potendo tale omissione trovare giustificazione nelle caratteristiche del mezzo di diffusione del messaggio, posto che – in disparte la considerazione che anche tale mezzo avrebbe consentito una diversa e più corretta informazione – gli oneri di informazione ricadenti sul professionista, posti a tutela dei consumatori, non possono subire limitazioni in ragione della natura del mezzo di comunicazione, seppur compatibilmente con le caratteristiche dello stesso, essendo la scelta di enfatizzare taluni elementi piuttosto che altri frutto di una libera e consapevole scelta del professionista, il quale, a fronte dei limiti temporali o di spazio del messaggio, può sempre optare per una diversa evidenza o enfasi relativamente ad informazioni indispensabili ai fini di una corretta percezione, da parte del consumatore, delle reali caratteristiche del prodotto.

La scorrettezza di una pratica volta a reclamizzare un prodotto può, difatti, discendere anche dalle sole modalità di presentazione dello stesso, attraverso l’enfatizzazione di elementi di particolare capacità persuasiva che risulti idonea a creare nei consumatori una non corretta e completa percezione delle caratteristiche essenziali del prodotto, laddove l’onere di correttezza gravante sul professionista impone di rendere informazioni complete, corrette e precise, specificando in modo contestuale e con adeguata evidenza grafica le caratteristiche del prodotto in modo da non indurre i consumatori ad assumere decisioni non consapevoli.

Quanto all’efficacia del prodotto, ritiene il Collegio che correttamente l’Autorità abbia considerato la relazione del Dott. Mirabile – prodotta dalla società come dimostrazione della veridicità dei vanti di efficacia – non idonea a legittimare il contenuto dei claims principali volti ad attribuire al prodotto la capacità di contrastare l’assorbimento dei grassi e delle calorie indipendentemente da restrizioni alimentari, limitandosi tale relazione ad illustrare le proprietà dei diversi componenti del prodotto, che può quindi agire come mero coadiuvante nelle diete ipocaloriche volte alla riduzione del peso corporeo.

Prive di fondamento devono, pertanto, ritenersi le affermazioni di parte ricorrente volte a sostenere l’adeguatezza dell’indicazione della necessità di abbinare il prodotto ad una dieta ipocalorica ed esercizio fisico, essendo invece il prodotto presentato come rimedio sicuro in caso di pasti abbondanti per ridurre l’assorbimento di grassi e calorie.

Irrilevante deve, inoltre, ritenersi – ai fini della formulazione del giudizio di scorrettezza della pratica – l’intervenuta approvazione della promozione del prodotto da parte dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria, posto che la conformità di una pratica commerciale alle prescrizioni dettate da altri organi e l’assolvimento degli oneri di informazione e di trasparenza che informano uno specifico settore, non escludono la possibilità di configurare una pratica come scorretta, non essendovi coincidenza tra l’ambito e le finalità di tutela apprestati da discipline di settore e quelli sottesi al Codice del Consumo, il quale introduce un nuovo quadro di tutela che si aggiunge ai normali strumenti di tutela, nonché a quelli derivanti dall’esistenza di diverse e specifiche discipline di settore.

Ciò in ragione della specificità degli interessi pubblici protetti dal Codice del Consumo e della complementarietà, rispetto ad esso, dei distinti apparati normativi disciplinanti determinati settori, perseguendo le relative norme diverse e complementari finalità.

In tale prospettiva, essendo l’attività dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato volta alla protezione del consumatore e degli interessi concorrenziali delle imprese, l’applicazione della normativa di carattere generale in materia di tutela dei consumatori non trova ostacoli nell’esistenza di specifiche discipline di settore, con la conseguenza che lo standard di diligenza ricadente sul professionista va parametrato al bene tutelato dalla disciplina da applicare, coerentemente con le finalità della stessa.

Consegue da ciò che la conformità della condotta sanzionata ai parametri dello I.A.P. non è idonea ad attestare l’assolvimento degli oneri di diligenza imposti dal Codice del Consumo, da valutarsi alla luce delle diverse finalità di tutela allo stesso sottese, non potendo le valutazioni di un organismo di autodisciplina elidere le diverse competenze e natura dell’intervento dell’Autorità.

Quanto alla riscontrata omissione, nei messaggi pubblicitari, del richiamo alle avvertenze previste dalle Linee Guida Ministeriali relativamente alla necessità di consultare un medico ove l’uso del prodotto si protragga per più di tre settimane, osserva il Collegio, condividendo sul punto quanto affermato da parte ricorrente, che tale avvertenza di riferisce, sulla base delle richiamate Linee Guida, non all’uso del prodotto ma alla dieta.

Non può, peraltro, a tale imprecisione, contenuta nel gravato provvedimento, annettersi portata inficiante le valutazioni con lo stesso espresse, posto che, avuto riguardo ai profili sostanziali della questione, risulta comunque omesso il riferimento alla prescritta avvertenza.

Inoltre, se il Ministero della Salute ha autorizzato il commercio delle confezioni del prodotto prive di tali indicazioni precedenti all’introduzione, nel 2009, di tali avvertenze, così da non pregiudicare l’attività economica dell’azienda nel periodo necessario per la ristampa delle nuove confezioni, correttamente ha rilevato l’Autorità che il professionista, in ottemperanza all’onere di diligenza sullo stesso incombente, avrebbe perlomeno potuto integrare, nelle more dell’adeguamento delle confezioni, il contenuto dei messaggi diffusi a mezzo stampa, radio e TV, inserendo negli stessi le prescritte avvertenze.

Negativamente delibate le censure ricorsuali proposte avverso le valutazioni di scorrettezza della pratica sanzionata espresse dall’Autorità, meritano invece accoglimento le doglianze volte a lamentare la quantificazione della sanzione, nella misura di euro 200.000, come parametrata alla durata della diffusione della pratica, individuata nel gravato provvedimento in due anni, e segnatamente il 2008 ed il 2009.

Ritiene in proposito il Collegio che, come dianzi illustrato, avendo l’Autorità ricevuto le segnalazioni da parte di un consumatore e di una società concorrente nei giorni 11 luglio 2008 e 19 marzo 2009 ed avendo la stessa richiesto alla società ricorrente informazioni inerenti la pratica in data 16 settembre 2008, per poi rimanere inerte sino all’avvio del procedimento, intervenuto con comunicazione del 9 marzo 2010, la pur consentita – dal vigente quadro normativo di riferimento dianzi illustrato – lunga durata della fase pre istruttoria debba trovare idonea considerazione nella determinazione della sanzione, dal momento che un più tempestivo avvio del procedimento e della conseguente sua conclusione avrebbe inciso sulla durata della pratica stessa, impedendo il protrarsi del pregiudizio da essa discendente per i consumatori.

Inoltre, non va sottaciuto, per come rilevato dalla società ricorrente, che l’inerzia dell’Autorità, successivamente alla prima richiesta di informazioni, abbia determinato un affidamento in capo al professionista in ordine all’assenza dei presupposti per l’avvio del procedimento di accertamento, inducendolo a proseguire nella pratica commerciale, così prolungandone la relativa durata.

Vanno, invece, rigettate le censure ricorsuali volte a lamentare la mancanza di motivazione della sanzione irrogata e la sproporzione della stessa in relazione ai dati di bilancio, in quanto più elevata rispetto al complessivo utile annuo ricavato dalla società per tutta l’attività svolta, senza peraltro tener conto della redditività del prodotto cui la condotta si riferisce.

Osserva in proposito il Collegio che l’Autorità abbia correttamente commisurato la sanzione irrogata alla dimensione economica del professionista, rappresentato da una società di rilevanti dimensioni con una consolidata reputazione nello specifico settore di attività, in corretta applicazione dei parametri normativi di riferimento.

L’art. 27, comma 9, del D.Lgs. n. 206 del 2005 prevede che, con il provvedimento che vieta la pratica commerciale scorretta, l’Autorità dispone l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 euro a 500.000 euro, tenuto conto, in quanto applicabili, dei criteri individuati dall’articolo 11 della legge n. 689 del 1981, richiamato dal comma 13 del citato articolo, ed in particolare, della gravità della violazione, dell’opera svolta dall’impresa per eliminare o attenuare l’infrazione, della personalità dell’agente, nonché delle condizioni economiche dell’impresa stessa.

La valutazione in ordine alla gravità della condotta transita anche attraverso la considerazione della dimensione economica e dell’importanza del professionista, dovendo in proposito ricordarsi che l’articolo 11 della legge n. 689 del 1981 individua, tra i parametri di commisurazione della sanzione, oltre che la gravità della violazione e l’opera svolta dall’impresa per eliminare o attenuare l’infrazione, anche la personalità dell’agente e le condizioni economiche dell’impresa stessa.

La valutazione della dimensione economica e dell’importanza del professionista risponde a due diverse finalità in quanto volta, da un lato, a garantire l’effettiva efficacia deterrente della sanzione pecuniaria secondo criteri di proporzionalità ed adeguatezza e, dall’altro, concorre a delineare la gravità della condotta nella considerazione che la dimensione economica del professionista, la sua notorietà – e conseguente credibilità – e la sua posizione nel mercato rendono più efficace la comunicazione pubblicitaria aggravandone la valenza lesiva.

Il rilievo da attribuire alla dimensione economica del professionista è funzionale al rispetto del principio di proporzionalità della sanzione, che costituisce peraltro corollario di quello di ragionevolezza e di parità di trattamento, aventi rango costituzionale fondamentale.

Il principio di proporzionalità, che investe lo stesso fondamento dei provvedimenti limitativi delle sfere giuridiche del cittadino (in specie quelle di ordine fondamentale) e non solo la graduazione della sanzione, assume nell’ordinamento interno lo stesso significato che ha nell’ordinamento comunitario, come confermato dalla clausola di formale recezione ex art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990 come novellato dalla legge n. 15 del 2005.

Tale principio, si articola nei distinti profili inerenti l’idoneità, ovvero il rapporto tra il mezzo adoperato e l’obiettivo perseguito, risultando in virtù di tale parametro legittimo l’esercizio del potere se la soluzione adottata consenta di raggiungere l’obiettivo; la necessarietà, ovvero l’assenza di qualsiasi altro mezzo idoneo ma tale da incidere in misura minore sulla sfera del singolo, dovendo in virtù di tale parametro la scelta tra tutti i mezzi astrattamente idonei cadere su quella che comporti il minor sacrificio; l’adeguatezza, ovvero la tollerabilità della restrizione per il privato, risultando, in virtù di tale parametro, legittimo l’esercizio del potere, pur idoneo e necessario, solo se rispecchia una ponderazione armonizzata e bilanciata degli interessi.

La coerente e corretta applicazione di tali parametri non può, quindi, prescindere dalla valutazione della dimensione economica del professionista al fine di garantire l’adeguatezza e proporzionalità della sanzione.

Alla luce degli illustrati paradigmi interpretativi, come individuati sulla base della disciplina di riferimento e delle finalità alla stessa sottese, risulta quindi che l’Autorità abbia fatto corretta applicazione degli esaminati criteri di quantificazione della sanzione, risultando censurabile tale quantificazione solo sotto l’esaminato profilo della durata della condotta, in ordine alla quale ha indubitabilmente inciso la lunghezza della fase pre istruttoria.

In conclusione, alla luce delle considerazioni sopra illustrate, il ricorso in esame va in parte accolto, limitatamente alla quantificazione della sanzione, in ragione del riscontrato profilo di fondatezza della censura volta a contestare la commisurazione della stessa alla durata della condotta, con conseguente parziale annullamento della gravata delibera e rideterminazione, in applicazione dell’art. 134, comma 1, lettera c), del codice del processo amministrativo, della sanzione pecuniaria irrogata nella misura di euro 100.000, ritenuta equa e proporzionata rispetto agli elementi di rilievo della fattispecie e rispondente ai criteri di cui all’art. 11 della legge n. 689 del 1981.

Sussistono giusti motivi, in ragione del parziale accoglimento del ricorso, per disporre la compensazione tra le parti delle spese del giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima)

definitivamente pronunciando sul ricorso N. 11622/2010 R.G., come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, rideterminando la sanzione nella misura ivi prevista.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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