Cass. civ., sez. I 17-11-2006, n. 24494 Omessa indicazione nella intestazione della sentenza del nome del difensore di una delle parti – Manifesta infondatezza – Pronuncia di divorzio – Regime di non indissolubilità del matrimonio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con sentenza non definitiva depositata in data 16 gennaio 2002, il Tribunale di Padova dichiarò, su ricorso di R.F., la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario contratto dallo stesso il 18 settembre 1971 con D.F.D. L., disponendo, con separata ordinanza, la prosecuzione del giudizio.

2. – La sentenza fu impugnata dalla D.F. – che deduceva i propri convincimenti religiosi sulla indissolubilità del vincolo coniugale sulla base dei quali aveva contratto matrimonio, nonchè il contrasto dell’istituto della cessazione degli effetti civili del matrimonio con la Costituzione – innanzi alla Corte d’appello di Venezia, che, con sentenza depositata in data 17 marzo 2003, rigettò il gravame, escludendo il dedotto contrasto con la Carta costituzionale, e sottolineando la genericità dei motivi di appello, in rapporto alla consolidata giurisprudenza nel senso indicato.

3. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre la signora D.F. sulla base di quattro motivi. L’intimato non si è costituito nel giudizio.

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione dell’art. 132 cod. proc. civ. per la omessa o inesatta indicazione dei procuratori delle parti. Mentre nella intestazione della sentenza impugnata si legge che la signora D.F. è stata in giudizio in grado di appello "col proc. dom. in Padova avv.to B. G. e col patrocinio dell’avv.to suindicato per mandato in ricorso in appello", dal mandato posto a margine del ricorso in appello emerge che l’appellante, odierna ricorrente, aveva conferito mandato all’avv.to V. V., e solo a lui. inoltre, la D. F. aveva eletto domicilio non già in Padova, ma in Venezia, presso lo studio dell’avvocato B., appartenente, infatti, al Foro di Venezia. La sentenza contiene anche un ulteriore errore, indicando inesattamente l’avv. B., domiciliato presso lo studio dell’avv. L., come unico difensore del R. in secondo grado, mentre questi aveva conferito il mandato ad entrambi. I denunciati errori non costituirebbero mere irregolarità formali, ma veri e propri vizi della sentenza impugnata, che ne determinerebbero la nullità, non consentendo la esatta identificazione delle parti e dei rispettivi difensori.

2. – La censura non è meritevole di accoglimento.

3. – Come ripetutamente affermato da questa Corte, l’omessa o inesatta indicazione nella intestazione della sentenza del nome del difensore di alcuna delle parti produce nullità della sentenza solo se riveli che il contraddittorio non si è regolarmente costituito, a norma dell’art. 101 cod. proc. civ. – ipotesi che non si è realizzata nella specie -, mentre, in caso contrario, vertendosi in una ipotesi di mero errore materiale, questa da luogo ad una mera irregolarità, emendabile con la procedura di cui agli artt. 287 e 288 cod. proc. civ. (cfr., tra le altre, Cass., sentt. n. 16989 del 2003, n. 6171 del 2000, n. 2869 del 1999).

4. – Con il secondo motivo, si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia. La Corte veneta avrebbe completamente omesso ogni indicazione degli logico-giuridici sui quali aveva fondato la propria decisione, limitandosi ad escludere il dedotto contrasto dell’istituto della cessazione degli effetti civili del matrimonio con la Costituzione sulla base del solo richiamo di orientamenti già espressi dalla giurisprudenza, ritenendo un "fuor d’opera" la specificazione del proprio percorso argomentativo.

5. – La doglianza è inammissibile.

6. – La questione del vulnus che la disciplina del divorzio recherebbe ai principi costituzionali è questione di stretto diritto. In relazione ad essa, pertanto, non è deducibile il vizio di motivazione, denunciabile come motivo di ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, esclusivamente con riguardo all’accertamento ed alla valutazione dei fatti.

7. – Con il terzo motivo, si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, artt. 1 e seguenti. Avrebbe errato la Corte territoriale a non tener conto, nella valutazione della legittimità della cessazione, dichiarata dal Tribunale di Padova, degli effetti civili del matrimonio tra il R. e la D.F., delle argomentazioni poste a fondamento del gravame da quest’ultima, incentrate sulla indissolubilità del matrimonio concordatario da lei contratto per le sue convinzioni morali e religiose, condivise anche dal coniuge all’epoca del matrimonio. La Corte d’appello si era limitata, invece, a valutare la sola sussistenza del requisito temporale di cui alla citata L. n. 898 del 1970, art. 3, n. 2, lettera b), senza considerare che la dichiarazione di divorzio non consegue automaticamente alla constatazione della presenza di una delle cause previste dall’art. 3 della stessa legge.

8. – Con il quarto motivo, si denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 82 cod. civ.. La pronunzia del divorzio tra la ricorrente e il R. sarebbe contraria alle norme del culto cattolico garantite dal Concordato concluso con la Chiesa cattolica, ed inoltre alla stessa comune volontà dei coniugi, che, al momento di contrarre il matrimonio, avevano espressamente accettato e convenuto la indissolubilità dello stesso. La decisione della Corte veneta, che non aveva tenuto conto di ciò, avrebbe violato i diritti fondamentali della personalità della ricorrente.

9. – Il terzo ed il quarto motivo, da esaminare congiuntamente avuto riguardo alla connessione logica che li avvince, volti, come sono, entrambi alla censura della opzione favorevole alla possibilità di scioglimento del vincolo contratto con il matrimonio religioso celebrato con rito concordatario, sono infondati.

10.1. – Al riguardo, premesso il rilievo della inconferenza del richiamo alla L. n. 898 del 1970, art. 1, il quale si riferisce allo scioglimento del matrimonio contratto a norma del codice civile, va considerato che lo Stato italiano, attraverso il Concordato con la Santa Sede, non ha inteso recepire la disciplina canonistica del matrimonio, limitandosi, invece, a riconoscere al matrimonio contratti secondo il diritto canonico, e regolarmente trascritto, gli stessi effetti di quello celebrato davanti all’ufficiale dello stato civile, ferma restando la regolamentazione di tali effetti, anche quanto alla loro permanenza nel tempo, secondo le norme del proprio ordinamento (v., in tal senso, Corte cost., sent. n. 176 del 1973).

Resta, con ciò, ribadito il principio del primato della legge nazionale nella regolamentazione degli effetti civili del vincolo coniugale, già affermato dalla risalente giurisprudenza di legittimità, cui ha fatto correttamente riferimento la Corte territoriale nella sentenza impugnata (v., per tutte, Cass., sent. n. 5347 del 1980).

10.2. – Logico corollario – anch’esso ampiamente sottolineato dalla giurisprudenza di legittimità (v. Cass., sentt. n. 4921 del 1978, n. 1483 del 1976, n. 835 del 1975, n. 1270 e n. 1334 del 1974) – di siffatto principio è la esclusione della configurabilità di un contrasto della legge n. 898 del 1970, prodotto della scelta adottata dal Parlamento italiano di introdurre nell’ordinamento nazionale la previsione di casi di scioglimento, e di cessazione degli effetti civili, del matrimonio, con l’art. 34 del Concordato con la Chiesa cattolica del 1929 (e, quindi, anche con il nuovo Concordato del 1985).

Del resto, a tale conclusione era pervenuto, già all’indomani della entrata in vigore della citata L. n. 898 del 1970, lo stesso giudice delle leggi che, con le sentenze n. 176 del 1973, cit., e n. 169 del 1971 (sulle quali si tornerà tra breve), aveva escluso che, con i Patti lateranensi, lo Stato avesse assunto alcun obbligo di non introdurre nell’ordinamento l’istituto del divorzio.

10.3. – Né nel nuovo regime di non indissolubilità del vincolo coniugale è ravvisabile il contrasto, denunciato dalla ricorrente, con i suoi diritti fondamentali di cattolica, in quanto la previsione della possibilità di porre fine agli effetti civili del matrimonio concordatario non spiega, com’è ovvio, alcuna incidenza sul vincolo religioso, la cui permanenza non è affatto posta in discussione, e, pertanto, non reca vulnus all’esplicazione dei convincimenti etici e religiosi del contraente contrario al divorzio.

Per le ragioni esposte, nessuna rilevanza può assumere, nella specie, la circostanza, posta in evidenza dalla ricorrente, della condivisione delle sue convinzioni morali e religiose, all’epoca in cui era stato contratto il vincolo, da parte del proprio coniuge, che, tra l’altro, aveva presentato il ricorso per la dichiarazione del divorzio.

Va, al riguardo, ancora una volta sottolineata la correttezza della sentenza della Corte veneta, che ha richiamato sul punto la pregressa giurisprudenza costituzionale e di legittimità. Ed infatti, rileva Cass., 4921 del 1978, cit., che la L. n. 898 del 1970, art. 3 ricollega la pronuncia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio a situazioni obiettive, il cui accertamento è rimesso al giudice, senza perciò introdurre alcuna disparità di trattamento dei coniugi, nè lesione di diritti inviolabili della persona, e pertanto manifestamente non ponendosi in contrasto con gli artt. 2 e 3 della Costituzione. E la stessa sentenza esclude altresì il contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost. della L. n. 898 del 1970, art. 2 della medesima, il quale disciplina la cessazione degli effetti civili conseguenti alla f trascrizione del matrimonio religioso.

11. – Infine, con il quinto motivo, si eccepisce la illegittimità costituzionale della L. n. 898 del 1970, art. 2, nella parte in cui consente la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, in particolare, la norma denunciata si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., comma 1, nella parte in cui esso sancisce la pari dignità e l’uguaglianza di tutti i cittadini – e, quindi, anche dei coniugi – davanti alla legge, senza distinzione ? "di religione ?, di condizioni personali e sociali". La stessa norma recherebbe, inoltre, vulnus all’art. 7 Cost., che stabilisce la sovranità e l’indipendenza dello Stato e della Chiesa "ciascuno nel proprio ordine" e che i loro rapporti – anche per quanto riguarda gli effetti civili dei matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico – "sono regolati dai Patti Lateranensi".

In attuazione di detta norma, si legge nel ricorso, la L. 25 marzo 1985, n. 121, art. 8 (Nuovo Concordato tra Repubblica italiana e Santa Sede), come già faceva l’art. 34 del Concordato dell’11 febbraio 1929, disciplina interamente gli effetti civili di detti matrimoni, prevedendo che, una volta che gli stessi siano stati trascritti nei registri dello stato civile, solo le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai Tribunali ecclesiastici e dichiarate efficaci nella Repubblica italiana possono far venir meno detti effetti, e non anche le pronunce di cessazione degli effetti civili emesse da giudici dello Stato italiano su tali matrimoni, come confermato anche dal primo comma della stessa norma, che afferma che i matrimoni concordatari sono regolati "secondo le norme del diritto canonico", che li considera indissolubili. La L. n. 898 del 1970, art. 2 violerebbe, poi, l’art. 8 Cost., comma 1, che, nel garantire la libertà religiosa, prescrive che "tutte le confessioni religiose sono Ugualmente libere davanti alla legge" e che "le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano". La norma censurata si porrebbe, infine, in contrasto con l’art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili della personalità dell’individuo anche nelle formazioni sociali in cui la stessa si svolge, come la famiglia; con l’art. 29 Cost., che riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, tendendo a tutelarne l’unità; con l’art. 31 Cost., volto espressamente ad agevolare la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi.

12. – La eccepita questione di legittimità costituzionale è manifestamente infondata.

13.1. – Il contrasto della disciplina della cessazione degli effetticivili del matrimonio con gli artt. 2 e 3 Cost., oltre che con l’art. 29 Cost., era già stato escluso, come si è riferito sub 10.3., da questa Corte con la sentenza n. 4921 del 1978, alla stregua del rilievo che fra i diritti essenziali della famiglia non è annoverabile quello alla indissolubilità dell’unione matrimoniale, dalla quale trae origine la famiglia stessa. Questa, come organismo, è tutelata nel momento della sua formazione e nel corso del suo sviluppo, ma non anche in rapporto a situazioni che, conseguenti al venir meno della comunione materiale e spirituale dei coniugi, ne determinano la fine: proprio perchè la famiglia viene considerata nel suo aspetto di comunità naturale, i diritti intangibili che ad essa si ricollegano, anteriori a qualunque riconoscimento della legge positiva, restano condizionati alla persistenza del nucleo familiare, come risulta naturalmente operante, venuta meno la quale, la tutela costituzionale cessa di operare.

Alle esposte argomentazioni il Collegio intende prestare piena adesione, non senza aggiungere che le stesse risultano idonee a dare conto della ritenuta insussistenza altresì del vulnus all’art. 31 Cost., che, per l’appunto, tutela la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, oltre alla maternità, all’infanzia ed alla gioventù, impegnando lo Stato a favorire gli istituti necessari allo scopo, da individuare, peraltro, ad opera del legislatore secondo modalità e misure rimesse alla sua discrezionalità (v. Corte cost., sent. n. 81 del 1966).

13.2. – La citata sentenza di questa Corte n. 4921 del 1978 aveva escluso altresì la violazione dell’art. 7 Cost., richiamando le precedenti pronunce della Corte costituzionale (parimenti ricordate sub 10.2.) n. 176 del 1973 e n. 169 del 1971. Quest’ultima, in particolare, aveva sottolineato che, poichè il predetto art. 7 afferma, tanto per lo Stato quanto per la Chiesa, i principi di indipendenza e di sovranità di ciascuno nel proprio ordine, una limitazione della competenza statale sul punto degli effetti civili del vincolo matrimoniale, che nell’ordinamento statale nasce dalla legge civile ed è da questa regolata, sarebbe dovuta risultare da una norma espressa, mentre, in mancanza di questa, non desumibile da argomenti interpretativi, tanto più che, in materia di accordi internazionali, vale il criterio della interpretazione restrittiva degli impegni che comportino per uno dei contraenti l’accettazione di limitazioni alla propria sovranità. 13.3. – La citata sentenza aveva, infine, respinto il dubbio di contrasto della disciplina in esame con l’art. 10 Cost., poichè la L. n. 898 del 1970 – come si è già chiarito sub 10.2. – non contraddice l’art. 34 del Concordato.

13.4. – Del tutto inconferente deve, poi, ritenersi il contrasto della stessa legge con l’art. 8 Cost., che si riferisce alla copertura costituzionale dei diritti delle confessioni religiose diverse da quella cattolica.

13.5. – Conclusivamente, il ricorso va rigettato. Non v’è luogo a provvedere sulle spese del presente giudizio, non essendo stata spiegata attività difensiva dall’intimato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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