Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 31-05-2011) 03-08-2011, n. 30692

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 6 maggio 2010 la Corte d’Assise d’Appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza emessa dalla Corte d’Assise di quella medesima città il 22 maggio 2009:

– ha ridotto da anni 26 ad anni 22 di reclusione la pena inflitta ad I.L.;

– ha ridotto dall’ergastolo con isolamento diurno per mesi 3 all’ergastolo la pena inflitta a IO.Gi.;

– ha ridotto dall’ergastolo con isolamento diurno per mesi 3 all’ergastolo la pena inflitta a R.A.;

– ha ridotto da anni 18 ad anni 14 di reclusione la pena inflitta a G.R., con la già concessa attenuante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8, e con le attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti.

2 I.L., IO.Gi., R.A. e G.R. sono stati condannati alle pene di cui sopra siccome ritenuti responsabili, in concorso tra loro, nonchè con N.S. e S.C., nel frattempo deceduti:

– del reato di omicidio volontario aggravato nei confronti di GE.Sa., colpito con numerosi colpi esplosi con una pistola calibro 357 magnum, esplosi da S.C., con le aggravanti del numero di persone superiore a cinque; dell’aver commesso il fatto avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p., e, comunque, al fine di agevolare l’attività del clan camorristico Natale, operante in Caivano e zone circostanti; della premeditazione, nonchè dei motivi abietti e futili ( art. 110 c.p., art. 112 c.p. n. 1, art. 61 c.p., n. 1, art. 575 c.p., art. 577 c.p., nn. 1 e 3, L. n. 203 del 1991, art. 7);

– del delitto di illegale detenzione e porto in luogo pubblico di più armi comuni da sparo, fra cui una pistola calibro 357 magnum ed una pistola calibro 9×21, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso; con le aggravanti del numero dei compartecipi superiore alle cinque unità; dell’avere commesso il fatto al fine di eseguire il reato che precede e della finalità mafiosa ( art. 110 c.p., art. 112 c.p., n. 1, art. 81 cpv. c.p., art. 61 c.p., n. 2, L. n. 497 del 1974, artt. 10, 12 e 14, L. n. 201 del 1991, art. 7).

3. L’omicidio di GE.Sa., avvenuto in (OMISSIS) il (OMISSIS), era da inserire nell’ambito di un conflitto fra clan camorristici rivali, in particolare fra il clan facente capo a N.S. egemone in Caivano e dintorni ed il clan facente capo a Ru.Al. per il controllo delle piazze di spaccio della droga, con epicentro nella zona di Caivano denominata " (OMISSIS)" ed il GE. era stato ucciso in quanto sospettato di avere fatto da palo nell’omicidio di GR.Pa., affiliato al clan Natale. La ricostruzione dell’evento criminoso era avvenuta grazie alle dichiarazioni di G.R., appartenente al clan Natale, diventato collaboratore di giustizia, a conoscenza della dinamica dell’omicidio per aver fatto parte del commando che l’aveva eseguito unitamente ad IO.Gi., I.L., S.C. e R.A., questi ultimi due "prestati" dal clan camorristico Belforte di Marcianise, con il quale il clan Natale aveva rapporti di colleganza.

Costoro erano giunti sul luogo in cui si trovava la vittima, individuato a seguito di un primo sopraluogo effettuato dal propalante G. assieme ad un non meglio identificato C.;

l’ I. aveva ricevuto una telefonata, subito dopo la quale aveva indicato all’esecutore materiale SALZANO le fattezze della vittima (persona grassa col marsupio); a quel punto il S., che era a bordo di un ciclomotore guidato dal R., era sceso dal motomezzo, si era posto di fronte alla vittima ed aveva esploso nei suoi confronti 4-5 colpi di pistola con un revolver 357 magnum;

finite le munizioni, aveva chiesto al R. l’altra pistola di cui il commando era fornito per il colpo di grazia, che non aveva potuto essere esploso perchè la pistola consegnatagli si era inceppata;

dopo di che tutti si erano dati alla fuga.

La descrizione dell’evento omicidiario anzidetto aveva ricevuto riscontro esterno dalle dichiarazioni rese da due testimoni oculari, tali RO.En. e F.A..

Ulteriore riscontro alle dichiarazioni del G. era venuto dalle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia FR. M., elemento di spicco del clan Belforte di Marcianise, strettamente collegato al clan Natale, il quale aveva riferito notizie sull’omicidio apprese direttamente dal N.. Di detto omicidio aveva parlato anche un altro collaboratore di giustizia, M.G., particolarmente attendibile quale fonte autorevole ed autonoma di conoscenza, per il ruolo di primo piano da lui ricoperto nel clan di N.S., dal quale aveva avuto notizia dell’omicidio in esame, con indicazione precisa dell’esecutore materiale, indicato nel S.; ed il N. gli aveva riferito che avevano preso parte all’omicidio GE. anche i due "scemi", individuati nell’ I.L. e nel L., quest’ultimo peraltro mandato assolto dal delitto in esame, in quanto non erano emersi adeguati elementi di colpevolezza nei suoi confronti.

La chiamata in correità fatta dal collaborante G. nei confronti di I. aveva trovato ulteriore riscontro nelle dichiarazioni del collaborante LE.Ge., altro elemento di spicco del clan Natale, il quale aveva appreso dell’omicidio direttamente dal N. ed aveva effettuato una ricognizione fotografica dell’ I..

3.La Corte territoriale ha ridotto la pena al G., avendo valorizzato il contributo da lui fornito alla ricostruzione dell’omicidio in esame ed avendo pertanto ritenuto di concedergli le attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti; ha ridotto la pena allo IO. ed al R. avendo ritenuto che l’aumento di pena nei loro confronti a titolo di continuazione per i reati concernenti le armi fosse da ricomprendere nell’ambito dei 5 anni; ha ridotto la pena all’ I. avendo rilevato come il giudice di primo grado avesse determinato la pena nei suoi confronti partendo da una pena (anni 25 di reclusione) illegale, siccome superiore a quella massima di anni 24 di reclusione prevista dalla legge ed avendo determinato tale pena base in anni 21 di reclusione per il delitto di omicidio volontario, con le già concesse attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, pena elevata ad anni 22 di reclusione per la continuazione con i reati concernenti le armi.

4.Avverso detta sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Napoli ricorrono per cassazione I.L., IO.Gi., R.A. e G.R. per il tramite dei rispettivi difensore; G.R. ha altresì personalmente proposto il 16 maggio 2011 ulteriori motivi aggiunti.

5. I.L. ha dedotto motivazione carente ed illogica, nonchè violazione art. 192 c.p.p., lamentando che la Corte territoriale non aveva verificato in modo adeguato l’attendibilità dei collaboratori di giustizia, sia sotto il profilo intrinseco, sia sotto il profilo della sussistenza di obiettivi riscontri esterni;

era in particolare da ritenere apparente ed illogica la motivazione addotta dalla Corte territoriale, per non avere essa verificato la credibilità soggettiva dei collaboranti.

Avrebbero dovuto invece essere accertata la loro attendibilità;

l’attendibilità intrinseca della chiamata di correo, nonchè l’esistenza di riscontri esterni, che potevano consistere anche nelle dichiarazioni rese da altre persone, tali da potere essere qualificate come convergenti in ordine al fatto materiale oggetto della narrazione, indipendenti e specifiche; e le dichiarazioni de relato, per potere assurgere al rango di prove, dovevano essere intrinsecamente attendibili non solo con riferimento al chiamante, ma altresì con riferimento alle persone che avevano fornito le notizie.

Nei confronti di esso ricorrente i collaboranti M. e LE. avevano fatto dichiarazioni "de relato", mentre l’unico collaborante ad avere avuto una diretta percezione dei fatti era stato il G., il quale tuttavia non era attendibile in quanto aveva negato di essere al corrente dell’azione delittuosa che stava andando a commettere ed aveva tenuto un comportamento opportunista, avendo dapprima lasciato il clan Natale per aderire al clan Russo, per poi tornare al primo dopo l’uccisione del Ru..

I collaboranti erano stati poi oltremodo imprecisi nell’indicare il movente dell’omicidio.

Il G. era inoltre caduto in contraddizioni nella ricostruzione della fase esecutiva dell’omicidio di GE. S., con riferimento alla distribuzione dei correi sui veicoli, con i quali erano venuti a prenderlo il giorno dell’omicidio; all’ora in cui era avvenuto un primo sopraluogo ad (OMISSIS); al numero di persone da lui viste, nel corso del secondo sopraluogo ad (OMISSIS), all’interno dell’abitazione dove si trovava la vittima e nella quale erano in corso lavori di ristrutturazione.

La sentenza impugnata aveva poi ritenuto di poter utilizzare le dichiarazioni del collaborante C.L., fratellastro del G., come elemento di riscontro, quando era evidente che il C. aveva mentito circa la partecipazione alla spedizione omicidiaria di L.A., prima indicato come compartecipe a detta spedizione, poi indicato come non rientrante nel numero dei soggetti che avevano ucciso il GE..

Anche le deposizioni rese dai testi RO.En. e F. A. erano state in contrasto con le dichiarazioni rese dal collaborante G., in quanto, secondo i testi, il killer era venuto da dietro, mentre invece, secondo il G., il S. si sarebbe posto di fronte alla vittima; inoltre il teste RO. non aveva riferito il particolare che la pistola semiautomatica fornita dal R. al S. si fosse inceppata, si che con essa quest’ultimo non aveva potuto sparare il colpo di grazia alla vittima; inoltre dalla perizia autoptica era emerso che la vittima era stata colpita alle spalle, il che era in contrasto con quanto riferito dal collaborante G., secondo il quale il killer si era posto innanzi alla vittima; inoltre dalla deposizione dei due testi era emerso che la vittima non avesse con sè un marsupio, che difficilmente si sarebbe potuto staccare dalla vita della vittima, ma un borsello che il medesimo portava a tracolla.

Non era poi condivisibile l’avere i giudici di merito indicato come riscontro all’attendibilità delle propalazioni del G. le dichiarazioni rese dai collaboranti M. e LE., essendo le loro dichiarazioni de relato, la cui fonte di informazioni era costituita da N.S., dai medesimi ucciso;

non era stato poi tenuto nel debito conto che fra il M. ed il N. i rapporti erano freddi.

Il LE. poi aveva dichiarato di aver saputo dal N. che all’omicidio di cui è causa aveva altresì partecipato il L., che invece era stato accertato non avervi partecipato.

La sentenza impugnata aveva quindi avallato un sillogismo non condivisibile, secondo il quale un collaborante attendibile non poteva se non formulare accuse attendibili; il che costituiva un espediente da giustizia sommaria.

5. IO.Gi. e R.A. hanno dedotto violazione di legge e motivazione carente ad illogica, in quanto dagli atti di causa non era emersa la prova certa della loro responsabilità; essa era stata fondata dai giudici di merito sulle dichiarazioni rese da un collaboratore di giustizia più volte dichiarato inattendibile in numerosi processi.

I giudici di primo grado avevano ritenuto di poter soprassedere in ordine ad una preventiva e generalizzata analisi dell’attendibilità intrinseca dei propalanti; il che era in contrasto con la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale occorreva invece previamente risolvere il problema della credibilità dei dichiaranti.

L’unico collaborante escusso, G.R., era infatti certamente inattendibile; e la sua attendibilità non poteva automaticamente derivare dal fatto che il medesimo aveva partecipato all’omicidio di GE.Sa.; non era poi vero che il G. avesse comunque ammesso di avere partecipato a detto omicidio, avendo solo detto di essere stato presente mentre gli altri, a sua insaputa, uccidevano il GE.; egli aveva pertanto mentito proprio sui fatti per i quali si procedeva.

R.A. lamenta di essere stato ritenuto colpevole sulla base di una sola laconica affermazione di un altro collaborante, il MARINO, che aveva saputo da N.S., nel frattempo deceduto, che a commettere l’omicidio sarebbero stati oltre ad alcuni di (OMISSIS), altresì "i ragazzi di Marcianise", i quali, secondo la Corte territoriale, non avrebbero potuto se non identificarsi nel R. e nel S..

Le dichiarazioni del G. erano state poi inadeguatamente riscontrate solo dalle propalazioni assolutamente vaghe e generiche fatte da un solo chiamante in reità de relato e cioè dal M., il che non era sufficiente, in quanto, all’epoca, i rapporti fra il M. e la sua fonte di conoscenza, il N., non solo non erano buoni, ma erano anzi tesi, non fidandosi l’uno dell’altro;

inoltre il M. aveva indicato come esecutore materiale dell’omicidio S.C. detto "(OMISSIS)"; ma era noto nell’ambiente che col nome di "(OMISSIS)" era chiamato un altro killer, e cioè tale GE.An., come sarebbe emerso dalle dichiarazioni rese da un altro collaboratore e cioè FR. M..

IO.Gi. lamenta di essere condannato ad una severa pena sulla base di un equivoco, in quanto la sua persona era stata confusa dai giudici di merito con quella del L., avendo il collaborante M. dichiarato di avere appreso dallo stesso N. che l’ I. e lo IO. avevano avuto un ruolo di secondo piano nell’uccisione di GE.Sa.; ma il N. aveva parlato del L. e non dello IO.; e lo IO. non era cugino dell’ I., essendo invece il L. cugino di quest’ultimo; lo IO. poi aveva a suo carico anche una condanna per omicidio, si che non avrebbe potuto essere ritenuto come inidoneo a partecipare ad un fatto di sangue, come indicato dal M., che aveva inteso evidentemente riferirsi al L..

La sentenza impugnata andava annullata anche con riferimento alla sussistenza dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, essendo al riguardo la stessa del tutto priva di motivazione.

6. G.R. per il tramite dell’avv. Manfredo FIORMONTI ha dedotto motivazione carente e contraddittoria in ordine all’entità della pena irrogata, essendo la determinazione della stessa affidata interamente alla discrezionalità del giudice e non essendo state indicate nella sentenza impugnata le ragioni di fatto e di diritto in base alle quali le sue doglianze in ordine alai determinazione della pena era stata rigettata dalla Corte territoriale.

7. G.R., per il tramite dell’avv. Susanna SPAFFORD. ha dedotto:

a) – violazione di legge, in quanto la Corte territoriale, pur avendo ritenuto le attenuanti generiche prevalenti, aveva mantenuto la pena base nella misura esorbitante individuata dal primo giudice, avendo operato una riduzione di pena ben inferiore ad un terzo.

Inoltre il giudice di appello aveva riconosciuto le attenuanti generiche prevalenti rispetto alle aggravanti contestate, si che la pena base da prendere in considerazione per l’omicidio non circostanziato era quella della reclusione non inferiore ad anni 21, su cui poi avrebbe dovuto essere applicata l’attenuante ad effetto speciale di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8, (da un terzo alla metà), oltre alla riduzione di pena per le circostanze attenuanti generiche (fino ad un terzo); ora la pena della reclusione, anche partendo dalla reclusione massima di anni 24, di cui all’art. 23 c.p., non poteva essere superiore ad anni 16;

b) – omessa motivazione in ordine al rigetto delle sue deduzioni difensive in punto di commisurazione della pena, in quanto la Corte territoriale non aveva speso neppure una parola per giustificare la conferma della decisione del giudice di primo grado relativa alla commisurazione in anni 17 della pena per il reato di omicidio, già tenuto conto dell’attenuante dell’effetto speciale della collaborazione;

c) – motivazione contraddittoria ed illogica nella parte in cui esso ricorrente non era stato ritenuto credibile, quando aveva affermato che, aggregandosi al gruppo dei sicari, i quali avevano in programma l’omicidio del GE., non aveva conosciuto lo scopo della spedizione, se fosse stata cioè un’azione intimidatoria ovvero un omicidio e neppure aveva saputo l’identità della vittima; al contrario quanto da lui dichiarato era vero, in quanto i fatti che avevano condotto il Natale a sopprimere il GE. erano di gran lunga anteriori al suo ingresso nel clan Natale; pertanto nei suoi confronti non poteva parlarsi di premeditazione, in quanto egli aveva partecipato in modo solo casuale all’omicidio, essendo stata detta sua partecipazione dovuta solo all’impossibilità di sottrarsi agli ordine del Natale, l’unico in grado di proteggerlo dalla minaccia costituita dal Russo, al cui clan egli aveva in precedenza aderito;

di quanto sopra i giudice di merito non avevano tenuto conto nel valutare la sua posizione e nel determinare la pena da infliggergli.

8. G.R. ha altresì proposto personalmente in data 16 maggio 2011 un’ulteriore lunga memoria, peraltro vergata a ma no con grafia non facilmente intellegibile, con la quale, dopo avere ripercorso le esperienze fondamentali della sua vita ed aver riassunto i tratti salienti delle dichiarazioni da lui rese in ordine al delitto in esame, nella sua veste di collaboratore di giustizia, ha ulteriormente illustrato i motivi di ricorso proposti dai suoi difensori.

Motivi della decisione

1. E’ infondato l’unico motivo di ricorso proposto da I. L..

2. Con esso il ricorrente lamenta motivazione carente in ordine all’attendibilità dei collaboratori di giustizia, che avevano reso dichiarazioni accusatone nei suoi confronti, sia sotto il profilo intrinseco, sia sotto il profilo dell’insussistenza di validi riscontri esterni.

3.Va al contrario ritenuto che le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, poste dalla sentenza impugnata a fondamento della sentenza di condanna emessa nei confronti del ricorrente, sono state acquisite nel pieno rispetto dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia.

La chiamata in correità fatta da un collaboratore di giustizia intanto può costituire valido indizio di colpevolezza nei confronti dell’imputato in quanto è sorretta da riscontri esterni individualizzanti, i quali siano significativi non solo in ordine al reale accadimento in sè del fatto-reato, ma anche in ordine alla sua riferibilità al soggetto ritenutone responsabile, secondo i canoni offerti dall’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, dettato in tema di valutazione della prova.

Pertanto le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia possono costituire gravi indizi di colpevolezza, idonei a giustificare una sentenza di condanna, quando siano intrinsecamente attendibili e risultino corroborati da riscontri esterni, idonei a provare l’attribuzione del fatto reato al soggetto destinatario di esse. Tali riscontri esterni possono consistere, oltre che in eventi esterni, altresì in dichiarazioni accusatone rese da altri collaboratori di giustizia, purchè caratterizzate dalla loro convergenza in ordine al fatto oggetto della narrazione; dall’essere state rese senza pregresse intese fraudolenti e senza suggestioni o condizionamenti reciproci, tali da inficiarne la concordanza; dall’essere specifiche, anche se non ne è richiesta la completa e piena sovrapponibilità agli elementi d’accusa forniti dagli altri dichiaranti, dovendosi piuttosto privilegiarne l’aspetto essenziale e sostanziale e la loro sintonia in ordine al nucleo essenziale dei fatti da provare (cfr., in termini, Cass. 6^, 26.11.08 n. 1091; Cass. 2^, 4.3.08 n. 13473;

Cass. 1^ 20.7.09 n. 30084).

4. Con riferimento al ricorrente I., la sentenza impugnata ha invero valorizzato principalmente le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia G.R., ritenute particolarmente attendibili per avere avuto egli una conoscenza personale diretta del contesto criminale in cui era maturato l’omicidio del GE., essere stato presente sul luogo del delitto ed avendo partecipato sia alla fase preparatoria che a quella esecutiva dell’omicidio anzidetto; la sentenza impugnata ha altresì ritenuto il collaborante anzidetto attendibile, nonostante che il medesimo fosse passato dal clan di RU.Al. a quello di N.S. per mere ragioni di opportunità ed avesse poi fatto la scelta di collaborare con la giustizia all’indomani della morte del N.; la sua attendibilità, secondo la sentenza impugnata, non poteva poi ritenersi diminuita solo perchè egli aveva sostenuto, nel corso dell’udienza del 6 febbraio 2003, di non essere a conoscenza dell’intenzione di uccidere il GE., avendo egli tuttavia pur sempre ammesso sin dal primo momento di aver partecipato all’omicidio del medesimo ed avendo egli riferito agli organi inquirenti tutti i più salienti passaggi di tale omicidio; di come era stato il S. ad esplodere nei confronti della vittima 4-5 colpi di pistola con un revolver 357 magnum dapprima stando di fronte alla vittima e poi sparando alle spalle della stessa, che si era nel frattempo girata.

La sentenza impugnata ha altresì rilevato la sussistenza di numerosi riscontri oggettivi alle dichiarazioni rese dalla collaboratore in questione, avendo fatto riferimento alle deposizioni rese dai testi RO.En. e F.A., i quali avevano assistito di persona all’omicidio, fornendo una versione dei fatti sostanzialmente coincidente con quella offerta dal propalante G.; la sentenza impugnata ha in particolare ritenuto che la deposizione del teste F. non fosse in contrasto con le dichiarazioni rese dal collaboratore in esame, per avere detto teste dichiarato che il killer era venuto da dietro, potendosi spiegare tale discrasia rispetto alle dichiarazioni del collaboratore con la concitazione del momento; e del resto il teste non era stato sul punto così preciso e categorico; la sentenza impugnata ha poi condivisibilmente ritenuto del tutto secondaria la circostanza che il teste RO. nulla aveva riferito in ordine al particolare della pistola semiautomatica fornita dal R. al S., che ne aveva fatto richiesta, per infliggere alla vittima il colpo di grazia, non potuto esplodere per essersi la pistola fornitagli inceppata, potendosi ciò ben spiegare in considerazione della distanza dalla quale il teste aveva osservato la scena; comunque il particolare non era tale da inficiare in modo rilevante il resoconto del G.; era poi del tutto secondario il dettaglio concernente il possesso da parte della vittima di un marsupio ovvero di un borsello, pur avendo la sentenza impugnata ritenuto più probabile che la vittima avesse con sè un borsello, essendo stato esso visto per terra accanto alla vittima, in quanto, se si fosse trattato di marsupio, esso sarebbe rimasto allacciato alla vita della vittima. La sentenza impugnata ha altresì ritenuto la sussistenza di ulteriori validi riscontri esterni alle dichiarazioni rese dal collaborante G. nelle dichiarazioni rese dal collaborante M.G., che, per il ruolo di primo piano ricoperto del clan malavitoso facente capo a N. S., costituiva fonte autorevole ed autonoma di conoscenza; ed il M. aveva dichiarato che, poco dopo l’omicidio del GE., aveva avuto un incontro con N.S., nel corso del quale quest’ultimo gli aveva parlato di quel delitto, precisando che a commetterlo erano stati due giovani di Marcianise e che uno di essi, soprannominato "(OMISSIS)" ne era stato l’esecutore materiale; detto collaboratore aveva poi riconosciuto, tra le foto scattate in occasione del matrimonio della figlia del N., S.C., a lui noto come "(OMISSIS)" e R. A., da lui appunto indicati come coloro che avevano avuto un ruolo nell’omicidio del GE..

La sentenza impugnata ha altresì indicato come ulteriore riscontro esterno alle dichiarazioni rese dal collaborante G. quelle rese dal collaboratore FR.Mi., elemento di spicco del clan Belforte, il quale aveva confermato gli stretti rapporti di collaborazione intercorse fra tale ultimo clan e quello che faceva capo al Natale; aveva riferito come il Natale avesse chiesto la collaborazione del clan Belforte per eseguire l’omicidio del GE.; ed infatti erano stati messi a disposizione del N. il S. ed il R.. Numerosi e validi sono pertanto i riscontri esterni alle dichiarazioni del pentito G., tali da rendere le sue dichiarazioni pienamente attendibili.

5. E’ altresì infondato l’unico ed articolato motivo di ricorso proposto da IO.Gi. e R.A..

Con esso i ricorrenti hanno lamentato la mancanza sussistenza a loro carico di validi indizi di colpevolezza, essendo tale indizi consistiti nelle dichiarazioni rese da un collaboratore di giustizia, G.R., da ritenere inattendibile, per avere egli addirittura negato di aver preso parte all’omicidio del GE..

In particolare il R. ha lamentato che a suo carico fossero state valorizzate, oltre alle dichiarazioni rese dal pentito G., solo quelle rese da un altro collaborante, il M., l’unico ad aver fatto propalazione coinvolgenti la sua persona.

Si rimanda a quanto già riferito in precedenza circa la piena attendibilità delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia G.R., essendo state le stesse valutate dalla sentenza impugnata in modo conforme ai principi elaborati in materia dalla giurisprudenza di legittimità.

La doglianza formulata dallo IO., secondo cui i giudici di merito avrebbero commesso nei suoi confronti un evidente errore di individuazione, è poi infondata al limite della inammissibilità, trattandosi di affermazione del tutto generica ed aspecifica, non rispettosa del principio di autosufficienza del ricorso, vigente nella presente sede di legittimità.

Peraltro dall’esame degli atti emerge che, in realtà, il N., nel fare riferimento ai due "scemi" non aveva inteso riferirsi, oltre che all’ I., altresì allo IO., essendosi al contrario il N. esattamente riferito al L.; inoltre il fatto che l’ I. e lo IO. fossero cugini è affermato a più riprese nella sentenza impugnata e non risulta che il ricorrente abbia addotto elementi tali da confutare quanto al riguardo rappresentato dalla Corte territoriale.

E’ altresì infondata la doglianza formulata dallo IO., concernente l’erronea contestazione nei suoi confronti dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, emergendo con chiarezza dal contesto dell’intera sentenza impugnata che l’omicidio del GE. è da collocare nell’ambito di una sanguinosa faida che contrapponeva due contrapposti clan di stampo mafioso, allo scopo di assicurare la propria egemonia sul territorio, si che l’aggravante in esame appare correttamente contestata, trattandosi di omicidio commesso al fine di assicurare il prevalere di un clan di stampo mafioso in danno di altri.

6.E’ infondata la doglianza formulata da G.R. per il tramite dell’avvocato FIORMONTI, avente ad oggetto la mancata motivazione circa l’entità della pena irrogatagli.

Va rilevato al contrario che la sentenza impugnata ha attentamente valutato la posizione del ricorrente, avendogli altresì concesse le attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti contestate, in considerazione del notevole e decisivo contributo da lui fornito per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione dei colpevoli, in tal modo pervenendo ad una notevole riduzione della pena infittagli.

In tal modo la Corte territoriale ha adempiuto all’obbligo su di essa gravante di motivare in concreto la determinazione della pena, avendo essa indicato gli elementi ritenuti determinanti allo scopo, nell’ambito dei criteri offerti dall’art. 133 c.p., (cfr., in termini, Cass. 6^ 2.7.98 n. 9120).

7. Sono infondati i motivi di ricorso sub a) e sub b), proposti da G.R. per il tramite dell’avvocato SPAFFORD, da trattare congiuntamente siccome strettamente correlati fra di loro.

Con essi il ricorrente lamenta violazione di legge e carenza di motivazione circa la determinazione della pena nei suoi confronti, in quanto, una volta riconosciutegli le attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti contestate, la pena base da prendere in considerazione per omicidio era quella della reclusione non inferiore ad anni 21, su cui avrebbe dovuto essere applicata l’attenuante ad effetto speciale di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8, oltre che la riduzione di pena per le concesse circostanze attenuanti generiche, si che la pena della reclusione nei suoi confronti, anche se si fosse partiti da una pena base di anni 24 di reclusione, non avrebbe potuto essere superiore ad anni 16. La censura è infondata, atteso che la circostanza attenuante ad effetto speciale della cosiddetta "dissociazione attuosa", disciplinata dal D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 8, convertito nella L. 12 luglio 1991, n. 203, concernente provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata, non è soggetta al giudizio di bilanciamento previsto dall’art. 69 c.p., in quanto il legislatore, in caso di sua concessione, ha fatto ricorso, in deroga a tale principio, a speciali criteri di diminuzione della pena, i quali impongono, per i delitti puniti, come quello ascritto all’odierno ricorrente, con l’ergastolo, la sostituzione di quest’ultimo con una pena detentiva temporanea compresa fra i 12 ed i 20 anni di reclusione (cfr., ex multis, Cass. 5, n. 497708/10/2009 dep. 08/02/2010, imp. Finocchiaro, Rv. 245582).

Dal che consegue la piena legittimità della determinazione di pena disposta dalla sentenza impugnata, la quale ha determinato la pena finale alla ricorrente in anni 14 di reclusione, partendo da una pena base per il reato di omicidio, ridotta ai sensi del citato D.L. n. 152 del 1991, art. 8, ad anni 17 di reclusione, diminuita ad anni 13 di reclusione per effetto delle concesse attenuanti generiche, aumentata per la continuazione, relativa ai reati concernenti le armi, ad anni 14 di reclusione.

8. E’ infondato limite della inammissibilità, il motivo di ricorso proposto sub c) da G.R. per il tramite dell’avvocato SPAFFORD. Con esso il ricorrente lamenta motivazione illogica ed erronea circa la valutazione delle dichiarazioni da lui fatte, alla stregua delle quali egli, quando aveva partecipato alla spedizione organizzata per sopprimere il GE., non sarebbe stato al corrente se si fosse trattato di un’azione intimidatoria ovvero di un omicidio e neppure era stato messo al corrente dell’identità della vittima.

La decisione di uccidere il GE. sarebbe stata infatti adottata molto tempo prima che egli avesse fatto il suo reingresso nel clan Natale, si che non poteva parlarsi nei suoi confronti di premeditazione, avendo egli dovuto partecipare alla spedizione omicidiaria in quanto era nella impossibilità di sottrarsi agli ordini del N..

La censura è infondata al limite della inammissibilità, siccome del tutto generica ed aspecifica e non supportata da alcun elemento concreto, idonea a rendere credibile quanto da lui rappresentato.

Si osserva invero che il ricorrente ha partecipato a ben due successivi sopralluoghi, effettuati al fine di individuare la persona da colpire, si che il medesimo appare ben poco credibile quando sostiene di non essere stato al corrente dell’intento perseguito dal clan NATALE di procedere alla soppressione del GE..

Appare pertanto da condividere quanto rappresentato al riguardo dalla sentenza impugnata, la quale ha rilevato come l’affermazione di cui sopra non poteva essere interpretata come una protesta di innocenza, quanto piuttosto come elemento da porre a fondamento della richiesta di concessione delle attenuanti generiche e di una congrua riduzione della pena, obiettivo peraltro perseguito dal ricorrente il grado di appello.

9. E’ infine infondato al limite della inammissibilità guanto dal G. rappresentato nella memoria del 16 maggio 2011, peraltro di difficile lettura in quanto vergata a mano, atteso che, con essa, il ricorrente, oltre a ripercorrere le esperienze fondamentali della sua vita, ha in sostanza riproposto le censure di cui sopra, già in precedenza esaminate.

10. Il ricorso proposto da I.L., IO.Gi., R.A. e G.R. va pertanto respinto, con loro condanna al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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