Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 27-12-2011, n. 28993 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La s.p.a. Poste Italiane ha proposto ricorso con tre motivi avverso la sentenza della Corte di Appello di Genova depositata il 10-1-2007 che. in riforma della pronuncia del Tribunale della stessa città n. 733 del 2005. ha dichiarato l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro del 1-12-1998, stipulato con I. A. per "esigenze eccezionali" ex acc. az. 25-9-97. e la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dal 17/7/2003 (sulla base delle conclusioni ridotte del lavoratore appellante), con la condanna di essa società a corrispondere la retribuzione da quest’ultima data oltre accessori, come quantificata.

L’ I. ha resistito con controricorso.

La società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Infine il Collegio ha autorizzato la motivazione semplificata.

Ciò posto, osserva il Collegio che i primi due motivi, con i quali la ricorrente censura sotto vari profili la statuizione della nullità del termine, non possono essere accolti, anche se la motivazione della sentenza impugnata merita di essere parzialmente corretta ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2.

Correttamente la Corte di merito ha ritenuto che la contrattazione collettiva abbia fissato termini di scadenza dell’autorizzazione alla stipula di contratti a termine per l’ipotesi de qua.

In particolare, come questa Corte ha ripetutaliente affermato, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l.

26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v., fra le altre, Cass. 1/10/2007 n. 20608, Cass. 27-3-2008 n. 7979. Cass. 1 8378/2006 cit.).

In base a tale orientamento ed al valore dei relativi precedenti, pur riguardanti la interpretazione di norme collettive (cfr.. Cass. 29/7/2005 n. 15969, Cass. 21-3-2007 n. 6703), va confermata la nullità del termine apposto al contratto in esame (del 1-12-1998 e pertanto successivo al 30-4-1998), correggendosi, sul punto, la motivazione della impugnata sentenza che, invece, ha ritenuto che gli accordi attuativi ebbero a stabilire, non i termini entro i quali era consentita l’adozione del tipo contrattuale, ma proprio i termini che legittimamente potevano essere apposti ai contratti individuali, (v. in tal senso fra le altre Cass. 10-1-2006 n. 166, Cass. 28-3-2008 n. 8121).

Con il terzo motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha respinto l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito, denunciando al riguardo violazione di legge e vizio di motivazione.

Come questa Corte ha più volte affermato "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto" (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11/12/2001 n. 15621, nonchè da ultimo Cass. 11-3-2011 n. 5887).

Tale principio va enunciato anche in questa sede, rilevandosi, inoltre che, come pure è stato precisato, "grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro" (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass. 1-2-2010 n. 2279).

Orbene nella fattispecie la Corte territoriale, dopo aver premesso che la lettera di messa in mora è intervenuta poco più di tre anni dopo la cessazione del rapporto, e che all’epoca la giurisprudenza in materia non era conforme, ha rilevato che presumibilmente l’ I. si è deciso ad impugnare l’illegittimità del termine solo quando il tempo trascorso dalla cessazione del contratto gli ha dato la ragionevole certezza che non lo avrebbero richiamato, considerato altresì che, del resto, rischiava di mettere a repentaglio una possibile nuova assunzione, alla luce delle circolare interna della società (che impediva la stipula di nuovi contratti con i lavoratori che avevano in atto un contenzioso con la società).

Tale accertamento di fatto, compiuto dalla Corte di merito in aderenza al principio sopra richiamato, risulta altresì congruamente motivato e resiste alle censure della società ricorrente.

In tali sensi, quindi, va respinto il ricorso, non essendo stata, peraltro. avanzata alcuna altra censura, che riguardi in qualche modo le conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine ed il capo relativo al risarcimento del danno.

Al riguardo, osserva il Collegio che, con la memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., la società ricorrente, invoca, in via subordinata, l’applicazione dello ius superveniem, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 (su cui vedi la recente Corte Cost. 303/2011).

Orbene, a prescindere da ogni altra considerazione, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr, Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

Tale condizione non sussiste nella fattispecie.

Infine, in ragione della soccombenza, la ricorrente va condannata al pagamento delle spese in favore dell’ I..

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare all’ I. le spese, liquidate in Euro 50,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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