Cass. civ. Sez. II, Sent., 27-12-2011, n. 28921 Parti comuni dell’edificio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

P.A., conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Ancona, Ga.Ma. e R.M. deducendo di aver acquistato, dall’Istituto Autonomo Case Popolari (IACP) di Ancona, un appartamento a piano terra con annessa corte di mq. 206 e, oltre le parti comuni nell’edificio, sito in (OMISSIS), chiedeva che i convenuti, proprietari del primo piano dello stesso stabile fossero condannati al ripristino dello stato dei luoghi, alterato dalla realizzazione sulla sua corte esclusiva, di taluni manufatti (locale deposito, scala esterna e centrale termica), nonchè dalla demolizione della rampa di scale che adduceva anche al sottotetto comune con costruzione al suo posto di un solaio. Chiedeva, altresì, di essere risarcito dei danni provocati dalla preclusione all’uso della sua corte esclusiva e del sottotetto nonchè dalle infiltrazioni d’umidità causate dalla scala esterna.

Si costituivano i convenuti eccependo il difetto di legittimazione attiva dell’attore, il quale aveva acquistato l’immobile con atto suscettibile di essere annullato perchè in violazione della normativa delle assegnazioni di alloggi popolari, lo aveva da sempre locato a terzi. Nel merito di aver essi per primi acquistato il loro appartamento con tutte le pertinenze compreso tutto il cortile che era stato loro venduto, come proprietà comune, affermavano che, comunque, le parti avevano di comune accordo diviso a metà la corte comune, edificandovi ciascuno i propri manufatti, così come con il consenso dell’attore era stata eliminata la scala interna e realizzati altrettanti ingressi indipendenti per ciascun appartamento, eccepivano, poi, l’usucapione dell’area, in caso di accoglimento della domanda, la condanna del P. a rimuovere un garage costruito nell’area condominiale. I convenuti chiedevano ed ottenevano la chiamata in causa della IACP loro dante causa, nel contraddittorio del quale avrebbe dovuto esser pronunciato l’annullamento del titolo di acquisto e dal quale avrebbero dovuto essere garantiti per l’eventuale evizione.

Si costituiva in giudizio, anche, L’IACP precisando che il P., assegnatario con promessa di futura vendita dell’ex Gestione Ina Casa fosse titolare di un mero diritto di godimento, cosicchè, verificatesi le condizioni di legge e non avendo il Comune di Ostra pronunciato la revoca dell’assegnazione, la stipulazione del contratto di compravendita era un atto legittimo e dovuto.

Deceduto nelle more, l’attore, si costituivano gli eredi di P. L. G. e P.A., Gi., G. ed E.).

Il Tribunale di Ancona, con sentenza n. 330 del 2003, rigettava la domanda dell’attore, nonchè quella proposta contro l’IACP. Avverso questa sentenza interponevano appello, davanti alla Corte di Appello di Ancona, gli eredi di P.A. e resistevano Ga.Ma. e R.M., chiedendo la conferma della sentenza di primo grado e proponendo subordinatamente l’eccezione di usucapione e la domanda riconvenzionale diretta all’abbattimento del garage realizzato dall’attore.

La Corte di Appello di Ancona, con sentenza n. 469 del 2005, rigettava l’appello e confermava la sentenza del Tribunale. A sostegno di questa decisione la Corte anconetana osservava: a) che la normativa di cui al D.P.R. n. 340 del 1949 e al D.P.R. n. 1035 del 1972, non prevedeva la nullità degli atti di assegnazione o d compravendita che fossero stati stipulati in carenza dei requisiti o, nonostante, il venir meno di essi, bensì l’esperimento di apposite procedure finalizzate alla decadenza, ovvero, alla risoluzione del contratto, epperò, tali procedure non risultava fossero state attivate; b) che la domanda attorea meritava di essere rigettata in forza dell’argomento individuato dal Tribunale, nel disposto dell’art. 936 cod. civ., comma 4, secondo il quale il proprietario non può obbligare il terzo a togliere le costruzioni e le opere edificate sul fondo altrui quando sono state fatte "a sua scienza e senza opposizione o quando sono state fatte dal terzo in buona fede".

D’altra parte, l’entità delle opere, la presumibile durata dei lavori, l’aver interessata anche la porzione interna dell’edificio e la proprietà esclusiva del P. che ne risultò concretamente avvantaggiata, sono tutti elementi, chiaramente, deponenti nel senso del preventivo accordo dei due proprietari e, comunque, della perfetta consapevolezza del P. e, quindi, del suo ampio consenso all’esecuzione delle stesse.

La cassazione della sentenza n. 469 del 2005 della Corte di Appello di Ancona è stata chiesta dagli eredi di P.A. con ricorso affidato a due motivi. Ga.Ma. e R.M. e L’Ente regionale per l’abitazione pubblica della provincia di Ancona, hanno resistito con controricorso.

Ga.Ma. e R.M., a loro volta, hanno proposto ricorso incidentale, condizionato, unitamente al controricorso.

Motivi della decisione

1.= Preliminarmente entrambi i ricorsi, principale e incidentale, vanno riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c., perchè proposti contro la stessa sentenza.

A.= Ricorso principale.

2= Con il primo motivo gli eredi di P.A. lamentano l’omessa e/o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, i prospettato dalle parti ( art. 360 c.p.c., n. 5).

Secondo i ricorrenti dalla lettura delle carte processuali e dalla sentenza emessa dalla Corte anconetana si profila come sussistente sia un errore di diritto nel giudizio di merito, sia un vizio di motivazione nel giudizio di fatto, perchè è stato erroneamente applicato l’art. 936 cod. civ. che presuppone che le opere siano state eseguite con la scienza e senza opposizione del proprietario, ovvero, quando sono state fatte dal terzo in buona fede. Epperò, nel caso di specie, sempre a dire dai ricorrenti – si rileva per tabulas che il P.A. non fosse certamente a conoscenza dell’esecuzione delle opere realizzate in sua assenza. Difatti, come risulta dalla documentazione allegata ex adverso si ricava che il sig. P. non abbia abitato nell’alloggio per il periodo dal 20 settembre 1976 al 16 febbraio 1987, nella certificazione rilasciata in data 4 febbraio 1992 dal comune di Ostra "nell’abitazione sita in (OMISSIS) ha successivamente abitato il sig. L.G. dal 20 settembre 1976 al 16 febbraio 1987". La realizzazione del manufatto (la scala) risale al 1982 e, pertanto, in epoca in cui il sig. P. non occupava in maniera stabile e continuativa l’alloggio di proprietà dell’IACP. E di più, il P. venne a conoscenza della realizzazione della scala solo, allorquando, il Comune di Ostra ha invitato il defunto P. a fornire il suo esatto numero di codice fiscale, giacchè quello riportato sulla istanza per la costruzione della scala datata 27 febbraio 1981 non era corretto. Ed ancora, nella richiesta per la realizzazione del manufatto datata 27 febbraio 1981 manca del tutto la sottoscrizione del sig. P., contrariamente a quanto ha ritenuto, erroneamente, dalla Corte di Appello di Ancona. In buona sostanza, secondo i ricorrenti, la Corte di Appello di Ancona, non avrebbe considerato fatti decisivi e avrebbe considerato esistenti fatti non reali, in particolare, avrebbe omesso di esaminare documenti, che avrebbero potuto determinare una diversa pronuncia; ha ritenuto esistente una richiesta congiunta dei proprietari al rilascio del permesso comunale per la costruzione della scala per l’accesso all’appartamento di Ga. R. così come avrebbe ritenuto tardivo il disconoscimento della sottoscrizione da parte del P. della richiesta di permesso comunale.

2.1.= il motivo è infondato e non può essere accolto perchè la Corte di Ancona ha sufficientemente ed adeguatamente chiarito, per altro, in modo convincente sul piano razionale, che tutti i manufatti non avrebbero potuto essere realizzati senza la perfetta consapevolezza ed il consenso del P..

Nè, tale conclusione, può essere vinta, sul piano logico, dalla semplice circostanza che lo stesso all’epoca dei fatti aveva altrove la sua residenza anagrafica.

3. Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano la violazione o falsa applicazione delle norme di diritto ( art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione all’art. 936 cod. civ. Secondo i ricorrenti l’art. 936 cod. civ. contrariamente a quanto affermato dalla Corte territoriale, non poteva trovare applicazione nell’ipotesi in esame perchè le opere di cui si dice non apportarono utilità al proprietario del fondo su cui le stesse insistevano (alla proprietà del sig. P.), considerato che l’art. 936 cod. civ. può trovare applicazione nelle ipotesi in cui l’attività del terzo sul fondo del vicino può risultare utile al proprietario del fondo medesimo e che tale deve presumersi in caso di scienza e mancata opposizione.

3.1= La censura è infondata e non può essere accolta, non solo, perchè con tale censura i ricorrenti sostanzialmente intendono sollecitare un altro e diverso giudizio di merito, inibito al giudice di legittimità ma, e soprattutto, perchè la Corte di appello di Ancora ha adeguatamente specificato che le opere eseguite avevano arrecato vantaggi ad entrambi i proprietari. In particolare, gli attuali ricorrenti (originari attori) avevano ottenuto un ingresso autonomo al loro appartamento, come lo stesso era avvenuto per i resistenti, luogo del precedente ingresso che era comune ad entrambi i condomini. I ricorrenti avevano aumentato la superficie del loro appartamento, incorporando il precedente vano scala condominiale, attribuendosi la proprietà esclusiva dell’ingresso comune.

B.= Ricorso incidentale.

4.= Scrive il contro ricorrente: "in via di controricorso incidentale, per la non creduta ipotesi da non ritenersi l’applicazione dell’art. 936 cod. civ. ne, consegue comunque la reiezione dell’avverso ricorso in quanto la sentenza della Corte di Appello merita censura nella parte in cui non riconosce la tesi difensiva dei resistenti che il trasferimento della proprietà ai ricorrenti sarebbe inopponibile ai resistenti". 4.1.= Il ricorso, come prospettato dalle parti, ovvero, proprio perchè volutamente condizionato all’eventuale accoglimento del ricorso principale, rimane assorbito.

In definitiva, riuniti i ricorsi, principale e incidentale, va rigettato il ricorso principale e dichiarato assorbito quello incidentale e i ricorrenti, in ragione del principio della soccombenza di cui all’art. 91 c.p.c., condannati, in solido, al pagamento delle spese del giudizio di cassazione così come verranno liquidate con il dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta il principale e dichiara assorbito l’incidentale, condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione che liquida, per ciascun controricorrente, in Euro 2000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi e oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *