Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 24-05-2011) 04-08-2011, n. 31066

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 3.3.2010 la Corte d’Appello di Firenze decideva sull’appello avverso la sentenza del Tribunale d’Arezzo che, in data 12.12.2008, aveva condannato, alle pene ritenute di giustizia, A.A., C.M., G.B. A., I.A., IA.An., I. A., I.C.. I.F. e V.E. V. per il reato di cui all’art. 416 c.p., così modificata l’originaria imputazione di cui al capo A) di violazione dell’art. 416 bis c.p. e per concorso nella realizzazione di specifici episodi di estorsioni aggravate in danno dei gestori dei locali pubblici, specificatamente indicati nei capi di imputazione, ai quali imponevano con la forza, previo pagamento di una somma mensile, un servizio di protezione (capi C), D), F). IA.An. anche per violazione dell’art. 611 c.p.p. per aver costretto C. F. e M.S. a commettere il reato previsto dall’art. 374 bis c.p (capo E). IA.An. I.C. e V.E. anche per furto aggravato in concorso (capo H) IA.An. anche per il furto di cui al capo 1) IA. A. anche per violazione dell’art. 610 c.p., così modificata l’originaria imputazione di cui all’art. 513 bis c.p. e lesioni gravi in danno di F.G.. La Corte territoriale confermava la sentenza di primo grado nei confronti di A.A., I.A., IA.An., IA.Ar. e V.E.V., riduceva la pena a C.M., assolveva I.F. dal reato di cui al capo D) per non aver commesso il fatto, qualificava il reato di cui al capo A) come art. 416 c.p. comma 2 (mero partecipe) e per l’effetto gli rideterminava la pena in anni 3 di recl., riduceva la pena inflitta a I. C. ad anni 7 e mesi 7 di recl. ed Euro 3.600,00 di multa, riduceva la pena a G.B.A. ad anni 6 di recl. ed Euro 3000,00 di multa. La Corte d’Appello respingeva le eccezioni processuali avanzate dalla difesa di IA.Ar., che aveva sostenuto l’improcedibilità dell’azione penale, per non avere richiesto il P.M. la riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p., dopo il decreto di archiviazione emesso in data 28.5.2005 nei confronti del proprio assistito, e la nullità delle dichiarazioni del teste C. per violazione dell’art. 210 c.p.p.. Nel merito rilevava che le risultanze probatorie erano consistite in dichiarazioni delle parti offese, deposizioni testimoniali, intercettazioni telefoniche, filmati. In particolare osservava che le dichiarazioni di C. e M. erano precise, dettagliate e prive di contraddizioni. Analoga considerazione veniva espressa per le altre vittime dei reati. Veniva sottolineato come tali soggetti non avevano fornito dichiarazioni unilateralmente accusatone, ma avevano posto in evidenza anche aspetti favorevoli agli imputati. La Corte di merito aggiungeva che le dichiarazioni delle parti offese relative allo spadroneggiamento in ordine ai beni dei locali aveva trovato conferma nelle dichiarazioni di altri testi. Le parti offese erano riscontrate anche dagli accertamenti di P.G. e dagli esiti delle intercettazioni telefoniche. Telefonate che dovevano essere lette tenendo conto del contesto in cui erano effettuate.

La Corte d’Appello riteneva sussistente un’associazione per delinquere finalizzata a commettere estorsioni in danno dei gestori di locali pubblici in un arco temporale che va dal gennaio 2005 al 6.6.2007, data degli arresti. Si trattava di un’associazione a base prevalentemente, anche se non esclusivamente familiare, che aveva nella famiglia I. il suo vertice e che utilizzava l’agenzia da loro gestita per realizzare scopi illeciti attraverso comportamenti violenti e prevaricatori in danno dei gestori dei locali, dei dipendenti e dei clienti.

Riteneva altresì provate le estorsioni contestate ai capi C), D) e F) evidenziando che gli indebiti vantaggi patrimoniali erano consistiti non solo nei corrispettivi del servizio di guardiania, o meglio in quella parte di tali corrispettivi non giustificata dal servizio reso in relazione alle effettive necessità dei locali in cui il servizio veniva prestato, bensì anche nel valore dei buoni per ingressi gratuiti, consumazioni, prive e simili, nell’imposizione di un numero di addetti sproporzionati alle necessità del locale.

Sottolineava l’inutilità di una perizia contabile perchè non poteva basarsi su dati certi, mancando una contabilità regolarmente tenuta, diversa dalla cd. memory stick, e comunque evidenziava come la prova dell’indebito vantaggio emergeva da numerosi elementi probatori (episodio delle drink card, episodio del REX che ha visto come vittima il M., intercettazioni telefoniche, in particolare telefonata n. 2098 del 6.4.2006 nel corso della quale I. C. parla di "pizzo" con riguardo alle prestazioni imposte al M., ancora l’episodio reltivo agli albanesi).

La violenza privata di cui al capo E) e i furti di cui ai capi H) ed I) erano ritenuti provati sulla scorta delle conversazioni intercettate e delle ammissioni di responsabilità di I. C. ed An.. Ricorrono per Cassazione i difensori degli imputati.

In particolare il difensore di A.A. deduce che la sentenza impugnata è incorsa in:

1. mancanza e/o manifesta infondatezza della motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità dell’ A. per il reato di associazione per delinquere. Lamenta il ricorrente una distorta lettura delle risultanze processuali e comunque l’assoluta mancanza di motivazione in merito alla partecipazione dell’imputato all’associazione criminosa in argomento. Contesta l’interpretazione data dalla Corte di merito dei tre episodi criminosi che hanno portato all’affermazione di una partecipazione dell’ A. alla compagine in esame evidenziando che non vi è prova del dolo di partecipazione del prevenuto, dipendente dell’agenzia degli I..

2. mancanza e/o manifesta infondatezza della motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità dell’ A. per il concorso nell’estorsione di cui al capo C) e in ordine alla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1. Sottolinea come la stessa sentenza impugnata ha messo in evidenza che l’ A. non partecipava ai profitti relativi al servizio di guardiania e che la sua condotta, ritenuta biasimevole, era stata quella dell’offerta di alcune "bevute" ad avventori albanesi. Lamenta che i giudici dell’appello non hanno spiegato in che modo tale condotta abbia contribuito alla realizzazione dei reati fine dell’associazione. Sostiene la completa autonomia di tale comportamento e di conseguenza l’assenza dell’aggravante del numero delle persone nella contestata estorsione.

3. mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancata applicazione dell’attenuante di cui all’art. 114 c.p..

Sottolinea come la condotta posta in essere dall’imputato sia oggettivamente marginale, superflua e non indispensabile, se non quasi trascurabile o con minimo nocumento. Evidenzia come la Corte territoriale abbia negato tale attenuante con motivazione carente, illogica se non addirittura mancante perchè non vi è stata una piena valutazione in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p..

Il difensore di C.M. deduce che la sentenza impugnata è incorsa in violazione dell’art. 606 lett. b) ed e) in ordine all’art. 416 c.p., comma 2, per insussistenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine all’esistenza del programma criminoso e per mancanza di motivazione in ordine alla partecipazione alla associazione. Lamenta che la decisione dei giudici d’appello non fornisce una motivazione sufficientemente valida per sostenere la formazione della fattispecie sia sotto il profilo dell’elemento oggettivo che soggettivo del reato. Evidenzia che gli elementi richiamati dalla Corte territoriale (dichiarazioni teste C. ed intercettazioni telefoniche) sono assolutamente generici e privi di qualsiasi significato sotto il profilo giuridico. Sottolinea come nulla è stato evidenziato con riguardo all’elemento soggettivo. Richiama pronunce di questa Corte e sottolinea l’assenza di elementi riconducibili al C., diversi dalla collaborazione lavorativa con gli I., che possano essere ricondotti alla fattispecie in esame.

Il difensore di B.G.A. deduce che la sentenza impugnata è incorsa in omessa, insufficiente, contraddittoria e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza degli elementi sostanziali dei reati contestati. In particolare lamenta che la stringata ratto decidenti del provvedimento impugnato non appare sorretta da un adeguato sviluppo argomentativo idoneo a convalidare, sul piano logico e giuridico, la soluzione accolta.

Censura la mancata applicazione dell’art. 530 c.p.p., comma 2 e l’eccessività della pena.

Il difensore di IA.An., I.A., IA. A. e I.C. ha presentato distinti ricorsi nei quali però deduce alcuni motivi identici. In particolare si duole con riguardo a tutti i ricorrenti che la sentenza impugnata è incorsa in:

1) erronea applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’art. 192 c.p.p., comma 2 e art. 530 c.p.p., comma 2, per mancata prova, con riguardo alle estorsioni, dell’ingiusto profitto con conseguente diminuzione patrimoniale in capo alle persone offese. Lamenta che i giudici d’appello sono pervenuti ad un’affermazione di responsabilità in assenza di prova certa ed univoca e che in tale incerto contesto probatorio hanno negato la rinnovazione del dibattimento ex art. 603 c.p.p., richiesta dalla difesa per effettuare perizia sulla contabilità del REX e per escutere testi ( F., V.D. e gli appartenenti al Comando CC di Montevarchi) circa l’eventuale cessione di stupefacenti da parte del C.. Sottolinea come in assenza di perizia contabile non sia possibile qualificare come sproporzionati i prezzi dei servizi di guardania ed evidenzia come la Corte Territoriale, dopo aver negato la rinnovazione del dibattimento, ha contestato alla difesa di avere fatto "deduzioni ambivalenti"e di non avere fornito prove concrete circa le violazioni da parte delle persone offese della Legge Merlin e della normativa sugli stupefacenti. Rileva che i rapporti con le presunte vittime hanno avuto inizio per spontanea volontà degli stesse denuncianti e che quindi nessuna coercizione era stata posta in essere e che era innegabile che i gestori dei locali avevano tratto vantaggio dall’operato dei vigilantes. Aggiunge che i giudici del merito hanno voluto ricondurre l’ingiustizia del profitto anche al valore delle consumazioni e degli ingressi omaggio riconosciuti agli operatori di sicurezza, ma lo hanno fatto senza fornire alcuna certezza. Si duole dei mancati riscontri alle dichiarazioni delle parti offese e sottolinea la mancanza di conferme in ordine alla sussistenza dell’asserito clima di paura e soggezione che avrebbero generato i fratelli I. con il loro comportamento. Lamenta un vuoto motivazionale anche con riguardo all’idoneità della condotta ad incidere sulla sfera soggettiva delle persone offese, soprattutto se si considera che le stesse avevano tratto vantaggio dall’operato dei vigilantes, e si duole del fatto che i giudici d’appello non hanno tenuto in considerazione una serie di elementi evidenziati dalla difesa dai quali emergeva come il timore, espresso dalle parti offese, doveva essere ascritto alla gestione parallela di un giro di prostituzione e all’attività di consumo e cessione di sostanze stupefacenti. Sul punto richiamava la deposizione del teste I. resa in data 7.10.2008. 2) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) per carenza di motivazione e illogicità, manifesta contraddittorietà della stessa con riguardo al reato di cui all’art. 416 c.p., nonchè erronea applicazione della predetta disposizione e dell’art. 192 c.p.p., comma 3. Si duole della mancata considerazione delle doglianze difensive in merito alla sussistenza del reato associativo.

Contesta la ricostruzione operata dalla Corte territoriale in ordine alla sussistenza del reato in argomento che poggia su presunzioni non suffragate da elementi probatori;

3) violazione di legge con riguardo alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche;

4) violazione di legge con riguardo alla revoca del già concesso indulto Con riguardo alle posizioni di Ar. e C. I. deduce anche che la sentenza impugnata è incorsa in:

a. violazione di legge processuale penale ( art. 606 c.p.p., lett. c) – Nullità della deposizione resa dal teste C.F..

Evidenzia la difesa che C.F. risulta indagato per violazione della Legge sugli stupefacenti, condotta realizzata all’interno del locale REX nel periodo in cui gli I. svolgevano servizio di guardiania, reato, secondo la difesa, connesso a quello per cui si procede, con conseguente nullità delle dichiarazioni rese in qualità di testimone. Si duole inoltre della mancata valutazione del teste I. e della mancata rinnovazione del dibattimento Con riguardo al solo Ar.

I. deduce che la sentenza impugnata è incorsa in:

b. violazione dell’art. 414 c.p.p. in relazione alla nozione di "stesso fatto" e carenza di motivazione in merito al rigetto della relativa questione di improcedibilità. Evidenzia il ricorrente che IA.Ar. era già stato indagato per i reati di cui agli artt. 416 bis c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, nell’anno 2005 e che il relativo procedimento era stato archiviato in data 28.5.2005 con decreto del GIP. Lamenta il ricorrente che il presente procedimento era iniziato in assenza di provvedimento autorizzativo ex art. 414 c.p.p.. Sostiene l’irrilevanza della circostanza della diversità dei reati fine e della parziale diversità degli aderenti tale sodalizio. c. erronea applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’art. 629 c.p., art. 513 bis c.p. e artt. 546-530 c.p.p., comma 2. Lamenta la mancata prova dell’ingiustizia del profitto e del vantaggio patrimoniale, elementi costitutivi del reato di estorsione, i mancati riscontri alle dichiarazione delle parti offese e la mancata valutazione di testi che hanno affermato di non avere mai visto IA.Ar. minacciare o porre in essere atti di violenza. d. Violazione della legge processuale penale e vizio della motivazione. Travisamento della prova e contraddittorietà manifesta della motivazione con riguardo ai capi A) e D). Lamenta il ricorrente che la denunciata sentenza fonda il proprio convincimento sulla partecipazione del ricorrente all’episodio 5.1.2007 (episodio cd. sangue alle caviglie) nonostante la prova documentata che Ar.

I. fu assolto da tale episodio come attestato dalla sentenza irrevocabile prodotta dalla difesa all’udienza del 18.1.2010.

In data 9.5.2011 depositava motivi nuovi insistendo sulla nullità della deposizione del teste C. ed allegando stralci della deposizione del teste I.. Con riguardo alle posizioni di C. e IA.Am. deduce che la sentenza impugnata è incorsa in:

e. violazione di altre norme giuridiche con riguardo all’elemento soggettivo dei reati di estorsione, e in particolare L. n. 15 luglio 2009 n. 94 (in vigore all’epoca del giudizio) nonchè del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 134 (in vigore all’epoca del fatto contestato). Sottolinea in particolare che IA.Ar. in dibattimento aveva chiarito che il suo "inveire" nel corso delle conversazioni intercettate era determinato dal timore di ripercussioni sulla loro attività a causa degli illeciti commessi dal C. e dalla richiesta, avanzata da quest’ultimo di lavorare sotto organico nei locali pubblici BARCELONA e REX. Il difensore di I.F. deduce che la sentenza impugnata è incorsa in contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione in ordine a tutti gli elementi di prova a carico (e con specifico riferimento all’intercettazione telefonica n. (OMISSIS)). Lamenta il ricorrente che la Corte territoriale non ha tenuto conto della versione alternativa delle intercettazioni poste a fondamento della responsabilità di I.F. e contesta che i giudici d’appello, anzichè valorizzare alcuni elementi dagli stessi indicati in sentenza, quali il ruolo equilibrato e moderatore del prevenuto, come indizi di estraneità ai fatti, li hanno piegati alle ragioni dell’accusa (cfr. pag. 28 sentenza impugnata). Si duole della mancata considerazione di elementi di prova dedotti con l’atto d’appello tendenti a dimostrare la completa estraneità di F. I. all’attività dei fratelli e comunque a giustificare una interpretazione alternativa delle vicende che lo vedono coinvolto.

Richiama la deposizione del teste d’accusa A., sentito all’udienza del 2.7.2008, che esclude un coinvolgimento dell’imputato nell’attività svolta dai fratelli Sottolinea come non risulta provata una partecipazione agli utili. Sul punto contesta l’interpretazione data dai giudici di merito alla intercettazione n. 7926 del 30.3.2006 rilevando che proprio da tale conversazione emerge l’estraneità del prevenuto ai guadagni dell’agenzia dei fratelli.

Il difensore di V.E.V. deduce che la sentenza impugnata è incorsa in:

1. carenza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alle deposizioni delle parti offese. Si duole il ricorrente del fatto che i giudici di merito hanno ritenuto pienamente credibili i testi C. e M. senza tenere in considerazione il fatto che gli stessi erano portatori di interessi patrimoniali strettamente legati alla condanna degli imputati. Sottolinea che era loro interesse ottenere la condanna per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. perchè avevano avuto accesso al fondo delle vittime di mafia e che quindi la loro deposizione non era disinteressata. Aggiunge che dovevano essere sentiti come imputati di reato connesso, perchè indagati in altro procedimento per violazione delle disposizioni sugli stupefacenti. Evidenzia che il C. ha reso la sua deposizione in palese violazione dell’art. 149 disp. att. c.p.p., dopo aver parlato con altri testimoni e dopo aver letto gli atti di indagine e le deposizioni dibattimentali, con conseguente inattendibilità della sua deposizione.

2. Mancanza di responsabilità in ordine al delitto associativo- mancanza e contraddittorietà della motivazione. Sottolinea il ricorrente che il V. era un mero dipendente dell’Agenzia degli I. dove aveva lavorato solo per 6 mesi nel 2007 e lamenta la gratuità dell’affermazione dei giudici d’appello secondo i quali l’assunzione dell’imputato non rispondeva ad esigenze reali del locale, ma alla necessità dell’organizzazione Contesta la ricostruzione in fatto operata dai giudici di merito, in particolare l’interpretazione data ad alcune conversazioni intercettate sottolineando che si trattava di semplici conversazioni per accordarsi su tempi e modi dello svolgimento del lavoro. Sostiene che la Corte Territoriale è incorsa in travisamento della prova, laddove ha affermato che il V. era stato presentato ai proprietari del REX come socio in affari degli I., quando invece il direttore del locale (teste S.) aveva dichiarato all’udienza dell’26.9.2008, in sede di controesame, che era stato presentato come semplice collaboratore. Circostanza confermata anche da M. all’udienza del 22.9.2008 e dalla conversazione intercettata il 7.6.2007, intercorsa fra J.G. e D.M. E., nel corso della quale i due, commentando gli arresti, escludono un coinvolgimento del V. nei fatti illeciti in argomento. Si duole anche che i giudici d’Appello hanno travisato la deposizione del teste S. con riguardo alla condotta tenuta dall’imputato all’interno del REX e non hanno tenuto in considerazione altri testi dell’Accusa (BRACHETTI-udienza 3.7.2008) e i testi della difesa che hanno descritto il prevenuto come un normale addetto alla sicurezza dai modi molto gentili ed educati, mai violenti. Sottolinea il ricorrente che il teste S., in sede di controesame, ha escluso che il V. abbia usato un comportamento violento nei confronti dei clienti. (ud. 26.9.2008) Contesta l’interpretazione data dalla Corte di merito dell’episodio del 30.4.2007 sottolineandone la valenza minimale nell’ottica di una valutazione in ordine alla partecipazione dell’imputato al sodalizio in argomento.

3. insussistenza del reato di cui all’art. 629 c.p.- mancanza e contraddittorietà della motivazione. Lamenta il ricorrente l’insussistenza di elementi circa l’elemento oggettivo e soggettivo del reato. Sottolinea come il V. non abbia mai minacciato nessuno e non abbia mai scatenato risse o spadroneggiato al REX. Aggiunge che lo stesso percepiva un compenso nella norma. Sottolinea l’assenza di danno per l’imputato e l’ingiusto profitto per il locale;

4. violazione dell’art. 192 con riguardo al capo H) dell’imputazione (furto dei televisori). Sottolinea come la responsabilità per i furti dei televisori al B. nasce dalla chiamata in correità resa in sede di indagini da An. e C. I., ma ritrattata in dibattimento. Lamenta che le conversazioni telefoniche intercettate, richiamate dalla Corte a titolo di riscontro, rappresentano meri indizi non caratterizzati da precisione e gravità. 5. mancanza di motivazione con riguardo alla mancata concessione dell’attenuante di cui all’art. 114 c.p.p..

6. mancanza di motivazione in punto pena che appare eccessiva e sproporzionata rispetto ai fatti.

I ricorsi in argomento denunciano, sotto diversi profili, vizi di motivazione. In proposito vanno richiamati i principi, ripetutamente affermati da questa Corte, che regolano il sindacato del giudice di legittimità.

La mancanza di motivazione consiste nell’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa sottoposto al giudice di merito, non già nell’insufficienza di essa o nella mancata confutazione di un argomento specifico relativo ad un punto della decisione che è stato trattato dal giudice del provvedimento impugnato, con implicito rigetto della diversa valutazione operata da quella della parte.

Così come il controllo di legittimità non si estende alle incongruenze logiche che non siano manifeste, ossia macroscopiche, eclatanti, assolutamente incompatibili con le conclusioni adottate o con altri passaggi argomentativi utilizzati dai giudici e tali, perciò, da costituire fratture logiche, all’interno del discorso giustificativo, tra premesse e conclusioni. La verifica che la Corte di Cassazione, in forza dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), è abilitata a compiere sulla correttezza e completezza della motivazione riguarda la congruità logica e l’interna coerenza dell’apparato argomentativo posto a base della decisione impugnata e non va confusa con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella fornita dal giudice di merito. La Corte Suprema non è quindi legittimata a controllare la rispondenza alle risultanze processuali e l’adeguatezza in concreto delle scelte operate, nell’ambito delle sue esclusive attribuzioni, dal giudice di merito in ordine alla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, ma soltanto a riscontrare l’esistenza di una reale e non apparente struttura motivazionale, completa e logicamente coerente con il materiale probatorio valutato.

Esclusa pertanto una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, non può integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (cfr. Cass., Sez. Un., 29.1.1996, Clarke; 23.2.1996, P.G., Fachini e altri; 22.10.1996, Di Francesco; 2.7.1997, Dessimone e altri).

La previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal "testo" del provvedimento impugnato, anche da "altri atti del processo", purchè specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti del giudice di legittimità, il quale è tuttora giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto. In questa prospettiva il richiamo alla possibilità di apprezzarne i vizi anche attraverso gli "atti del processo" rappresenta solo il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto "travisamento della prova", in virtù del quale la Corte, lungi dal procedere ad una (inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove), prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti per verificare se il relativo contenuto è stato preso in esame, senza travisamenti, all’interno della decisione.

In altri termini si può parlare di travisamento della prova nei casi in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale. Non spetta invece alla Corte di cassazione "rivalutare" il modo con cui quello specifico mezzo di prova è stato apprezzato dal giudice di merito, giacchè attraverso la verifica del travisamento della prova il giudice di legittimità può e deve limitarsi a controllare se gli elementi di prova posti a fondamento della decisione esistano o, per converso, se ne esistano altri inopinatamente e ingiustamente trascurati o fraintesi.

In sintesi: non c’è spazio per una rinnovata considerazione della valenza attribuita ad una determinata deposizione testimoniale, mentre potrebbero farsi valere: la mancata considerazione di una deposizione testimoniale di segno opposto esistente in atti ma non considerata dal giudice ovvero la valenza ingiustamente attribuita ad una deposizione testimoniale inesistente o avente un contenuto opposto a quello recepito dal giudicante (cfr. tra le tante: Cass. Sez. 2 n. 38915/07; Cass. Sez. 4 n. 35683/07; Cass. Sez. 4 n. 15556/08; Cass. Sez. 6 n. 18491/10).

Ciò detto le censure sollevate dalla difesa A. con i motivi 1 e 2 del ricorso si palesano manifestamente infondate perchè versate in fatto e comunque generiche.

Ai sensi dell’art. 581 c.p.p., lett. c), l’obbligo di specificare le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono la richiesta esige, a pena di inammissibilità, che siano ben individuati i punti della decisione cui si riferiscono le doglianze con l’indicazione precisa delle questioni che, relativamente ad essi si intendono prospettare e l’esposizione in maniera concreta, se trattasi di ricorso per cassazione, dei motivi di diritto che si intendono sottoporre al sindacato di legittimità e con cui si intendono sostenere le censure dedotte. Nel caso in esame la difesa dell’imputato ha mosso generiche censure alle argomentazioni fattuali e logico-giuridiche sviluppate nella sentenza d’appello, e non ha nemmeno sostenuto il proprio assunto con richiamo ad atti specifici e ben individuati del processo che il giudice di merito avrebbe omesso di valutare.

In proposito il Collegio osserva che è ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità il principio della cd.

"autosufficienza" del ricorso in base al quale quando la doglianza fa riferimento ad atti processuali, la cui valutazione si assume essere stata omessa o travisata, è onere del ricorrente suffragare la validità del proprio assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti specificatamente indicati o la loro allegazione (ovviamente nei limiti di quanto era già stato dedotto in precedenza), essendo precluso alla Corte l’esame diretto degli atti del processo, a meno che il fumus del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso (cfr.

Cass. n. 20344/06; Cass. n. 20370/06; Cass. n. 47499/07; Cass. n. 16706/08).

Nel caso in esame il ricorrente non ha messo a disposizione di questa Corte di legittimità gli elementi obiettivi necessari per apprezzare, sulla base di atti specificatamente trascritti o allegati, la sussistenza o l’insussistenza di un fumus delle doglianze e quindi l’utilità o la superfluità di un esame diretto dei relativi atti. In applicazione a tali principi il Collegio ritiene che le risultanze processuali inadeguatamente esposte e le argomentazioni esposte nei motivi in esame si risolvono in generiche censure in punto di fatto che tendono unicamente a prospettare una diversa ed alternativa lettura dei fatti di causa, ma che non possono trovare ingresso in questa sede di legittimità a fronte di una sentenza impugnata che non presenta nella motivazione alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva sia con riguardo alla partecipazione all’associazione, sia con riguardo al concorso nell’estorsione.

Inammissibile è anche il terzo motivo di ricorso. Premesso che in tema di concorso di persone nel reato, la circostanza attenuante della partecipazione di minima importanza si applica solo quando il ruolo di uno dei concorrenti, o nella fase preparatoria o in quella esecutiva, abbia avuto un’efficacia eziologica del tutto marginale nella causazione dell’evento, nel senso che il reato sarebbe stato ugualmente compiuto anche senza l’attività del correo, deve osservarsi che nel caso in esame la Corte distrettuale ha dato conto dell’apporto non minimale dell’ A., che apparteneva al nucleo storico del gruppo di cui condivideva le finalità e che contribuiva a realizzare spadroneggiando nei locali dove vantava la "potenza" dell’associazione.

Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.

Anche le doglianze avanzate dalla difesa di C.M. sono formulate in modo generico, in violazione di quanto prescritto dall’art. 581 c.p.p., lett. c). Sono manifestamente insussistenti, del resto, i vizi di motivazione pur genericamente denunciati, perchè la Corte territoriale ha compiutamente esaminato le doglianze difensive ed ha dato conto del proprio convincimento sulla base di tutti gli elementi a sua disposizione, esaurientemente argomentando circa la pronuncia di responsabilità dell’imputato per la partecipazione all’associazione in argomento. Nell’esame operato dai giudici del merito le acquisizioni probatorie risultano interpretate nel pieno rispetto dei canoni legali di valutazione e risultano applicate con esattezza le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la conferma delle conclusioni di colpevolezza. Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.

Generiche sono anche le censure avanzate dalla difesa di B. G.A..

Il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata non appare sorretta da un adeguato sviluppo argomentativo idoneo a convalidare, sul piano logico e giuridico, la soluzione accolta. L’art. 606 c.p.p. elenca una serie tassativa di motivi di ricorso. Il ricorrente deve quindi prospettare una specifica doglianza in ordine alle argomentazioni poste a fondamento della decisione impugnata e non limitarsi a dedurne genericamente l’infondatezza. L’atto di ricorso deve essere autosufficiente, nel senso che deve contenere la precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica (v. per tutte Cass. 19 dicembre 2006, n. 21858).

E’ quindi inammissibile il ricorso per cassazione quando, come nel caso in esame, gli argomenti esposti siano assolutamente generici, non individuando le ragioni in fatto o in diritto per cui la sentenza impugnata sarebbe censurabile e, pertanto, impedendo l’esercizio del controllo di legittimità sulla stessa Anche i motivi dedotti dalla difesa IA.An., I. A., IA.Ar. e I.C. sono infondati.

Con riguardo al primo motivo deve preliminarmente osservarsi che la decisione istruttoria del giudice di appello di negare la rinnovazione dell’istruzione è censurabile ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), sotto il solo profilo della mancanza o manifesta illogicità della motivazione, come risultante dal testo (Cass., sez. 6^, 30 Aprile 2003, n. 26713). Sotto questo profilo, occorre peraltro che la prova negata, confrontata con le ragioni addotte a sostegno della decisione, sia di natura tale da poter determinare una diversa conclusione del processo (Cass., sez. 2^, 17 maggio 2001, n. 49587).

La corte territoriale ha dato conto dell’esaustività delle prove anche con riguardo all’ingiustizia del profitto con conseguente diminuzione patrimoniale in capo alle parti offese e dunque della superfluità della riapertura del dibattimento, che è istituto eccezionale;legato al presupposto rigoroso dell’impossibilità di decidere allo stato degli atti ( art. 603 c.p.p., comma 1) (cfr. N. 34643/08 N. 10858 del 1996 Rv. 207067, N. 6924 del 2001 Rv. 218279, N. 26713 del 2003 Rv. 227706, N. 44313 del 2005 Rv. 232772, N. 4675 del 2006 Rv. 235654). Ciò detto ritiene il Collegio che, da un lato, il giudice di merito ha dimostrato in positivo, con spiegazione immune da vizi logici e giuridici, la sufficiente consistenza e l’assorbente concludenza delle prove già acquisite con riguardo a tutti gli elementi dei reati contestati e, dall’altro, il ricorrente non ha dimostrato l’esistenza, nell’apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate qualora si fosse provveduto all’assunzione di determinate prove in sede di appello, idonee a svalutare il peso del materiale probatorio raccolto e valutato.

Infondato è anche il secondo motivo. In sede di legittimità non è censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata col gravame quando la stessa è disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata. Pertanto, per la validità della decisione non è necessario che il giudice di merito sviluppi nella motivazione la specifica ed esplicita confutazione della tesi difensiva disattesa, essendo sufficiente per escludere la ricorrenza del vizio che la sentenza evidenzi una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione della deduzione difensiva implicitamente e senza lasciare spazio ad una valida alternativa. Sicchè, ove il provvedimento indichi, come nel caso in esame, con adeguatezza e logicità le circostanze e le emergenze processuali che si sono rese determinanti per la formazione del convincimento del giudice, sì da consentire l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata, non vi è luogo per la prospettabilità del denunciato vizio di preterizione.

Infondata è anche la doglianza in ordine alla revoca del già concesso indulto. Premesso che la revoca dell’indulto è stata disposta a seguito di specifico motivo d’appello avanzato dal P.M. deve osservarsi che questa Corte ha fissato il principio di diritto del divieto di applicazione dell’indulto nel caso che ricorra la condicio risolutiva della revoca del beneficio "per la giuridica ed, ancor prima, logica impossibilità di dichiarare giudizialmente l’applicazione di un condono in relazione al quale si sia già verificata una causa di revoca del beneficio" (Sez. 1, 27 aprile 1994, n. 1877, Vecchi, massima n. Rv. 198184; cui adde: Sez. 1, 1 dicembre 1993, n. 5244/1994, Lupo, massima n. 196138).

La L. 31 luglio 2006, n. 241, art. 1, comma 3, contempla, ai sensi della generale previsione dell’art. 174, comma 3, in relazione all’art. 151 c.p., comma 4, la revoca dell’indulto se il beneficiario "entro cinque anni dalla data di entrata in vigore della legge commette un delitto non colposo per il quale riporti condanna a pena detentiva non inferiore a due anni".

A differenza della revoca prevista per l’indulto condizionato, elargito col D.P.R. 11 luglio 1959, n. 460 (in base all’art. 13 di quel decreto "è necessario che entro il termine di cinque anni dalla data di entrata in vigore del provvedimento di clemenza sia divenuta irrevocabile la sentenza di condanna pronunciata per il nuovo reato, commesso entro lo stesso termine", v. Cass., Sez. 2, 2 marzo 1996, n. 705, Scandallato, massima n. 101379; Sez. 2, 20 dicembre 1965, n. 2997/1966, Caradonna, massima n. 100374), alla stregua della L. 31 luglio 2006, n. 241, art. 1, comma 3, la condicio risolutiva è integrata dalla pura e semplice commissione, nell’arco di tempo compreso tra il 1 agosto 2006 e il 1 agosto 2011, di un delitto non colposo, per quale sia inflitta pena detentiva in misura non inferiore a due anni, indipendentemente dalla circostanza che la relativa condanna sia stata pronunciata o sia passata in giudicato entro il dies ad quem del termine in parola (cfr. in relazione ai precedenti provvedimenti di indulto: Cass., Sez. 1, 4 aprile 2001, n. 23293, Quattrocchi, massima n. 219482; Sez. 1, 23 gennaio 1995, n. 259, Barreca, massima n. 201091; Sez. 2, 22 dicembre 1972, n. 2356/1973, Cardilli, massima n. 124500; Sez, 2, 2 luglio 1978, n. 1789, Balice, massima n. 109606). Non è pertanto è richiesto che "l’accertamento del nuovo delitto e la relativa condanna avvengano con separato giudizio, potendo essi essere invece anche contestuali alla condanna per i reati che consentirebbero l’applicazione del condono (Cass., Sez. 1, 19 dicembre 1973, n. 4522/1974, Riti, massima n. 127291). Infine, con riferimento al caso in esame di reato continuato, con continuazione iniziata prima, ma cessata dopo il termine stabilito dalla legge (o dal decreto di clemenza) per la fruizione dell’indulto, questa Corte ha fissato l’ulteriore principio di diritto, secondo il quale, ai fini della revoca -ovvero ai fini del divieto di applicazione del benefico per il quale già ricorra la condizione risolutiva – deve aversi riguardo "non all’aumento di pena inflitto ex art. 81 c.p." per i reati satellite (commessi dopo l’entrata in vigore del provvedimento di condono), bensì, previo virtuale scioglimento della continuazione, alla "sanzione edittale minima" prevista per i reati in questione "con la massima riduzione consentita da eventuali circostanze attenuanti" (Sez. 1^, 14 gennaio 1999, n. 363, Trane, massima n. 212959; e Sez. 1, 20 maggio 1998, n. 2934, Soaviti, massima n. 211415).

A tali principi, nonostante una stringata motivazione, si è attenuto il giudice d’appello nel momento in cui ha revocato il concesso condono, considerato che gli imputati sono stati condannati per estorsione continuata contestata dal gennaio 2005 al giugno 2007.

Infondata è la doglianza avanzata dalla difesa di IA. A. e C. con riguardo all’asserita nullità della deposizione del teste C.F.. Le SS.UU di questa Corte (sentenza n. 15208/2010) hanno stabilito che spetta al giudice il potere di verifìcare nella sostanza la situazione di incapacità o incompatibilità a testimoniare.

Quanto al tipo e alla consistenza degli elementi apprezzabili dal giudice al fine di verificare l’effettivo status del dichiarante, devono ritenersi rilevanti i soli indizi non equivoci di reità, sussistenti già prima dell’escussione del soggetto e conosciuti dall’autorità procedente In tal senso, oltre a Sez. Unite, 23 aprile 2009, n. 23868, Fruci, vedi anche Sez. 5^, 15 maggio 2009, n. 24953, Costa ed altri; Sez. Unite, 22 febbraio 2007, n. 21832, Morea; Sez. 2^, 2 ottobre 2008, n. 39380, Galletta; Sez. 5^, 5 dicembre 2001, n. 305/02, La Placa.

Il giudice, infatti, per potere applicare la norma di cui all’art. 210 c.p.p., deve essere messo in condizione di conoscere la situazione di incapacità a testimoniare o di incompatibilità, le quali, quindi, se non risultano dagli atti inseriti nel fascicolo del dibattimento, devono essere dedotte dalla parte esaminata o comunque da colui che chiede l’audizione della persona come imputata o indagata in un procedimento connesso o collegato /vedi Cass., Sez. 3^, 11 ottobre 2007, n. 40196, Torcasio).

Resta fermo che la questione costituisce accertamento in punto di fatto che, in caso di congrua motivazione da parte del giudice di merito, è sottratto al sindacato di legittimità (vedi Cass.: Sez. 3^, 30 settembre 2003, n. 43135, Marciante e altri; Sez. 6^, 30 aprile 1999, n. 10230, Cianetti).

Nella vicenda in esame i giudici di appello hanno sostenuto, in ciò contrastati dai ricorrenti, che le vicende di spaccio di sostanze stupefacenti e di violazione della Legge Merlin all’interno del locale REX non fossero in rapporto diretto con quelle oggetto dei procedimenti in cui il C. era stato sentito quale teste. Le argomentazioni svolte dalla Corte territoriale appaiono logiche e razionali ed integrano accertamento in punto di fatto che, a fronte della congrua motivazione da parte del giudice di merito, è sottratto al sindacato di legittimità.

Infondata è anche la doglianza avanzata dalla difesa Ar.

I. con riguardo alla violazione dell’art. 414 c.p.p..

Va, innanzi tutto, precisato che la riapertura delle indagini in violazione dell’art. 414 c.p.p. comporta solo l’inutilizzabilità degli atti di indagine eventualmente compiuti dal PM dopo il provvedimento di archiviazione. Il ricorrente non ha precisato nè gli atti di indagine che sarebbero colpiti da tale inutilizzabilità, nè la loro influenza sulla decisione finale.

Il ricorso, anche a voler prescindere da tale genericità, è comunque infondato, dovendosi condividere le osservazioni e le conclusioni sul punto dei giudici di merito, che hanno rigettato l’eccezione difensiva osservando che le indagini di cui agli atti in contestazione concernono fatti diversi per il periodo di commissione, per i partecipanti e per le caratteristiche oggettive dell’organizzazione criminale rispetto a quelli di cui al procedimento archiviato che riguardava la violazione dell’art. 416 bis c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, nell’anno 2005. Peraltro, è interpretazione pacifica che l’efficacia preclusiva del provvedimento di archiviazione con la conseguente necessità del provvedimento ex art. 414 c.p.p. presuppone che si tratti di procedimento investigativo nei confronti della stessa persona e per lo stesso fatto (in tal senso, soprattutto, Cass. Sez. Un. 22.3.2000, Finocchiaro, Cass. Sez. 3 n. 43952/04; Sez 1 n. 28377/06; Cass Sez. 2 n. 546/08; Cass SU n. 33885/10). Situazione che non si è verifìcata nel caso in esame,, la notizia di reato relativa all’associazione per delinquere per la quale si è proceduto alle nuove indagini censurate dal ricorrente, aveva non solo connotazioni cronologicamente diverse, ma anche oggetto diverso. Deve, quindi, condividersi la conclusione sul punto della sentenza impugnata.

I motivi indicati ai punti c) e d) sono manifestamente infondati e ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame dovendosi gli stessi considerare, per di più, non specifici. Il ricorrente non ha nemmeno sostenuto il suo assunto con richiamo ad atti specifici e ben individuati del processo che il giudice di merito avrebbe omesso di valutare. Valgono pertanto i principi già espressi in tema di "autosufficienza" del ricorso in base al quale quando la doglianza fa riferimento ad atti processuali, la cui valutazione si assume essere stata omessa o travisata, è onere del ricorrente suffragare la validità del proprio assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti specificatamente indicati o la loro allegazione (ovviamente nei limiti di quanto era già stato dedotto in precedenza), essendo precluso alla Corte l’esame diretto degli atti del processo, a meno che il fumus del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso (cfr. Cass. n. 20344/06; Cass. n. 20370/06;

Cass. n. 47499/07; Cass. n. 16706/08).

Nel caso in esame il ricorrente non ha messo a disposizione di questa Corte di legittimità gli elementi obiettivi necessari per apprezzare, sulla base di atti specificatamente trascritti o allegati, la sussistenza o l’insussistenza di un fumus delle doglianze e quindi l’utilità o la superfluità di un esame diretto dei relativi atti.

In applicazione a tali principi il Collegio ritiene che le risultanze processuali inadeguatamente esposte e le argomentazioni esposte nei motivi in esame si risolvono in generiche censure in punto di fatto che tendono unicamente a prospettare una diversa ed alternativa lettura dei fatti di causa, ma che non possono trovare ingresso in questa sede di legittimità. Anche il motivo indicato al punto e) dalla difesa I.C. e A. è infondato perchè generico e versato in fatto. Dal controllo di legittimità sono infatti escluse le deduzioni che riguardano l’interpretazione e la specifica consistenza degli elementi indizianti o probatorio e la scelta di quelli determinanti, poichè la verifica di legittimità è limitata alla sussistenza dei requisiti minimi di esistenza e di logicità della motivazione, essendo inibito il controllo sul contenuto della decisione.

Ne consegue che non possono trovare ingresso in sede di legittimità i motivi di ricorso fondati su una diversa prospettazione dei fatti addotta dal ricorrente nè su altre spiegazioni fornite dalla difesa, per quanto plausibili.

I ricorsi di I.A., IA.An., I. A., I.C. devono pertanto essere respinti.

Inammissibile perchè generico e versato in fatto è il ricorso di I.F.. Sotto il profilo del vizio di motivazione il ricorrente sollecita alla Corte una diversa lettura dei dati di fatto non consentita in questa sede. Deve aggiungersi che il ricorrente non solo non ha mosso specifiche censure alle argomentazioni fattuali e logico-giuridiche sviluppate nella sentenza, ma non ha nemmeno sostenuto il suo assunto con richiamo ad atti specifici e ben individuati del processo che il giudice di merito avrebbe omesso di valutare.

Infondato è anche il ricorso presentato dalla difesa V. E.V.. Il primo motivo di ricorso è in parte versato in fatto e infondato in diritto. La Corte distrettuale con motivazione coerente e scevra di vizi logici ha dato conto dell’attendibilità dei testi M. e C.. Con riguardo all’asserita violazione dell’art. 149 disp. att. c.p.p. deve preliminarmente osservarsi che il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare quanto sostenuto in ordine alla presenza del teste durante gli esami delle altre persone,in ogni caso è pacifico che nell’ipotesi in cui i testi, prima del loro esame, non siano stati posti in condizione di non comunicare con le parti, in violazione del disposto di cui all’art. 149 disp. att. c.p.p., non può′ parlarsi di inutilizzabilità, a norma dell’art. 191 c.p.p.(che riguarda le "prove illegittimamente acquisite" cioè le prove che contrastino con uno specifico divieto di acquisizione) ma di mera irregolarità che, in relazione alla sua natura e gravità, può portare alla nullità assoluta o relativa, ad essa ricollegabile secondo il principio di tassatività di cui all’art. 177 c.p.p., conseguenza che non può derivare dall’inosservanza del citato art. 149 disp. att. c.p.p., che costituisce una norma regolamentare, cui non è collegata alcuna sanzione sul piano processuale (cfr. Cass. Sez. 5 n. 21886/2010;

Cass., Sez. 1, 5 maggio 1992, Rendina, CED Cass. 190717; Cass., Sez. 1, 27 maggio 1994, Mazzuoccolo, CED Cass. 198371) potendo semmai tale violazione influire sull’attendibilità del teste. I giudici, come già indicato, hanno però ritenuto la piena attendibilità delle dichiarazioni del C., da loro indicate come precise, dettagliate e prive di contraddizioni, non unilateralmente accusatorie e confermate da numerosissime risultanze processuali.

Il secondo e il terzo motivo del ricorso si risolvono nella sollecitazione ad una valutazione del materiale probatorio diversa da quella operata dalla Corte d’appello, preclusa in questa sede di legittimità.

Il Giudice distrettuale, infatti, si è espressamente confrontato con le deduzioni difensive disattendendole con motivazione specifica. Con riguardo all’eccepito travisamento della prova deve ribadirsi che tale vizio si realizza allorchè si introduce nella motivazione un’informazione rilevante che non esiste nel processo oppure quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronunzia. Attraverso l’indicazione specifica di atti contenenti la prova travisata od omessa si consente nel giudizio di cassazione di verificare la correttezza della motivazione. Ciò peraltro vale nell’ipotesi di decisione di appello difforme da quella di primo grado, in quanto nell’ipotesi di doppia pronunzia conforme il limite del devolutum non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui il giudice d’appello, al fine di rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, richiami atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice. Infine il dato probatorio che si assume travisato od omesso deve avere carattere di decisività non essendo possibile da parte della Corte di cassazione una rivalutazione complessiva delle prove che sconfinerebbe nel merito. Nel caso di specie, il giudice di appello ha riesaminato lo stesso materiale probatorio già sottoposto al tribunale e, dopo avere preso atto delle censure dell’appellante V., è giunto alla medesima conclusione. Il ricorrente attraverso lo schermo del travisamento chiede ora una rivalutazione complessiva delle prove non consentita in questa fase di legittimità. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile perchè riproduce pedissequamente il motivo d’appello.

E’ giurisprudenza pacifica di questa Corte che se i motivi del ricorso per Cassazione riproducono integralmente ed esattamente i motivi d’appello senza alcun riferimento alla motivazione della sentenza di secondo grado, le relative deduzioni non rispondono al concetto stesso di "motivo", perchè non si raccordano a un determinato punto della sentenza impugnata ed appaiono, quindi, come prive del requisito della specificità richiesto, a pena di inammissibilità, dall’art. 581 cod. proc. pen., lett. c). E’ evidente infatti che, a fronte di una sentenza di appello, come quella in esame, che ha fornito una risposta al motivo in esame la pedissequa ripresentazione dello stesso come motivo di ricorso in Cassazione non può essere considerata come critica argomentata rispetto a quanto affermato dalla Corte d’Appello. Inammissibili sono anche i motivi di cui ai punti cinque e sei. Premesso che, come già indicato, in tema di concorso di persone nel reato, la circostanza attenuante della partecipazione di minima importanza si applica solo quando il ruolo di uno dei concorrenti, o nella fase preparatoria o in quella esecutiva, abbia avuto un’efficacia eziologica del tutto marginale nella causazione dell’evento, nel senso che il reato sarebbe stato ugualmente compiuto anche senza l’attività del correo, deve osservarsi che nel caso in esame la Corte distrettuale ha dato conto dell’apporto non minimale del V. indicato come "l’enfant prodige" del gruppo, inserito a pieno titolo nel gruppo come una delle "persone che contano".

Generica appare la doglianza in ordine alla penagli ricorrente si limita a contestare l’eccessività della pena senza considerare che il giudice ha fissato la pena dando conto di avere tenuto conto nell’ambito della complessiva applicazione di tutti i criteri di cui all’art. 133 c.p..

I ricorsi di A., C., G.B., I. F. e V. devono pertanto essere dichiarati inammissibili.

I ricorsi di I.A., IA.An., I. A. e I.C. devono invece essere respinti.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p. consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e di A., C., G.B., I.F. e V. altresì della somma, che si ritiene equo liquidare in Euro 1.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi di A.A., C.M., G.B.A., I.F. e V.E.V..

Rigetta i ricorsi di I.A., IA.An., IA.Ar. e I.C..

Condanna tutti i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè A.A., C.M., G.B. A., I.F. e V.E.V., altresì al versamento della somma di Euro 1.000,00 ciascuno, in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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