Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 11-05-2011) 04-08-2011, n. 31049

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 5.10.2010 la Corte d’Appello di Milano confermava la sentenze del GIP presso il Tribunale di Milano che in data 30.9.2009 aveva condannato, alla pena ritenuta di giustizia, M.O. per associazione per delinquere, truffa e ricettazione di assegni.

Ricorre per Cassazione il difensore dell’imputato deducendo che la sentenza impugnata è incorsa in:

1. manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla fattispecie del reato associativo.

Lamenta il ricorrente che la Corte territoriale ha preso in considerazione, quale elemento oggettivo rivelatore dell’affectio societatis, la partecipazione dell’imputato agli episodi di truffa e ricettazione che sarebbero invece la conseguenza della sua partecipazione all’associazione stessa. Sottolinea come la reiterazione criminosa può essere sintomo di altro fenomeno di collaborazione plurisoggettiva nel reato ( art. 110 c.p.) o dell’unicità del disegno criminoso (art. 81 cpv c.p.). Sottolinea inoltre che dalle spontanee dichiarazioni dell’imputato era emerso come lo stesso avesse accettato di volta in volta l’esecuzione delle truffe commissionatigli.

2. erronea applicazione della legge penale con riferimento alla fattispecie del delitto di ricettazione.

Sottolinea il ricorrente come il reato di ricettazione presupponga un rapporto con la res inteso come possesso materiale o possibilità di ottenere detto possesso.

Evidenzia la necessità di verificare se la Corte d’Appello abbia correttamente condannato l’imputato per avere acquistato, ricevuto ed occultato gli assegni falsi in tutti quei casi in cui non era presente al momento della conclusione del negozio, dello scambio automobile-assegno.

Rileva che la mera partecipazione all’associazione non è sufficiente per desumere la responsabilità in ordine a tutti i reati perpetrati dall’associazione stessa.

Contesta il valore dato dai giudici di merito alle dichiarazioni rese dall’imputato sottolineando come le stesse siano frutto di una rielaborazione linguistica del verbalizzante.

3. contraddittorietà della motivazione con riferimento alle prove assunte in indagini ed utilizzate nel giudizio abbreviato.

Lamenta che la Corte territoriale si sia richiamata alla motivazione del primo giudice nonostante le argomentazioni dallo stesso espresse, come indicato dalla difesa nei motivi d’appello, siano in palese contrasto con i risultati dell’indagine.

In particolare richiama il verbale-querela di G.R. del 17.1.2008 e il verbale di individuazione fotografica eseguita dallo stesso in data 28.4.2008.

Nell’esaminare le doglianze formulate dal ricorrente, attinenti alla tenuta argomentativa della sentenza, appare utile ricordare, in via preliminare, i rigorosi limiti del controllo di legittimità sulla sentenza di merito.

Invero, ai sensi di quanto disposto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non concerne nè la ricostruzione dei fatti nè l’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento.

Deve aggiungersi che l’illogicità della motivazione, deve risultare percepibile ictu oculi, in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Cass., Sez. 4^, 4 dicembre 2003, Cozzolino ed altri).

Inoltre; va precisato, che il vizio della "manifesta illogicità" della motivazione deve risultare dal testo del provvedimento impugnato, nel senso che il relativo apprezzamento va effettuato considerando che la sentenza deve essere logica "rispetto a se stessa", cioè rispetto agli atti processuali citati.

I limiti del sindacato della Corte non paiono mutati neppure a seguito della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), intervenuta a seguito della L. 20 febbraio 2006, n. 46.

La Corte, anche nel quadro nella nuova disciplina, è e resta giudice della motivazione.

Nel caso di specie con le doglianze in esame il M. non solo ha reiterato doglianze già esposte con i motivi d’appello e debitamente disattese dalla Corte di merito, ma non ha nemmeno sostenuto il suo assunto con richiamo ad atti specifici e ben individuati del processo che il giudice di merito avrebbe omesso di valutare.

In proposito il Collegio osserva che è ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità il principio della c.d.

"autosufficienza" del ricorso in base al quale, quando la doglianza fa riferimento ad atti processuali, la cui valutazione si assume essere stata omessa o travisata, è onere del ricorrente suffragare la validità del proprio assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti specificatamente indicati o la loro allegazione (ovviamente nei limiti di quanto era già stato dedotto in precedenza), essendo precluso alla Corte l’esame diretto degli atti del processo, a meno che il fumus del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso (cfr.

Cass. n. 20344/06; Cass. n. 20370/06; Cass. n. 47499/07; Cass. n. 16706/08).

Il ricorrente non ha messo a disposizione di questa Corte di legittimità gli elementi obiettivi necessari per apprezzare, sulla base di atti specificatamente trascritti o allegati, la sussistenza o l’insussistenza di un fumus delle doglianze e quindi l’utilità o la superfluità di un esame diretto dei relativi atti.

In applicazione a tali principi il Collegio ritiene che le risultanze processuali inadeguatamente esposte e le argomentazioni espresse nel motivo in esame si risolvono in generiche censure in punto di fatto che tendono unicamente a prospettare una diversa ed alternativa lettura dei fatti di causa, ma che non possono trovare ingresso in questa sede di legittimità a fronte di una sentenza impugnata che appare congruamente e coerentemente motivata.

I giudici di merito hanno dato conto delle ragioni che li hanno portati a qualificare la condotta tenuta dal M. in termini associativi, ferma restando l’ovvia autonomia del reato associativo dai reati fine.

In particolare le collaudate modalità operative del "gruppo", la sistematicità dei comportamenti sempre reiterati secondo uno schema consolidato, la strumentale e condivisa sinergia tra i singoli apporti, la stabilità dei ruoli, nel cui contesto si inseriva la pressochè sistematica ricorrenza, oggettivamente documentata, del nominativo del M. quale intestatario delle vetture acquistate, ancora la sua presenza come protagonista operativo nelle singole vicende, il protrarsi di tali condotte per un apprezzabile periodo di tempo, circa un anno, sono stati considerati convergenti elementi idonei a dimostrare, per un verso, la sussistenza della contestata associazione e per altro verso la riconducibilità degli illeciti non ad occasionali accordi criminosi, bensì ad un accordo sociale e ad un impegno collettivo stabile.

La sistematicità di un agire consapevole da parte del M., che ha ammesso il suo coinvolgimento in una serie di truffe condotte in danno di una pluralità di vittime, è stata dal giudice di merito, con motivazione logica e coerente, considerata significativa della volontà di gestire l’attività illecita senza predeterminati limiti temporali e inequivocabile manifestazione esterna dell’esistenza di un programma delinquenziale comune, nonchè della consapevole adesione anche operativa dei partecipi.

Così come la Corte territoriale ha dato conto, con motivazione coerente e priva di vizi logici, del contributo concorsuale realizzato dal M. nei vari episodi di truffa e di ricettazione.

Con riguardo in particolare all’episodio G. dava conto che quest’ultimo aveva riconosciuto nel M. l’uomo presentatosi come "suocero di Gi." e sottolineava come anche in tale caso l’imputato era intervenuto come beneficiario del passaggio di proprietà del veicolo, esibendo copia del proprio documento di identità.

I motivi sono pertanto manifestamente infondati e il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Alla inammissibilità del ricorso consegue a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle Ammende che, in ragione delle questioni dedotte, si ritiene equo fissare in Euro 1000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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