T.A.R. Lazio Roma Sez. III bis, Sent., 14-09-2011, n. 7248 Titoli di studio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con il ricorso in esame, notificato in data 19 maggio 2010, la I.W.E.S. (E.S.O.E. – ESE) ha chiesto l’accertamento dell’illegittimità dei comportamenti, delle condotte e delle prassi amministrative poste in essere dallo Stato italiano in presunta violazione dell’ ordinamento comunitario, nonché il risarcimento dei danni asseritamente subiti in conseguenza della suddetta condotta e quantificati nella complessiva somma di Euro 65.200.000,00.

A tale riguardo si deducono i seguenti motivi di gravame

1. Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 38, 43 e 49 del Trattato CE, delle Direttive nn. 92/511CE, 89/48/CE e OS/36/CE nonché dei principi di responsabilità dello Stato membro per i danni causati ai singoli da violazione del diritto comunitario ad esso imputabili.

Secondo l’assunto di parte ricorrente il comportamento dell’Amministrazione avrebbe violato gli artt. 43 e 49 del Trattato CE e delle direttive del Consiglio n. 89/48/CE del 21 dicembre 1988 e 92/52/CE del 19 giugno 1992, di fatto impedendo ed ostacolando l’attività economica della ricorrente ESE e causando i gravi danni dei quali viene richiesto il risarcimento.

Sulla base della normativa sopra richiamata, il titolo di studio conseguito all’esito della frequenza dei corsi organizzati dalla E.S.E. in Italia era assolutamente equivalente al titolo di studio conseguito presso la N.T.U., che aveva anche in concreto certificato la qualità dei corsi che la E.S.E. teneva in Italia rilevandone l’equipollenza con quelli frequentati presso l’università britannica.

Il titolo stesso era pertanto suscettibile di essere ammesso alla procedura di riconoscimento ed il non averlo consentito da parte del Ministero dell’Università e della Ricerca – PER IL SOLO ILLEGITTIMO MOTIVO CHE IL CORSO NON VENIVA TENUTO ALL’ ESTERO – COSTITUISCE IL GRAVISSIMO ILLECITO CENSURATO NELLA PRESENTE SEDE.

1 violazione del diritto comunitario: violazione di norme giuridiche preordinate a conferire diritti ai singoli.

Non v’è dubbio che le disposizioni di cui agli artt. 39, 43 e 49 del Trattato CE e le disposizioni di cui alla citate Direttive del Consiglio n. 89/48/CE del 21 dicembre 1988 e 92/51/CE del 18 giugno 1992 (quest’ultime vigenti alla data in cui la ricorrente ha dismesso i propri stabilimenti in Italia), oltre ad imporre divieti agli Stati membri, attribuiscono ai singoli cittadini comunitari diritti fondamentali che i Giudici nazionali hanno l’obbligo di tutelare.

In particolare, secondo la giurisprudenza del Supremo Giudice comunitario l’art. 43 del Trattato, relativo al diritto di stabilimento, per definizione conferisce diritti ai singoli cittadini comunitari (in tal senso, tra le prime, Corte di Giustizia, 21 giugno 1974, C2174, Reynes, punto n. 25 della motivazione).

Si rileva, ancora, che il diritto di stabilimento previsto dall’art. 43 del Trattato CE, in combinato disposto con l’art. 49, è riconosciuto sia alle persone fisiche aventi la cittadinanza di uno Stato membro della Comunità sia alle persone giuridiche; infatti "esso comprende, per le società costituite a norma delle leggi di uno Stato membro e che abbiano la sede sociale, l’amministrazione centrale o la sede principale all’interno della Comunità europea, il diritto di svolgere la loro attività nello Stato membro di cui trattasi mediante una controllata, una succursale o un’agenzia (sent. 23 febbraio 2006, causa C471/04) " (cfr. da ultimo, Corte di Giustizia, 21 gennaio 2010, C311/08, Société de Gestion Industrielle SA; sottolineatura aggiunta, ndr).

Inoltre, sempre secondo costante giurisprudenza comunitaria, la nozione di libertà di stabilimento va intesa in senso molto ampio ed implica la possibilità per un soggetto comunitario di partecipare, in modo stabile e continuativo, alla vita economica di uno Stato membro diverso da quello d’origine, favorendo così la compenetrazione economica e sociale all’interno della Comunità (cfr, tra molte, Corte di Giustizia, 30 Novembre 1995, C55/94, Reinhard Gebhard, punto n. 25 della motivazione; nello stesso senso anche Corte di Giustizia, 13 dicembre 2005, C411103, punto n. 18 della motivazione)

Infatti, l’art. 43 del Trattato CE osta, non solo alle discriminazioni in ragione della cittadinanza ed a qualsiasi forma di discriminazione indiretta o dissimulata (Corte di Giustizia,13 Luglio 1993, n. 330/91, punto n. 14 della motivazione; 5 dicembre 1989, n. C3/88, punto n. 8 della motivazione; più di recente anche Corte di Giustizia, 17 gennaio 2008, C 105/07, punto n. 14 della motivazione), ma altresì a "qualsiasi provvedimento il quale, anche se si applica senza discriminazione in base alla cittadinanza, può ostacolare o scoraggiare, l’esercizio da parte dei cittadini comunitari compresi quelli dello Stato membro che ha emanato il provvedimento stesso, delle libertà fondamentali garantite dal Trattato" (cfr., tra le prime, Corte di Giustizia, 31 marzo 1993, C19/92, Dieter Kraus, punto n. 32 della motivazione; nello stesso senso di recente anche Corte di Giustizia, Il ottobre 2007, C443/06, punti nn. 28 e 29 della motivazione).

Analogamente, l’articolo 49 del Trattato CE richiede l’eliminazione di ogni restrizione in base alla cittadinanza tale "da vietare, da ostacolare o da rendere meno attraenti le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro ove fornisce legittimamente servizi analoghi, e quindi atti ad ostacolare l’accesso al mercato in qualsiasi Stato membro, anche qualora si applichi indistintamente ai prestatori nazionali e a quelli degli altri Stati membri" (cfr., ex multis, Corte di Giustizia, 26 gennaio 2006, C514103, punto n. 2 della motivazione).

Appare in ultimo fondamentale evidenziare come i suddetti principi, coniati dagli artt. 43 e 49 del Trattato C.E., hanno trovato specifica attuazione anche in ambito di stabilimento di scuole ed istituti universitari. Infatti già con la sentenza 15 marzo 1988, C14 7/86, la Corte di Giustizia ebbe occasione di affermare che "la repubblica Ellenica, vietando ai cittadini degli altri Stati membri di istituire scuole private è venuta meno agli obblighi impostile dagli art. 52 (ora 43, ndr) e 59 (ora 49, ndr) del Trattato" (grassetto aggiunto, ndr).

Si aggiunga che anche la menzionata sentenza 13 novembre 2003, n. 153/02, E.S.E. cl Neri, oltre a sancire l’illegittimità della prassi posta in essere dall’ Amministrazione statale italiana nei confronti della ricorrente, ha avuto modo di affermare che l’organizzazione dei corsi di formazione superiore e universitaria "è un "attività economica che rientra nel capitolo del Trattato relativo al diritto di stabilimento quando è svolta da un cittadino di uno Stato membro in un altro Stato membro. in maniera stabile e continuativa. a partire da un centro di attività principale o secondario in quest "ultimo Stato membro (v. in tal senso, sentenza 15 gennaio 2002, causa C439/99, Commissione/Italia, Racc. pag. 1305, punto 21)" (sottolineatura aggiunta, ndr).

Da quest’ultima pronuncia si evince, inoltre, che ad essere direttamente attributive di posizioni giuridiche qualificabili di diritto soggettivo sono anche le previsioni contenute nelle Direttive del Consiglio 21 dicembre1988 n. 89/48/CEE e del 18 giugno 1992 n. 92/51/CEE.

2 violazione del diritto comunitario: violazione sufficientemente qualificata del diritto comunitario.

Al fine di comprendere la nozione di violazione sufficientemente qualificata, si ritiene opportuno evidenziare come ai sensi della giurisprudenza comunitaria, "per quanto riguarda la condizione secondo cui la violazione dev’essere sufficientemente qualificata, il criterio decisivo per considerare tale condizione soddisfatta è quello della violazione manifesta e grave, commessa dall "istituzione in questione, dei limiti posti al suo potere discrezionale" (cfr., ex multis, Tribunale di Primo Grado, Sez. V, 27 novembre 2007, n. 3; nello stesso senso anche Corte di Giustizia, 17 aprile 2007, C470/03, punto n. 80 della motivazione).

Rapportando questi principi al caso che ci occupa è di tutta evidenza che gli obblighi che derivano agli Stati membri dagli articoli 43 e 49, nonché dalle Direttive 89/48/CEE e 92/51/CEE, anche alla luce della consolidata interpretazione data dalla giurisprudenza comunitaria in precedenza riportata, non conferiscono agli Stati membri alcun margine di discrezionalità poiché tali norme, soprattutto qualora si verta in materia di violazione delle libertà fondamentali basate su una discriminazione relativa al luogo di prestazione del servizio, sono chiare e precise nel vietare ogni ostacolo.

In altre parole, lo Stato italiano, emanando e mantenendo in vigore una prassi amministrativa, quale quella qui ampiamente denunciata e documentata, ha palesemente violato obblighi chiari e precisi che gli derivavano sia dalle menzionate norme del diritto comunitario, sia dalla giurisprudenza del giudice comunitario.

In particolare, la prassi che non ammetteva i titoli di studi de quibus alle procedure di riconoscimento era ed è palesemente contraria alla libertà di stabilimento e alla libertà di prestazione dei servizi garantite dagli articoli 43 e 49 del Trattato CE, sia sotto il profilo dell’ostacolo allo svolgimento dell’attività di impresa della E.S.E. in Italia, sia sotto il profilo dell’acquisto di servizi transfrontalieri forniti alla E.S.E. dall’Università N.T.U.

3 violazione del diritto comunitario: sussistenza di un nesso causale diretto tra la violazione degli obblighi incombenti allo Stato ed il danno subito dai soggetti lesi

I fatti che costituiscono il fondamento della domanda di riconoscimento del danno risultano documentalmente provati.

Invero, tutti gli studenti che hanno ritirato la loro iscrizione dai corsi ai quali si erano iscritti alla E.S.E. hanno motivato il loro intendimento per avere appreso dalla trasmissione "Mi Manda Rai Tre" che il diploma di laurea non avrebbe potuto ottenere il riconoscimento nell’ambito dell’ ordinamento italiano e/o, per le stesse ragioni, per il fatto di aver ottenuto dalle Autorità militari il diniego al rinvio del servizio di leva per ragioni di studio.

Ciò risulta documentato dagli atti relativi ai contenziosi instaurati nei confronti delle E.S.E. prodotti in atti (vds all.ti da DD. 62 a 69) e dalle lettere degli studenti che, senza avere instaurato contenzioso, ma con pari motivazione hanno ritirato la loro iscrizione (vds all. ti da DD. 52 a 61).

Il ritiro dell’iscrizione ha comportato come diretta conseguenza economica una diminuzione del fatturato della E.S.E. e quindi una riduzione del margine di utile, oltre alle ingenti spese che la stessa ricorrente ha dovuto sostenere per resistere in sede giurisdizionale ai giudizi contro la stessa promossi.

Si aggiunga poi, sotto il profilo del lucro cessante, il pregiudizio sull’attività economica dovuto al fatto che tale prassi amministrativa ha senza dubbio dissuaso all’iscrizione eventuali altri soggetti interessati.

In sostanza il Ministero dell’Università e della Ricerca, con le proprie circolari, ha indirizzato l’azione amministrativa di tutte le Autorità dello Stato (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Ministero della Difesa, etc.), non solo ignorando la normativa comunitaria e la menzionata giurisprudenza della Corte di Giustizia in ambito di libertà di stabilimento, ma mantenendo altresì la propria prassi amministrativa anche successivamente alla sentenza della Corte pronunziata il 13 novembre 2003.

La prassi amministrativa nazionale è venuta meno, nel 2004, solo quando la Commissione Europea, dopo una lettera di messa in mora, è stata in procinto di deferire la Repubblica Italiana alla Corte di Giustizia per far dichiarare che lo Stato era venuto meno agli obblighi che ad esso incombono in forza del diritto comunitario.

A Danni e criteri della quantificazione.

Per quanto concerne l’individuazione del danno risarcibile, occorre inquadrare i criteri di diritto utili a determinare la misura del danno patito sia a titolo di danno emergente, sia a titolo di lucro cessante.

La conseguenza dell’illecita condotta dello Stato italiano e delle sue amministrazioni è stato il ritiro dell’iscrizione da parte della quasi totalità degli iscritti, un irreparabile danno all’immagine ed alla reputazione della ricorrente nonché la chiusura degli stabilimenti italiani della E.S.E. con il conseguente azzeramento del valore aziendale.

Invero, lo Stato italiano, non solo si è limitato ad adottare prassi illecite, ma ha anche propalato, tramite una trasmissione televisiva diffusa in tutto il mondo, informazioni non veritiere relative alla ricorrente ed alla validità e riconoscibilità dei titoli conseguibili al termine dei corsi da essa organizzati.

I danni provocati dalla condotta illecita dello Stato italiano possono essere così classificati:

la perdita del fatturato;

la perdita del valore che la E.S.E. avrebbe gradualmente sviluppato nel tempo come risultato del proprio progetto;

la perdita di "chance";

la perdita del valore che la E.S.E. aveva raggiunto all’epoca;

i c.d. "costi sprecati" che furono sopportati dalla E.S.E., nel periodo di riferimento, a fronte di ricavi che furono invece cancellati;

i costi e spese legali a diverso titolo sostenuti dalla E.S.E.

il gravissimo pregiudizio all’immagine e alla reputazione commerciale subito dalla E.S.E.

È altresì opportuno osservare che secondo costante giurisprudenza della Cassazione "la perdita di chance, consistente nella privazione della possibilità di sviluppi o progressioni nell’attività lavorativa, costituisce un danno patrimoniale risarcibile, qualora sussista un pregiudizio certo (anche se non nel suo ammontare) consistente non in un lucro cessante, bensì nel danno emergente da perdita di una possibilità attuale; ne consegue che la chance è anch’essa una entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente valutabile, la cui perdita produce un danno attuale e risarcibile, qualora si accerti, anche utilizzando elementi presuntivi, la ragionevole probabilità dell’esistenza di chance intesa come abitudine attuale" (cfr., ex multis, Corte di Cass., Sez. lI!, 25 maggio 2007, n.12243).

La E.S.E. ha conferito incarico al Prof. L.G. (Ordinario di economia e gestione delle imprese presso l’università "Bocconi" di Milano), al fine di ottenere una stima dei danni subiti.

Il Prof. G. ha calcolato il danno subito dalla E.S.E. utilizzando tre diverse "misure di danno".

Le prime due "misure di danno" sono sussumibili nella categoria giuridica del danno emergente e sono:

i c.d. "costi sprecati";

il "valore di capitale economico" della azienda E.S.E.

La terza "misura di danno" che comprende in sé anche i precedenti, è definita "valore potenziale controllabile" dell’azienda E.S.E. e costituisce una misura di lucro cessante.

A queste due misure di danno emergente debbono, in oni caso, aggiungersi i costi legali affrontati dalla E.S.E. per difendersi nelle sedi più disparate nei confronti della P.A..

Tali ultimi costi, documentati dalle fatture emesse dai legali di E.S.E., ammontano a complessivi Euro 988.547,61.

B Il danno emergente: i c.d. "costi sprecati".

Una prima misura di danno emergente è rappresentata dai soli c.d. "costi sprecati" (così come definiti nella perizia del prof. G., pag. 4, punto C) che la E.S.E. ha sopportato, nel corso degli anni 2000 e 2001, a fronte di ricavi che furono invece cancellati a seguito della chiusura degli stabilimenti italiani della società.

Tali "costi sprecati" sono riportati nell’allegato n. 6 alla perizia del Prof. G., redatto dal Rag. Roberto Lucchesini, iscritto all’ Albo dei Ragionieri e dei Periti contabili della provincia di Massa Carrara.

Ad ulteriore supporto documentale di quanto qui indicato si depositano in atti n. 4 faldoni contenenti i documenti contabili relativi ai suddetti "costi sprecati" (all.ti nn. 80, 81, 82, 83 e 84), corrispondenti alle seguenti quattro macrovoci riepilogative:

1) Acquisto e/o utilizzo di beni ammortizzabili;

2) Spese di pubblicità e costi promozionali;

3) Leasing e altri noleggi;

4) Costi di ricerca, provvigioni efees.

Allo stesso modo gli investimenti effettuati in relazione a beni strumentali all’esercizio dell’attività aziendale come scrivanie o personal computer sono, sempre per loro specifica natura, predestinati all’utilizzo in un periodo di tempo prolungato.

Per quanto concerne le locazioni finanziarie di beni mobili, di cui si trova parimenti traccia nella perizia redatta dal Dott. Lucchesini (allegato 6 alla perizia del Prof. G.) non può che svolgersi analogo discorso al precedente. Detti leasing, infatti, si riferiscono tutti all’utilizzo di beni necessari all’espletamento dell’attività di impresa della E.S.E. e sono destinati ad essere utilizzati per lungo tempo dopo la loro iniziale acquisizione.

Da ultimo non possono dimenticarsi gli importi che la E.S.E. ha dovuto corrispondere alla N.T.U. in relazione ad ogni studente iscritto ad un corso di studi. Infatti, al contrario del corrispettivo del servizio prestato dalla E.S.E. che veniva pagato annualmente dagli studenti, il prezzo di iscrizione alla N.T.D. doveva essere obbligatoriamente versato in un’unica soluzione all’atto dell’iscrizione alla Università.

L’ammontare complessivo di tutti i sopraddetti "costi sprecati", così come calcolati dal Dott. Lucchesini, risulta quindi pari ad Euro 3.447.876,16 (vds. pago 7 dell’allegato 6 alla perizia del Prof. G.).

C Il danno emergente: il "valore di capitale economico ".

Secondo il Prof. G. una misura "piena" del danno emergente deve anche contemplare la perdita di valore aziendale che la società vantava alla data dei fatti per cui è causa, calcolato sulla base delle dimensioni e delle caratteristiche economicopatrimoniali della società.

Ed invero, calcolati i flussi reddituali attesi per gli anni 2002 e 2003, applicato a questi ultimi il relativo tasso di attualizzazione e detratte le variazioni di capitale, il valore dell’azienda, al momento della cessazione delle attività sociali, deve ritenersi compreso tra un minimo di Euro 39.090.000,00 ed un massimo pari ad Euro 42.508.000,00.

Per comprendere le modalità di calcolo di tale valore, si rimanda all’esame svolto alle pagg. 29 – 32 e 39 – 78 dell’elaborato peritale.

Come detto, a tali misure di danno emergente, debbono necessariamente aggiungersi anche gli ingenti costi che la ricorrente ha sopportato per difendersi in sede giudiziaria dalle domande di risoluzione del contratto e/o annullamento del contratto proposte dagli studenti che hanno ritirato l’iscrizione.

A prova di tale ultima posta di danno si sono versate in atti le fatture e le note provvisorie dei legali della E.S.E. da cui emerge un danno pari ad Euro 988.547,61 (alI.ti nn.85 e 86).

D Il lucro cessante.

Alla riduzione patrimoniale diretta subita dalla E.S.E., dovranno quindi aggiungersi tutti i mancati guadagni conseguenti all’illegittima condotta dello Stato Italiano, illustrati e quantificati nella relazione peritale di parte, e sostanzialmente consistenti nel valore che la E.S.E. avrebbe gradualmente sviluppato nel tempo come risultato del progetto aziendale che aveva ideato, definito e avviato nelle proprie dodici sedi locali, sparse lungo tutto il territorio nazionale.

Il danno subito dalla E.S.E. di cui si chiede il risarcimento è stato identificato dal Prof. G. come un valore potenziale dell’azienda E.S.E.

Tale valore esprime la misura attualizzata dei redditi che la E.S.E. avrebbe ragionevolmente prodotto dalla data convenzionale di riferimento (il 30 giugno 2001) per alcuni anni a venire, attualizzati in base ad un tasso in grado di esprimere i rischi dell’iniziativa e di misurarli equamente.

La misura di "valore potenziale controllabile" è stato ricavato dal Prof. G. attraverso l’effettuazione di una serie di calcoli, basati su complesse formule finanziare/matematiche per la cui analisi si rinvia alle pago 25 – 29 e 39 -78 della perizia di parte.

In tale contesto non assumono rilevanza, dunque, solamente i danni subiti da parte attrice in conseguenza della immediata "fuga" degli studenti che erano già iscritti alla E.S.E. nel periodo in cui i fatti di causa sono occorsi. Debbono invero aggiungersi anche tutti i mancati introiti derivanti dal fortissimo decremento di iscrizioni direttamente conseguente alla illegittima prassi nonché alla illegittima campagna disinformativa messa in essere dalla Stato Italiano con le modalità illustrate nelle precedenti parti del presente atto che, come si è visto, hanno integrato comportamenti contrari a fondamentali principi del diritto comunitario immediatamente operanti nel nostro sistema normativo.

Tale danno è stato complessivamente qualificato In una somma compresa tra Euro 57.200.000,00 ed Euro 63.400.000,00.

Da ultimo sono destinati a rientrare nell’alveo dei danni risarcibili a titolo di danno emergente tutte le somme di denaro, corrispondenti alle rette di iscrizione degli anni accademici, che gli studenti frequentanti i primi anni anno di corso, ritiratisi prematuramente in ragione delle informazioni divulgate dal M.LU.R., non hanno mai versato. Tale circostanza riveste invero importanza non trascurabile sol considerando che il numero degli studenti coinvolti è nell’ ordine del migliaio.

Solo per questa causale un’altra voce di danno emergente è di semplicissima quantificazione.

Infatti, come documentato dal prodotto contratto "tipo" di iscrizione ai corsi della E.S.E. (vds. l’allegato 4 alla perizia del Prof. G., in cui sono prodotti due contratti, relativi alle sedi E.S.E. di Vicenza e di Bologna), la retta annuale che gli studenti versavano alla ricorrente ammonta a Euro 9.812,68. Essendo il corso di studio quadriennale, ogni studente iscritto ai corsi apporta quindi alla ESE un introito complessivo di Euro 39.250,72.

Conseguentemente, inalterati i costi fissi necessari al mantenimento della struttura, ad ogni studente che ritira la propria iscrizione al corso di studio corrisponde un danno diretto pari al mancato incasso delle rette relative agli ulteriori anni di corso di studio non frequentati fino al quarto.

Quindi, avuto riguardo solamente agli studenti che hanno ritirato l’iscrizione a causa dell’illecito comportamento della Pubblica Amministrazione italiana, il danno già in concreto maturato per la società concludente è di agevole calcolo bastando a tal fine considerare il numero di studenti ritirati e l’importo delle rette annuali mai corrisposte.

Ad esempio, il numero degli studenti ritiratisi immediatamente dopo la trasmissione è pari a 884, sicché il danno così calcolabile sarebbe pari a Euro 34.697.630 circa.

E Il danno all’immagine.

Si tenga conto, inoltre, che a cagione dell’illegittima condotta dello Stato Italiano, sicuramente la E.S.E. non avrà più la possibilità di entrare nello specifico mercato di riferimento se non pagando costi elevatissimi per il ripristino della propria immagine e reputazione commerciale.

Ed invero, da tutto quanto sopra esposto appare del tutto evidente come lo Stato Italiano negando la riconoscibilità e, in sostanza, lo stesso valore dei titoli di studio rilasciati a seguito della frequentazione dei corsi organizzati dalla E.S.E., abbia provocato in capo a quest’ultima un gravissimo danno alla propria immagine e reputazione commerciale.

Ed invero, non può dimenticarsi che lo Stato Italiano non si è limitato ad attuare una prassi amministrativa illegittima in quanto contraria al diritto comunitario e nazionale, ma ha contribuito in maniera decisiva alla capillare diffusione a livello nazionale di tale illegittima prassi. La diffusione di dati e notizie – quanto meno colposamente erronee – da parte dello Stato Italiano è stata attuata anche attraverso il coinvolgimento dei principali organi di informazione come, ad esempio, attraverso la partecipazione, come detto, di alti funzionari a trasmissioni televisive a diffusione nazionale.

La stessa giurisprudenza amministrativa, condividendo l’orientamento sul punto espresso dalla Corte di Cassazione, ha più volte avuto modo di sancire la piena risarcibilità del pregiudizio arrecato alla reputazione e all’immagine delle società commerciali (in tal senso, tra molte, Cons. di Stato, Sez. V, 12 febbraio 2008, n. 491, cit.; nello stesso senso da ultimo anche T.A.R. Sardegna, Sez. I, 17 dicembre 2009, n. 2223).

Alla luce dell’univoco orientamento presente sia nella giurisprudenza della Cassazione, sia in quella del Giudice amministrativo, non può residuare dubbio alcuno che la violazione del diritto all’immagine, inteso in questo senso come diritto al conseguimento, al mantenimento e al riconoscimento della propria identità come persona giuridica, sia economicamente valutabile e risarcibile anche nei confronti delle persone giuridiche.

La grave perdita di prestigio e il grave detrimento all’immagine so stanziano un danno che reca sempre con sé, oltre ad una diminuzione patrimoniale diretta (particolarmente avvertita per le persone giuridiche quali la E.S.E. che, operando in regime di mercato, possono subire una contrazione della loro attività), sicuramente una spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso.

Dalla documentazione versata In atti risulta che ricorrente abbia sostenuto costi per marketing e pubblicità pari ad Euro 1.443.784,74. Tale somma potrà essere ritenuta come un parametro per la liquidazione equitativa del danno subito dalla E.S.E., rappresentando la somma che quest’ultima sarà obbligata a sostenere per ripristinare l’immagine lesa.

II Richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, ove sorga controversia sulla interpretazione delle norme, dei principi dell’ordinamento comunitario e della giurisprudenza della Corte sopra richiamati, al fine di acclarare se in una situazione di fatto quale quella descritta e documentata nel presente atto possano essere individuate fattispecie di violazione dell’ ordinamento comunitario comportanti la responsabilità dello Stato Italiano ed il diritto della E.S.E. I.W.E.S. Ltd. (E.S.O.E.) ad ottenere il risarcimento di tutti i danni subiti.

Quesiti proposti.

l) Dica la Corte di Giustizia, se, in primo luogo, date le circostanze della causa principale e la giurisprudenza della Corte in argomento, la prassi amministrativa instaurata dal Ministero dell’Università e della Ricerca e dalle altre amministrazioni odierne resistenti, contrassegnata da circolari e da dichiarazioni anche pubbliche di propri funzionari dirigenti debba essere considerato imputabile alla Repubblica Italiana; ed in secondo luogo se tali comportamenti risultino costituire ostacoli alla libertà di stabilimento, alla libera prestazione dei servizi, alla libertà di circolazione delle persone (art. 39,43, 49) ed alla Direttiva del Consiglio 89/48 CEE.

2) Se in circostanze quali quelle del presente giudizio le violazioni del diritto comunitario siano sufficientemente gravi e manifeste perché possa essere accertata la responsabilità extracontrattuale della Repubblica Italiana e se i privati che operano sul mercato possano far valere diritti nei confronti degli Stati membri.

3) Se in circostanze quali quelle del presente giudizio, la perdita di studenti iscritti ai corsi di studio, la perdita di ricavi e la conseguente cessazione dello stabilimento operante in Italia evidenziano, o meno di un nesso causai e diretto tra la violazione degli obblighi incombenti allo Stato e il danno subito dalla parte lesa.

Si costituisce in giudizio l’Amministrazione resistente che nel contro dedurre alle censure di gravame eccepisce:

1. L’irricevibilità dell’impugnazione ex adverso proposta dato che, nel caso di specie le richiamate circolari impugnate hanno determinato effetti diretti sulla posizione giuridica soggettiva, avente consistenza di interesse pretensivo azionato, ed in quanto atti di immediata efficacia precettiva risultavano pertanto autonomamente impugnabili davanti al Giudice amministrativo (ex multis, Cons. Stato, sent. n. 6169 del 7 ottobre 2009; TAR Lazio, Sez. II, 23 marzo 2004 n. 2732). Di conseguenza la ricorrente era tenuta ad impugnare tempestivamente siffatte determinazioni amministrative avendo immediatamente percepito la valenza pregiudizievole per lo svolgimento dell’ attività economica che intendeva svolgere in Italia, di modo che la mancata loro impugnazione ha reso tali determinazioni irretrattabili a causa dell’inerzia serbata dalla società ricorrente.

2 L’inammissibilità del ricorso, stante l’intervenuta prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento del danno ex art. 2947 c.c..

Motivi della decisione

In limine litis, la difesa dell’amministrazione, ispirandosi alla c.d. pregiudiziale amministrativa, eccepisce in rito l’inammissibilità del ricorso per omessa tempestiva impugnazione dei provvedimenti del MIUR, di concerto con il Ministero degli Affari Esteri, riguardanti alcune circolari in merito alla validità dei diplomi universitari stranieri, richiamate nel ricorso introduttivo, emanate nel periodo 19972001 dal Ministero resistente (circolare prot. n. 532 del 29 marzo 1999; circolare n. 228 del 3 ottobre 2000; nota n. 3 dell’8 gennaio 2001, allegati al ricorso nn. 33, 37 e 38) e dall’ Amministrazione degli Affari Esteri (nota n. 442 del 30 aprile 1997, al. n. 34 del ricorso) e più in particolare a) della circolare n. 532/99 statuente precise indicazioni intese a vietare che i titoli conseguiti dagli studenti iscritti alla ESE in Italia potessero essere assoggettati alle procedure di riconoscimento previsti per i diplomi di laurea conseguiti all’estero; b) dellala nota n. 3 dell’ 8 gennaio 2001 del MIUR specificante che i titoli rilasciati da università riconosciute in Gran Bretagna potevano essere riconosciuti in Italia solo se conseguiti dopo regolare frequenza dell’intero corso di studi presso le stesse o altro istituto estero dello stesso livello di formazione, con conseguente esclusione dei titoli rilasciati ai cittadini italiani sulla base dei periodi di studi svolti presso filiali o istituzioni private operanti in Italia con le quali fossero state stipulate convenzioni di tipo privatistico.

Statuizioni queste che sarebbero divenute irretrattabili a causa dell’inerzia serbata da parte ricorrente..

Sotto tale profilo ad avviso del Collegio non risultano meritevoli di accoglimento le controdeduzioni sollevate al riguardo da parte ricorrente secondo le quali "…le menzionate circolari non sarebbero state mai direttamente notificate ad ESE – ed in ogni caso tali circolari sarebbero state revocate dalla stessa amministrazione dopo la sentenza della Corte di Giustizia del 13 novembre 2003".

Dagli atti di causa, infatti è incontrovertibile la conoscenza di parte ricorrente dei richiamati provvedimenti proprio sulla base della esposizione delle premesse di fatto riportate nel ricorso introduttivo nelle quali si fa espresso riferimento a contenziosi giurisdizionali nei quali l’ ESE risultava coinvolta proprio per effetto delle restrizioni ministeriali adottate in tema di validità dei diplomi universitari stranieri.

Non a caso infatti parte ricorrente fa riferimento ad:

1) un atto di citazione per risarcimento dei danni 08.07.2002;

2) un atto di rinuncia agli atti e dichiarazione di riserva di esercitare azione di risarcimento del danno datato 07.10.2004;

3) una lettera raccomandata di richiesta di risarcimento del danno ricevuta dal Ministero dell’Università e della Ricerca in data 21.06.2004;

4) una lettera raccomandata di richiesta di risarcimento del danno ricevuta dalla Repubblica italiana e dal Ministero dell’Università e della Ricerca nelle date del 28.06.2007 e 02.07.2007.

A tale riguardo parte ricorrente precisa espressamente che "Il primo dei citati documenti (alI. 96) si riferisce al giudizio (R.G. n.27536/02) promosso dinanzi al Tribunale di Roma da alcuni studenti ESE, ESE oltre a contestare l’avversa pretesa aveva chiesto ed ottenuto di chiamare in causa la Repubblica italiana ed il Ministero dell’Università e della Ricerca -gli stessi soggetti convenuti nel presente giudizio –

"Tale domanda veniva notificata alle predette amministrazioni in data 8 luglio 2002,

" ESE rinunciava successivamente agli atti del giudizio nei soli confronti degli attuali resistenti (terzi chiamati in causa), ma con esplicita riserva di riproporre azione di risarcimento del danno nei confronti della Repubblica italiana e del Ministero dell’Università (vedi doc. 97, notificato il 15.10.2004) (rinuncia all’azione, quindi, ma non al diritto).

" Ma ESE ha del pari interrotto ogni prescrizione con la lettera raccomandata di richiesta di risarcimento del danno ricevuta dal Ministero dell’Università e della Ricerca in data 21.06.2004 (

nonché con la successiva lettera raccomandata di richiesta di risarcimento del danno…".

Sí deve pertanto concludere che gli esposti fatti costituiscono elementi gravi, precisi e concordanti (sulla base della giurisprudenza basatasi su presunzioni ex art.2729 c.c. cfr. Cons. St., Sez. IV, n. 124/28.2.86 e n.129/11.4.85), per ritenere realizzata già da oltre sessanta giorni la conoscenza dei provvedimenti del MIUR, di concerto con il Ministero degli Affari Esteri, riguardanti le circolari in merito alla validità dei diplomi universitari stranieri, emanate nel periodo 19972001 dal Ministero resistente (circolare prot. n. 532 del 29 marzo 1999; circolare n. 228 del 3 ottobre 2000; nota n. 3 dell’8 gennaio 2001, allegati al ricorso nn. 33, 37 e 38) e dall’ Amministrazione degli Affari Esteri (nota n. 442 del 30 aprile 1997, al. n. 34 del ricorso)

Fatte le suesposte considerazioni, osserva il Collegio che le argomentazioni dell’Avvocatura generale dello Stato si prestano a positiva considerazione con le precisazioni che seguono.

È noto che per "pregiudiziale amministrativa" si intende la necessità di impugnare ed ottenere l’annullamento dell’atto amministrativo prima di poter conseguire il risarcimento del danno derivante da quel medesimo atto.

È evidente che il problema della pregiudiziale si pone unicamente in ipotesi di danno derivante dal provvedimento illegittimo, mentre non vi è alcuna pregiudizialità dell’azione di annullamento in fattispecie di danni derivanti da comportamento, o comunque non direttamente provocati dagli effetti del provvedimento illegittimo (è evidente che se il danno non deriva da un provvedimento amministrativo, non si pone neanche il problema di dover impugnare tale provvedimento).

Sotto tale profilo si appalesa manifestamente surrettizio il riferimento operato da parte ricorrente alla c.d. "prassi amministrativa" dell’Amministrazione quando invece nella materia che qui ci occupa erano intervenuti svariati e specifici provvedimenti ministeriali mai impugnati da parte ricorrente, di modo che il lamentato pregiudizio consegue a determinazioni specifiche dell’amministrazione e non a pretesi prassi comportamentale.

In passato la giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 26 marzo 2003 n. 4) ha affermato che necessaria condizione per l’accesso alla tutela risarcitoria è l’utile esperimento, nel termine di decadenza, della tutela demolitoria, evidenziandosi, altresì, che l’annullamento deve essere richiesto in via principale nel termine di decadenza, atteso che al giudice amministrativo non è consentita la cognizione incidentale della illegittimità dell’atto e che il medesimo organo giurisdizionale non ha il potere di disapplicazione dell’atto illegittimo.

Pur dopo il contrario orientamento espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (ordinanze 13 giugno 2006 n. 13659 e n. 13660 e del 15 giugno 2006 n. 13911), l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (22 ottobre 2007 n. 12) ha ribadito la regola della necessità, ai fini dell’accesso alla tutela risarcitoria, della previa, tempestiva ed utile proposizione della domanda di annullamento del provvedimento amministrativo pregiudizievole, supportando le conclusioni raggiunte da ulteriori argomentazioni, attinenti alla (I) struttura del processo amministrativo, nel quale viene in considerazione in via primaria la tutela demolitoria e solo in via consequenziale ed eventuale quella risarcitoria; (II) presunzione di legittimità del provvedimento amministrativo, la quale si consolida (trasformandosi da relativa in assoluta) con lo spirare del termine di decadenza per l’impugnativa dell’atto; (III) articolazione della tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo, la quale, sia in sede demolitoria che risarcitoria, ha ad oggetto sempre la legittimità del provvedimento, con la conseguenza che in sede risarcitoria il danno ingiusto, del quale è elemento fondante l’illegittimità dell’atto, non può essere accertato a seguito della inoppugnabilità del provvedimento che ha comportato la trasformazione della presunzione di legittimità da relativa in assoluta; (IV) rilevanza della decadenza (dall’impugnazione del provvedimento) nell’azione risarcitoria, atteso che, in presenza di atti inoppugnabili, non risulta configurabile un presupposto di essa e, cioè, l’ingiustizia del danno.

Il giudice amministrativo ha, in larga parte, condiviso la tesi della pregiudizialità anche successivamente all’ulteriore intervento in senso contrario delle Sezioni Unite della Cassazione (Sez. Unite, 23 dicembre 2008 n. 30254), le quali, pronunziandosi proprio sulla decisione dell’Adunanza Plenaria da ultimo richiamata, hanno affermato che "Proposta al giudice amministrativo domanda risarcitoria autonoma, intesa alla condanna al risarcimento del danno prodotto dall’illegittimo esercizio della funzione amministrativa, è viziata da violazione di norme sulla giurisdizione ed è soggetta a cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione la decisione del giudice amministrativo che nega la tutela risarcitoria degli interessi legittimi sul presupposto che l’illegittimità dell’atto debba essere stata precedentemente richiesta e dichiarata in sede di annullamento".

A sostegno della "pregiudiziale amministrativa" sono stati, tra gli altri argomenti, richiamati: il principio di certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico, a cui presidio è posto il breve termine di decadenza, il quale subirebbe un rilevante vulnus ove si ammettesse la possibilità di esperire l’azione risarcitoria anche a notevole distanza di tempo senza aver impugnato il provvedimento amministrativo; l’obbligo per l’amministrazione di conformarsi al giudicato, che comporterebbe per quest’ultima, a seguito di una sentenza di condanna al risarcimento emanata sul presupposto accertamento della illegittimità dell’atto, il dovere di annullare quest’ultimo, con evidente elusione del termine decadenziale, l’esistenza nell’ordinamento di numerose ipotesi (es. in materia di ordinanzaingiunzione) nelle quali la tutela del diritto o dell’interesse richiedono necessariamente la previa eliminazione della determinazione che ha costituito fonte del danno, risultando in tal modo espressione del principio generale secondo cui quando è stabilito un termine di decadenza per instaurare in quelle situazioni una contestazione in sede giurisdizionale, lo spirare del termine non consente di far valere né quel diritto né le conseguenze che seguirebbero se fosse fondata la pretesa (Consiglio di Stato, Sez. VI, 19 giugno 2008 n. 3059).

Il giudice amministrativo ritiene, dunque, che tali dati esegetici confermano che un sistema processuale ancorato alla previa impugnazione del provvedimento amministrativo, al fine di conseguire il risarcimento del danno, risponde al principio di effettività della tutela giurisdizionale e rientra nella scelta discrezionale del legislatore: in conclusione, il principio di pregiudizialità ben si coordina con i principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e del correlato dovere di "responsabile collaborazione" delle parti.

Nella recente giurisprudenza amministrativa si è inoltre registrata una ulteriore evoluzione relativa alla questione della pregiudiziale amministrativa.

In particolare, si è ritenuto che dalla mancata impugnazione dell’atto amministrativo pregiudizievole discende la inaccoglibilità della domanda di risarcimento danni, considerato che l’illegittimità del provvedimento impugnato è condizione necessaria, ancorché non sufficiente, per accordare il risarcimento del danno, sicché l’infondatezza della domanda di annullamento comporta inevitabilmente il rigetto di quella risarcitoria.

In applicazione del principio della pregiudiziale amministrativa è infatti ammissibile, ma infondata nel merito, la domanda di risarcimento danni che non sia stata preceduta dall’annullamento dell’atto asseritamente illegittimo, che tale danno avrebbe provocato, atteso che la sua mancata impugnazione gli consente di operare in modo precettivo dettando la regola del caso concreto, autorizzando la produzione dei relativi effetti ed imponendone l’osservanza ai consociati ed impedisce così che il danno possa essere considerato ingiusto o illecita la condotta tenuta dall’amministrazione in esecuzione dell’atto inoppugnato (Consiglio di Stato, Sez. V, 3 novembre 2010, n. 7766; Sez. IV, 31 marzo 2009, n. 1917).

Da ultimo, la questione relativa alla "pregiudiziale amministrativa" è stata infine risolta con il codice del processo amministrativo che all’art. 30 (rubricato "azioni di condanna") rappresenta un momento di composizione e compromesso fra le divergenti posizioni sopra ricordate.

L’articolato, infatti, prevede, da un lato, l’abbandono del modello rigido di relazione fra l’azione risarcitoria e quella di annullamento basato sulla pregiudiziale amministrativa, ma, dall’altro, controbilancia l’autonomia dell’azione risarcitoria assoggettandola ad un termine decadenziale breve, benché più lungo di quello per l’impugnazione dell’atto lesivo, e, soprattutto, escludendo la risarcibilità delle conseguenze dannose che avrebbero potuto essere evitate ricorrendo ad altri strumenti di tutela ("La domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi è proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo. Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti").

Tanto premesso, considerato che la controversia in esame deve essere risolta alla stregua del quadro normativo previgente all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo (trattandosi di ricorso proposto nel 2010), ritiene il Tribunale che la decisione debba essere di infondatezza nel merito e, quindi, di rigetto.

Ciò in quanto, alla stregua del summenzionato indirizzo espresso recentemente dal Consiglio di Stato (Consiglio Stato, Sez. V, 3 novembre 2010, n. 7766 e 13 luglio 2010 n. 4522; Sez. IV, 31 marzo 2009, n. 1917), l’irricevibilità dell’azione di annullamento conduce alla reiezione della domanda di risarcimento del danno, atteso che l’applicazione del principio della pregiudiziale non comporta una preclusione di ordine processuale all’esame del merito della domanda risarcitoria, ma determina un esito negativo nel merito di essa.

La domanda risarcitoria è ammissibile, ma è infondata nel merito in quanto la mancata tempestiva impugnazione dell’atto impedisce che il danno stesso possa essere considerato ingiusto o illecita la condotta tenuta dall’amministrazione in esecuzione dell’atto inoppugnato.

Invero, ove l’accertamento in via principale sia precluso nel giudizio risarcitorio in quanto l’interessato non sperimenta o non può sperimentare (a seguito di giudicato, decadenza o altro) i rimedi specifici previsti dall’ordinamento per contestare la conformità a legge della situazione medesima, la domanda risarcitoria deve essere respinta nel merito perché il fatto produttivo di danno non è suscettibile di essere qualificato illecito.

In conclusione, ribadite le svolte considerazioni, il ricorso deve essere respinto.

Le spese del presente giudizio, in considerazione della peculiarità della controversia e delle questioni giuridiche trattate, possono essere integralmente compensate tra le parti costituite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Bis) definitivamente pronunciandosi sul ricorso indicato in epigrafe, lo respinge

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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