Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 04-07-2011) 05-08-2011, n. 31361

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – Con la decisione in epigrafe la Corte d’appello di Lecce, in parziale riforma della sentenza del 12 marzo 2009 emessa dalla Sezione distaccata di Casarano, ha confermato la responsabilità di M.L. per i reati di cui agli artt. 393 e 56, 610 c.p. e, ritenuti i reati uniti per continuazione con quelli oggetto della sentenza irrevocabile emessa dalla stessa Corte d’appello in data 11 luglio 2005 a carico dello stesso imputato, ha rideterminato la pena complessiva in un anno e due mesi di reclusioni, confermando altresì la condanna al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.

2. – Nell’interesse dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia.

Con il primo motivo ha dedotto il vizio di motivazione della sentenza, sotto distinti profili riguardanti: a) la mancanza di una lettura critica delle conclusioni della sentenza di primo grado; b) la mancanza di una corretta indagine sulla credibilità della persona offesa su cui si basa il giudizio di colpevolezza dei giudici nei confronti dell’imputato; c) l’inosservanza del principio dell’oltre il ragionevole dubbio da parte della sentenza di condanna.

Con il secondo motivo il ricorrente ha censurato la sentenza per avere erroneamente ritenuto il concorso dei reati di cui agli artt. 393 e 610 c.p., sostenendo, in base da una motivazione viziata, che la violenza privata fosse diretta unicamente a ottenere il "ritiro della denuncia" da parte di S.L..

3. – Il motivo con cui il ricorrente deduce il vizio di motivazione oltre ad essere manifestamente infondato, attiene a valutazioni di merito che non possono essere oggetto di sindacato in sede di legittimità.

La sentenza ha motivato in maniera coerente e logica le ragioni per cui ha ritenuto credibili le dichiarazioni accusatorie della persona offesa, rilevando l’assenza di intenti ritorsivi o calunniatori nei confronti del M. e precisando come le stesse dichiarazioni risultino prive di contraddizioni e confermate dalla documentazione proveniente dallo stesso imputato.

Del tutto generiche e aspecifiche sono le critiche contenute nel ricorso e relative ad una pretesa mancanza di criticità nella lettura della sentenza di primo grado da parte dei giudici d’appello e nell’inosservanza del principio di cui all’art. 533 c.p.p., comma 1. 4. – Manifestamente infondato è anche il secondo motivo. Deve rilevarsi che correttamente la Corte d’appello ha ritenuto il concorso tra i due reati, in quanto le minacce poste in essere dal M. erano dirette, da un lato, a costringere il S. ad estinguere il debito; dall’altro, a indurlo a ritirare la denuncia.

Si tratta di condotte distinte e dirette ad ottenere differenti utilità, che ben possono integrare i due reati di ragion fattasi e di violenza privata. La minaccia volta a costringere la persona offesa a ritirare la denuncia non costituisce una pretesa tutelabile in sede giurisdizionale, sicchè configura un’ipotesi di violenza privata, che concorre con il reato di cui all’art. 393 c.p. 5. – La manifesta infondatezza dei motivi proposti determina l’inammissibilità del ricorso, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, che si ritiene equo determinare in Euro 1.000,00. 6. – L’inammissibilità del ricorso non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare la prescrizione del reato maturatasi il 5.10.2010, successivamente alla sentenza impugnata (Sez. un., 22 novembre 2010, n. 32, De Luca).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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