Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 01-07-2011) 05-08-2011, n. 31163 Bancarotta fraudolenta

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il 12.3.2003 il Tribunale di Firenze dichiarò il fallimento della Banca Romanelli; il 29.9.2003 il medesimo Tribunale dichiarò il fallimento della soc. Romanelli Finanziaria, controllante la predetta banca.

Per fatti di bancarotta inerenti i due predetti fallimenti si è proceduto a carico degli amministratori delle due predette società.

Il presente procedimento è a carico di C.C., membro supplente del collegio sindacale della Romanelli Finanziaria dal 31.10.1998 al 5.7.2001 e quindi membro effettivo e presidente del collegio sindacale dal giorno (OMISSIS) alla data del fallimento, presidente anche del collegio sindacale della Banca Romanelli dal 5.7.2001 alla data del fallimento.

Il C. è imputato, con riferimento a entrambi i fallimenti, del reato ex artt. 110-81 cpv c.p., L. Fall., art. 216, comma 1, art. 217, comma 1, nn. 3 e 4, art. 223, comma 2, n. 1, con riferimento all’art. 2622 c.c. e art. 223 commi 1 e 2, L. Fall., art. 224 per avere, nelle qualità sopra indicata e in concorso con altri, e quindi anche come correlatore delle relazioni depositate e allegate ai bilanci dal 1998 al 2000, avallato l’operato degli amministratori delle predette società, omettendo di vigilare e controllarne l’operato, violando gli specifici doveri di cui all’art. 2403 c.c..

In particolare, al C. è addebitato di avere, con la sua condotta omissiva, permesso che la Romanelli Finanziaria emettesse warrant (dal 1998 al 2001 ne furono emessi per un controvalore di oltre L. 50 mld), raccogliendo così, abusivamente, il risparmio in violazione del dettato dell’art. 2410 c.c., di aver concorso nella cd. operazione Mediatarget (o comunque di averla avallata ex post), consistente nella cessione simulata alla predetta società (partecipata al 40% dalla stessa Romanelli Finanziaria) del marchio della Romanelli per un controvalore apparente di oltre L. 8 mld, in realtà mai versati. Più in generale al C. è addebitato il mancato controllo e l’omesso intervento correttivo sulla gestione delle predette società e dunque anche la mancata convocazione di assemblea per la ricostituzione del capitale ai sensi degli artt. 2446, 2447 c.c. o per lo scioglimento delle strutture societarie.

Giudicato con rito abbreviato, lo stesso è stato condannato, con attenuanti generiche ritenute equivalenti, alla pena di giustizia, oltre risarcimento danno.

La CdA di Firenze, con la sentenza di cui in epigrafe, ha confermato, per il C., la pronunzia di primo grado.

Ricorre per cassazione il difensore e deduce violazione dell’art. 40 c.p., comma 2, nonchè mancanza, contraddittorietà della motivazione in riferimento all’elemento soggettivo e al nesso eziologico tra le omissioni ritenute e i reati di cui in sentenza.

Argomenta come segue.

L’operato del collegio sindacale si articola in tre momenti: uno cognitivo, uno valutativo, uno dinamico-comminatorio. Ebbene, il momento valutativo consiste nel controllo contabile e di legalità dell’operato degli amministratori. E’ certo che la condotta omissiva dei sindaci può giungere a integrare vere e proprie ipotesi di concorso, ma del concorso deve presentare tutti gli elementi, nel caso in esame, i giudici del merito sono partiti da una ricostruzione aprioristica giungendo a conclusioni arbitrariamente in malam partem nei confronti del ricorrente.

Nel verbale del 14.3.2002 si legge semplicemente una vantazione di carattere professionale e tecnico, confortata per altro da autorevoli pareri prò ventate e dalla pronunzia della Corte europea che aveva attestato la regolarità della emissione di warrant.

Per quel che riguarda l’operazione Mediatarget, fu proprio il collegio sindacale che, in sede di revisione del contratto, fece inserire la clausola di riserva di proprietà.

Erra poi la CdA nel ritenere il C. responsabile dell’approvazione del bilancio del 2000. Egli assunse la carica di presidente del collegio sindacale solo nel 2001 e approvò con riserva i bilanci antecedenti.

La CdA poi, in considerazione delle obiettive difficoltà interpretative e delle gravi questioni giuridiche conseguenti, avrebbe dovuto produrre un più intenso sforzo motivazionale per giungere alla affermazione di responsabilità del ricorrente, anche tenendo conto dei limiti del controllo sindacale, come emergenti appunto dall’art. 2407 c.c.. Invero, la vantazione del sindaco è estrinseca e formale e non può estendersi a valutare la opportunità delle operazioni poste in esser dagli amministratori, ma solo la legalità delle stesse. Nè il giudice di appello ha chiarito per qual motivo detto controllo di legalità fu giudicato insoddisfacente. Nessun passo della motivazione illustra e prova la natura volontaria della inefficacia del controllo sindacale; invero la Corte territoriale presuppone il dolo, ma non lo prova; meno che mai essa motiva sul concorso omissivo e in particolare sulla sussistenza del nesso causale tra l’omissione e il reato, giungendo erroneamente ad affermare che il legame tra i due elementi deve essere concepito in re ipsa.

Motivi della decisione

Il ricorso è generico in quanto, da un lato, è articolato non tenendo conto di specifici passaggi della sentenza impugnata, dall’altro, si limita ad enunziare astrattamente principi di diritto, senza calarli nella vicenda che occupa.

Come tale, esso è inammissibile.

La CdA, innanzitutto, ricorda come il C., pur essendo divenuto solo nel 2001 (ufficialmente in data 11 gennaio) presidente dei collegi sindacali, avesse comunque, anche in precedenza, preso parte attivamente alla vita delle due società, tanto da aver sottoscritto alcune relazioni al bilancio e da aver addirittura concorso alla fondazione della Banca Romanelli.

L’emissione di warrant protrasse, d’altra parte, sino alla data dell’8.6.2001.

Si legge in sentenza che il 26.2.2001 l’UIC contestò la violazione del R.D.L. 12 marzo 1936, n. 375, artt. 10 e 11, che il medesimo Ufficio esperì accertamenti nel novembre e nel dicembre di quello stesso anno, che il 4.2.2002 il Ministero dell’Economia e delle Finanze vietò alla Finanziaria la raccolta di fondi tra i risparmiatori tramite emissione di warrant.

Il 30.8.2002, poi, fu emesso, da parte del suddetto Ministero, il decreto di cancellazione della Finanziaria.

In realtà, la emissione di warrant fu considerata dalle competenti autorità, come appena detto, niente altro che un escamotage per raccogliere fondi, atteso che il premio era fissato in un valore equivalente a quello della obbligazione "sottostante" e l’opzione per l’acquirente di warrant era praticamente inesistente, in quanto lo stesso poi era vincolato all’acquisto.

Come se ciò non bastasse, la sentenza ricorsa pone in evidenza la enorme sproporzione tra l’entità dei fondi raccolti con tale metodica e il capitale sociale della Finanziaria. Da ciò deduce che proprio un controllo formale, estrinseco e "legale" (esattamente quello invocato dal C.) avrebbe dovuto far emergere l’enormità dello sbilancio, oltre alla procedura cantra legetn per la emissione di quelle che, a tutti gli effetti, dovevano considerarsi obbligazioni, e -dunque- la violazione del dettato dell’art. 2410 c.c..

I poteri conferiti dalla legge al collegio sindacale per far fronte ai suoi doveri (artt. 2403 bis e 2403 c.c.) consentivano ampiamente all’imputato interventi di tipo cognitivo, valutativo e comminatorio (tanto per usare il lessico del ricorso). Quanto alla operazione Mediatarget, è pur vero che la vendita simulata fu effettuata prima che il C. assumesse la carica presidenziale, come è pur vero che, su suo suggerimento, in sede di "rinegoziazione" dell’accordo (simulata anche essa, evidentemente), fu inserita la clausola di riserva di proprietà, ma la sentenza di appello pone in evidenza che è altrettanto vero che nessun movimento di denaro vi fu: nè da Medidiatarget verso le casse della venditrice (che in tal maniera acquisì, ma solo apparentemente, liquidità), nè poi, in senso inverso, atteso che Mediatarget "concesse in uso" il marchio alla Banca Romanelli e alla Romanelli Finanziaria, vale a dire a chi glielo aveva (apparentemente) venduto. E ciò avvenne nel 2002, vale dire nel periodo di piena cognitio del C..

Sulla base di tali incontroversi dati di fatto, il giudice di appello ha ritenuto che la obiettiva inerzia del collegio sindacale (e dunque, in primis, dell’imputato), non solo contribuì a determinare la falsificazione dei bilanci, il compimento di operazioni dolose e l’aggravamento del dissesto delle società, il cui passivo si decuplicò, ma che tale inerzia non fu attribuibile a negligenza, imperizia, imprudenza del presidente del predetto organo.

La Corte toscana ha ritenuto, certo non illogicamente, che C. si comportò in tal modo consapevolmente e volontariamente, atteso che, da un lato, la macroscopicità degli eventi, dall’altro, le specifiche e puntuali contestazioni degli organi pubblici di controllo, non potevano non mettere sull’avviso una persona che, per la sua preparazione professionale (è un commercialista), per la continuità del suo rapporto con le società fallite e per gli ampi poteri/doveri che il suo ruolo gli consentiva/imponeva, ben comprese quel che stava accadendo e ben sapeva quello che egli avrebbe dovuto fare per impedire tali accadimenti (artt. 2446, 2484, 2447, 2482 ter c.c.).

Correttamente, insomma, il giudice del merito ha dedotto la natura dell’elemento psicologico dalle modalità della condotta.

C.C., in quanto presidente del collegio sindacale, in presenza della situazione sopra descritta, situazione che, per quanto dimostrato dalla sentenza di secondo grado, non poteva essergli ignota, aveva, per legge, il dovere di attivarsi. Non è indispensabile (nè possibile) conoscere con certezza "scientifica" (non trattandosi di un esperimento ripetibile) se -attivandosi il C. e, con lui, il collegio- l’evento (quegli eventi) sarebbe stato sicuramente evitato nella sua realizzazione o, almeno, in alcune modalità della sua realizzazione, ma tale è il presupposto dal quale il legislatore muove e, in tal senso, la CDA ha utilizzato l’espressione, effettivamente non felice (fol. 37), "nesso eziologico in re ipsa". Certamente l’attività illegale delle due società non avrebbe avuto seguito e il danno per i creditori sarebbe strato minore.

Alla dichiarazione di inammissibilità consegue condanna alle spese del grado e al versamento di somma a favore della Cassa ammende, somma che si stima equo determinare in Euro 1000.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del grado e al versamento della somma di mille Euro a favore della Cassa ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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