Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 24-05-2011) 05-08-2011, n. 31374

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con ordinanza 1 marzo 2010 la Corte di appello di Genova dichiarava inammissibile la richiesta di revisione della sentenza 22 novembre 2005 con la quale il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lucca, in esito alla procedura di cui all’art. 444 c.p.p. e segg., aveva applicato a C.G. la pena di mesi sei di reclusione, sostituita con la pena pecuniaria di Euro 6840,00, per i reati di maltrattamenti e di violenza privata, uniti dal vincolo della continuazione, in danno di M.M..

Rilevava la Corte territoriale che le nuove prove consistenti nelle testimonianze di L. e C.S., nonchè della dottoressa D.C., nominata consulente tecnico di ufficio nella causa di separazione tra i coniugi erano, per un verso, finalizzate ad una diversa valutazione delle prove già apprezzate nella sentenza di cui si domanda la revisione e, per un altro verso, da ritenere ininfluenti ai fini di una pronuncia ex art. 129 c.p.p. Ricorre per cassazione il C. deducendo mancanza e manifesta illogicità della motivazione, insistendo sul valore dirimente delle testimonianze addotte (la sentenza aveva, peraltro, errato anche sul nome di uno dei testimoni: non L., ma C.G.), perchè avrebbero smentito le dichiarazioni della madre quanto al compimento da parte del C. di atti di violenza in presenza dei figli.

Inoltre, significato decisivo avrebbe dovuto assegnarsi alla dichiarazione della consulente tecnico perchè aveva riferito dell’atteggiamento "preoccupato" della M. allorchè venne a conoscenza del fatto che la figlia era stata citata come testimone.

Il ricorso è inammissibile.

2. Appare opportuno rammentare che le Sezioni unite di questa Corte, seguendo, peraltro, l’indirizzo minoritario della giurisprudenza di legittimità, ed in contrasto con la pressochè totalità della dottrina, dopo aver escluso che la decisione che applica la pena su richiesta abbia natura di sentenza di condanna, ritennero la pronuncia emessa a norma dell’art. 444 c.p.p. e segg. non assoggettabile al giudizio di revisione, proprio evocando il precetto dell’art. 629 c.p.p. che tale mezzo di impugnazione prevedeva solo per le sentenze di condanna con accertamento pieno ed incondizionato (e ciò anche con riferimento alle decisioni adottate in seguito a giudizio abbreviato qualificabili, a pieno titolo, sentenze di condanna – nonchè al decreto penale assimilabile ad una pronuncia di condanna, pure considerando la possibilità di opposizione da parte dell’interessato, dei fatti e delle prove: Cass., Sez. un., 25 marzo 1998, Giangrasso).

La L. 12 giugno 2003, n. 134, ha però, interpolando l’art. 629 c.p.p., comma 1, esteso la revisione alle sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti.

Se l’inserimento nel "pacchetto" riformulatorio dell’istituto del patteggiamento pare la risultante della elevazione della pena che può essere oggetto di accordo e delle conseguenze derivanti dall’utilizzazione del modello che è stato denominato editto maior, il fatto, però che il mezzo straordinario di impugnazione abbia coinvolto l’intero istituto ha riproposto le problematiche circa la natura della sentenza che applica la pena soprattutto considerando l’incidenza sul postgiudicato della revisione.

A tale stregua non può che inferirsene (come, del resto già hanno rilevato le Sezioni unite in una pronuncia adottata nel regime riformato; cfr. Sez. un., 29 novembre 2005, Diop), per un verso, che il ricorso a tale mezzo straordinario di impugnazione rappresenta il sintomo più chiaro della necessità di un ritorno al regime della equiparazione della sentenza di applicazione della pena alla sentenza di condanna in termini di assoluto rigore ermeneutico, per un altro verso, che la detta equiparazione non implica un processo di vera e propria identificazione tra i due tipi di pronuncia, ma sta univocamente a significare che il detto regime, ora codificato alla stregua della normativa complementare, non consente l’esonero dall’applicazione di tutte le conseguenze penali della sentenza di condanna che non siano categoricamente escluse.

3. I primi apporti della giurisprudenza di legittimità sul sistema "riformato" sembrano rifuggire dalla qualificazione della decisione che applica la pena come sentenza di condanna, con conseguenti riverberi quanto alla motivazione, dovendosi ritenere, sul punto, ancora pienamente operanti i risultati interpretativi della sentenza delle Sezioni unite le quali avevano ritenuto che poichè, facendo richiesta di applicazione della pena, l’imputato rinuncia ad avvalersi della facoltà di contestare l’accusa, o, in altri termini, non nega la sua responsabilità ed esonera l’accusa dall’onere della prova, la sentenza che accoglie la detta richiesta contiene un accertamento ed un’ affermazione impliciti della responsabilità dell’imputato, e pertanto l’accertamento della responsabilità non va espressamente motivato, così come l’affermazione di responsabilità non va espressamente dichiarata; precisando che poichè si è in presenza di una sentenza che trova il suo fondamento nella concorde volontà delle parti (la quale diviene oggetto di determinazione da parte del giudice) e che, se pure affermativa di responsabilità, lo è sulla base di un accertamento solo implicito, essa non è una vera e propria sentenza di condanna (Sez. un., 27 marzo 1992, Di Benedetto). E’ chiaro che proprio l’accesso alla revisione costituisce, per i casi previsti dall’art. 630 c.p.p. e per meccanismi operanti soprattutto in sede di ammissibilità dall’art. 634 c.p.p., uno dei profili che potrebbero indurre ad una soluzione debordante dai precedenti risultati interpretativi delle Sezioni unite.

Considerando che la richiesta di revisione ha alla sua base la volontà unilaterale di recedere (per fatti, almeno di norma, sopravvenuti) dall’assetto negoziale ostativo ad ogni impugnazione di merito, ne scaturisce un rapporto diretto tra l’accordo (vagliato dal giudice ai sensi dell’art. 444 c.p.p., comma 3, prima parte) e la richiesta di revisione con il suo corredo dimostrativo. Il che rende subito evidente l’anomalia di tale pronuncia rispetto agli ordinari provvedimenti assoggettabili a revisione quali contemplati prima della "novella" del 2003 (pure se anche il decreto di condanna divenuto esecutivo – in mancanza di opposizione – può dar vita a problemi quanto alle modalità concrete della sua attuazione).

Ciò a prescindere dai casi in cui sia lo stesso accordo ad essere messo in discussione per essere l’effetto di condotta illecita dell’imputato o di terzi. Ma pare chiaro come un simile evento, per essere esterno al contenuto negoziale, resta al di fuori della verifica prevista dall’art. 629 c.p.p., lett. e);

il tutto con indubbie ricadute quanto alla stessa tenuta dell’immancabile richiamo all’art. 129. E senza che, peraltro, possa essere chiamato in causa l’art. 643 c.p.p., comma 1, che, implicitamente prevede la possibilità di revisione anche nel caso in cui l’errore giudiziario sia stato determinato da dolo o colpa grave dell’interessato, non soltanto perchè il patteggiamento denunciato può essere frutto di un "fatto costituente reato" (art. 629, lett. d), ma anche e soprattutto perchè, in tal caso, ciò che viene posto in discussione con la richiesta di revisione non è il contesto probatorio concordato, ma la stessa procedura adottata.

Non pare, inoltre, riferibile a tale decisione, proprio perchè equiparata ad una sentenza di condanna, il principio del ragionevole dubbio di cui all’art. 553, comma 1 che, per la sua collocazione, ma soprattutto per ragioni logiche e sistematiche, trova esclusiva applicazione per le sentenze di condanna. Nessun diverso metodo di giudizio, il giudice del patteggiamento essendo tenuto ad utilizzare se non quello previsto dall’art. 129 c.p.p., secondo un modello che ha come termine di comparazione non la sentenza di condanna ma soltanto una sentenza "equiparabile" a sentenza di condanna; il tutto, peraltro, secondo il principio espresso dall’art. 111 Cost., comma 5, che, con l’abilitare l’imputato a rinunciare al contraddittorio e quindi il diritto alla prova, consente che una sentenza venga pronunciata sulla base della prova acquisita unilateralmente dal pubblico ministero.

5. Poste tali premesse va ricordato che una non più recente decisione di questa Corte, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 629 c.p.p., eccepita sul presupposto che la sentenza che applica la pena su richiesta in forza della novella normativa che consente la revisione, va qualificata come vera e propria sentenza di condanna, alla cui base deve, dunque sussistere un pieno accertamento di responsabilità, inferendone l’insufficienza dell’accertamento giudiziale condotto nel limitato ambito dell’art. 129 c.p.p. e la necessità che il giudice del merito acceda "ad una valutazione di tipo positivistico, cioè a dire sull’effettiva responsabilità", vulnerandosi altrimenti l’art. 3 Cost., l’art. 13 cost, comma 2, e l’art. 111 Cost., comma 6, per l’insanabile contraddizione derivante dall’essere irrogata una pena detentiva senza un vero e proprio accertamento di responsabilità e al di fuori di un dovere di motivazione proprio in punto di responsabilità. La Corte ha considerato una forzatura l’interpretazione proposta evidenziando un dato letterale esplicitato dalla disposizione dell’art. 629 c.p.p., ritenendolo decisivo. Tale precetto disgiunge, in riferimento alla revisione, le sentenze di condanna dalle sentenze emesse ai sensi dell’art. 444, comma 2, perchè le menziona raccordate dalla particella "o", mostrando di avere ben presente che la sentenza di applicazione della pena su richiesta non è una decisione "di condanna", ma è soltanto ad essa equiparata – l’equiparazione alle sentenze di condanna giustifica l’assoggettamento alla revisione e non fa della sentenza di patteggiamento una sentenza di condanna in senso proprio. Anche qui l’affermazione che la sentenza di patteggiamento non afferma la responsabilità in ragione della struttura negoziale del rito, nel quale l’imputato esonera l’accusa dalla prova dei fatti addebitati nell’imputazione assume valore dirimente, con la conseguenza che la motivazione è sufficientemente formata con l’indicazione delle valutazioni sulla sussistenza del consenso delle parti, sull’insussistenza delle condizioni in presenza delle quali deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p., sulla correttezza della qualificazione giuridica del fatto, dell’applicazione e comparazione delle circostanze, e sulla congruità della pena (Cass., Sez. 7^ , 4 marzo 2004, Anizi). Una soluzione, quella ora ricordata, che sembra però trascurare le effettive caratteristiche distintive della sentenza di patteggiamento rispetto alla sentenza di condanna alla quale la prima è, pur sempre (soltanto) equiparata. Cosicchè il dato letterale, vale a dire, l’uso della disgiunzione "o" nella giustapposizione delle sentenze di condanna alle sentenze di patteggiamento all’interno della previsione dell’art. 629 c.p.p., è assolutamente irrilevante non solo perchè la stessa particella disgiuntiva era utilizzata per legare la sentenze di condanna al decreto penale che è anch’ esso provvedimento di condanna ma anche perchè il legislatore del 2003, inserendo le più volte richiamate innovazioni, tra le quali la revisione, sembra assegnare proprio a tale mezzo di impugnazione una rilevanza davvero esponenziale; così ancorando il disposto dell’art. 445, comma 1 bis alla sua effettiva valenza precettiva rappresentando l’interpolazione dell’art. 629 c.p.p. una sorta di interpretazione autentica del previgente art. 445, comma 1, ultimo periodo, alla stregua delle conclusioni delle Sezioni unite circa l’inapplicabilità al patteggiamento dell’istituto della revisione.

Senza contare che l’accesso esplicito a tale mezzo di impugnazione, rappresentando una vicenda costituzionalmente obbligata, si giustifica solo alla stregua delle prese di posizione della Corte di cassazione, restando aperta la problematica circa i criteri di adattamento della revisione ad un regime che, almeno in sede cognitoria, mantiene quale regola di giudizio, ai fini del proscioglimento, la disposizione dell’art. 129 c.p.p. (cfr., in proposito, Sez. un., 29 novembre 2005, Diop).

C’è solo da aggiungere che essendo la sentenza di applicazione di pena su richiesta "equiparata" ad una sentenza di condanna resterebbe, comunque, tuttora problematica l’applicabilità a tale tipologia di sentenza sia di tutti i casi previsti dall’art. 630 c.p.p. sia delle regole di giudizio predisposte per le sentenze e i decreti penali di condanna dall’art. 631. 6. Il più penetrante tentativo giurisprudenziale di risolvere la complessa questione dei rapporti tra richiesta di patteggiamento e revisione per prova nuova si rinviene in una recente sentenza della corte di cassazione (Cass., Sez. 6^, 4 dicembre 2006, Tambaro).

6.1. La decisione premette (richiamando Sez. un., 25 marzo 1998, Giangrasso) che il patteggiamento mantiene "una posizione nettamente e ontologicamente differenziata non solo rispetto al giudizio ordinario, dove il massimo della cognitio giudiziale tende al massimo di ricerca della verità "processuale", ossia quanto più vicino possibile alla verità "reale", ma anche rispetto agli altri riti speciali, dove non manca un pur sommario accertamento giudiziale dei fatti e della responsabilità, che difetta invece nel rito del patteggiamento. Il che deriva dalle scelte volontariamente operate dalle parti in un calcolato bilanciamento fra sicuri, rilevanti vantaggi e rischi eventuali che la certezza giudiziale possa non coincidere con la realtà storica, la cui ricerca non si è deliberatamente affrontata e che rimane comunque al di fuori del dictum del giudice, il quale si limita – senza previa declaratoria di responsabilità – ad applicare la pena non da lui scelta, ma da altri "indicata", enunciando che "vi è stata richiesta delle parti" (art. 444 c.p.p., comma 2)". E proprio di questi dati strutturali insormontabili perchè connessi all’essenza stessa dell’istituto del patteggiamento – l’interprete deve tener conto nell’identificare i criteri e le modalità di "adattamento" dell’istituto della revisione al peculiare regime del patteggiamento soprattutto quando venga all’esame il "caso previsto dall’art. 630, lett. e)". Di qui una prima conclusione: nell’individuare i criteri di adattamento non può essere ritenuta estensibile alla revisione della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti la lettura che del concetto di "prove nuove" è stata offerta dalle Sezioni unite nella decisione con la quale fu affermato il principio di diritto in base al quale in tema di revisione, per prove nuove rilevanti a norma dell’art. 630 c.p.p., lett. e) ai fini dell’ammissibilità della relativa istanza devono intendersi non solo le prove sopravvenute alla sentenza definitiva di condanna e quelle scoperte successivamente ad essa, ma anche quelle non acquisite nel precedente giudizio ovvero acquisite, ma non valutate neanche implicitamente, purchè non si tratti di prove dichiarate inammissibili o ritenute superflue dal giudice, e indipendentemente dalla circostanza che l’omessa conoscenza da parte di quest’ultimo sia imputabile a comportamento processuale negligente o addirittura doloso del condannato, rilevante solo ai fini del diritto alla riparazione dell’errore giudiziario (Sez. un., 26 settembre 2001, Pisano).

Pur condividendo gli approdi di tale decisione, la sentenza Tambaro rileva che la valorizzazione – ai fini della revisione -di prove "non acquisite nel precedente giudizio ovvero acquisite, ma non valutate neanche implicitamente" (valida ed opportuna in relazione al rito ordinario o comunque a riti diversi dall’applicazione della pena su richiesta delle parti) non è logicamente conciliabile con la struttura del patteggiamento. In tale rito, infatti, non vi è spazio per l’"acquisizione" di prove in senso tecnico giacchè la funzione del giudice, dopo che egli abbia escluso l’applicazione dell’art. 129 ed abbia valutato positivamente il quadro di legalità dell’accordo, resta limitata al controllo di congruità della pena. Una linea, quella ora ricordata, che pare ormai essere divenuto ius reception nella giurisprudenza di questa Corte Suprema la quale, aveva già avuto modo di qualificare inammissibile l’istanza di revisione della sentenza applicativa di pena patteggiata, proposta a norma dell’art. 630 c.p.p., lett. e), allorchè risulti fondata su elementi preesistenti alla pronuncia, già conosciuti o conoscibili dal condannato, poichè questi, avendo rinunciato per la scelta del rito a farli valere nel giudizio ordinario, non può dedurli con l’impugnazione straordinaria (Sez. 7^, 25 ottobre 2006, Barranca;

cfr., negli stessi termini, Sez. 2^, 4 maggio 2007, Bettero; in senso contrario Sez. 5, 24 novembre 2009, Zitouni Nourredine).

Un argomento, quello adesso ricordato, che va integralmente condiviso, con la precisazione che le modifiche all’art. 606, comma 1, lett. e), introdotte dalla L. 22 febbraio 2006, n. 46, art. 8, comma 1, possono problematicamente assumere un qualche rilievo nella rilettura del complesso dimostrativo della decisione delle Sezioni unite più volte rammentata (Sez. un., 26 settembre 2001, Pisano), attesa la possibilità di introdurre nel ricorso per cassazione con le censure di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame; un profilo che non era sfuggito a quella decisione che, proprio in tema di travisamento della prova, aveva ritenuto dirimente il postulato dogmatico (ma ricavabile dall’art. 619, comma 1) in base al quale la Corte di cassazione è giudice del procedimento probatorio e non del risultato della prova. Tanto che sarebbe apparso esorbitante attribuire al giudice della legittimità il compito di verificare la rispondenza a giustizia della decisione pur in assenza di lacune e di aporie motivazionali e la presenza un apparato argomentativo logicamente incensurabile perchè conforme alle regole di inferenza espresse nel paradigma costituito dal sillogisma probatorio e che può esprimersi nella sequenza: massima di esperienza (premessa maggiore), dato probatorio (premessa minore), conseguenza (il fatto provato). Senza contare che, moduli "correttivi" della motivazione in fatto che sia solo "insufficiente" sono espressamente contemplati dal combinato disposto degli artt. 547 e 130 (omettendo, per giunta, di chiamare in causa il precetto dell’art. 624-bis, introdotto dalla L. 26 marzo 2001, n. 128, art. 6, comma 5).

Non è questa, ovviamente, la sede per una compiuta verifica del dictum della sentenza delle Sezioni unite alla stregua della ius novum, soprattutto in funzione di introdurre ora, con il ricorso per cassazione atti del processo e di far valere l’omessa valutazione di una prova allegando al ricorso lo stesso strumento dimostrativo; quel che occorre, per il momento, sottolineare è che proprio attraverso l’impugnazione della sentenza che applica la pena sarebbe possibile fare valere quella omessa valutazione, una possibilità sicuramente non consentita nel regime ante riforma.

6.2. In secondo luogo, in relazione alla richiesta di revisione di una sentenza di patteggiamento, la sentenza T. ha precisato che anche la valutazione cui è chiamato il giudice presenta delle peculiarità perchè nel caso di sentenze di tal genere, il giudice sarà chiamato a stabilire se le prove sopravvenute alla sentenza definitiva e quelle scoperte successivamente ad essa (le uniche che possono avere ingresso in sede di revisione di una sentenza di patteggiamento) siano tali da dimostrare "da sole" la necessità di un proscioglimento oppure se esse siano autonomamente in grado di gettare una nuova luce e di fornire una chiave di lettura radicalmente alternativa degli "atti" del procedimento concluso con il patteggiamento, atti che di per sè non erano tali da reclamare l’adozione di una pronuncia ai sensi dell’art. 129.

La conseguenza è, dunque, nel senso che, in ragione delle particolari caratteristiche del rito disciplinato dall’art. 444 e segg., l’area della revisione della sentenza di patteggiamento, con riguardo all’ipotesi di cui all’art. 629, lett. e) (quella, cioè, ora chiamata in causa), è più circoscritta rispetto a quella della revisione della sentenza emessa all’esito di un giudizio ordinario.

Sulla revisione della pronuncia di applicazione della pena su richiesta delle parti si riflettono infatti i limiti strutturali del rito speciale su cui si chiede di innestare il giudizio di revisione.

Se così non fosse la revisione cesserebbe di essere mezzo di impugnazione straordinario apprestato dal legislatore per porre rimedio all’errore giudiziario e diverrebbe, in relazione al patteggiamento, strumento a disposizione del patteggiante per revocare in dubbio una decisione da lui stesso richiesta e riaprire integralmente la fase dell’accertamento dei fatti e delle responsabilità.

Ma anche le regole di giudizio che legittimano la revisione della sentenza di applicazione della pena su richiesta risultano diversificate. Se in sede di patteggiamento il giudice è chiamato (oltre che ad un controllo sui termini dell’accordo) esclusivamente a valutare se sussistano cause di non punibilità che potrebbero condurre ad un proscioglimento a norma dell’art. 129, pure la revisione della sentenza di patteggiamento dovrà essere effettuata seguendo lo stesso binario e facendo riferimento alla stessa regola di giudizio ed agli stessi parametri applicabili nel procedimento investito dalla procedura di revisione. Con la conseguenza che gli elementi in base ai quali si chiede la revisione dovranno essere tali da dimostrare che il soggetto cui è stata applicata la pena concordata deve essere prosciolto per la presenza di una delle cause elencate nell’art. 129 c.p.p. In tal modo, oltre a realizzarsi – anche di fronte una sentenza di applicazione della pena "su richiesta" delle parti -le finalità preminenti della giurisdizione penale che non può concepire l’applicazione di una pena laddove sussistano cause di non punibilità, si evita al tempo stesso, che – attraverso lo strumento della richiesta di revisione – possano essere radicalmente alterate (successivamente all’intervenuto accordo e con effetto per così dire retroattivo) la struttura e la fisionomia del patteggiamento e vanificati gli obiettivi di accelerazione e di deflazione propri di tale rito. Per concludere, la soluzione prospettata non deriva da un’ astratta esigenza di "simmetria" tra la natura e l’ambito del patteggiamento e quelle del relativo procedimento di revisione ma da un’elementare esigenza di interna coerenza del sistema processuale che deve garantire il soddisfacimento delle istanze di giustizia e la riparazione dell’errore (in altri termini: la tutela dell’innocente) senza consentire però che la revisione diventi lo strumento per ottenere tutto ciò cui si è consapevolmente e liberamente rinunciato con la scelta del patteggiamento e ciò che sarebbe stato comunque impossibile ottenere nell’originario giudizio conclusosi con una sentenza di applicazione della pena su richiesta.

L’apprezzamento per la su esposta tesi non può, oltre tutto trascurare come il metodo operante per valutare la ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 129, comma 1, non può che identificarsi se non nel modello interpretativo più volte indicato dalla giurisprudenza di questa Corte.

7. Alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile sia per la manifesta infondatezza dell’istanza sia per non aver contestato la possibilità di acquisizione delle prove (tutte, peraltro, come ha osservato il Procuratore Generale presso questa Corte – alle cui requisitorie si fa integrale rinvio – non dirimenti ai fini previsti dall’art. 631 c.p.p., quale interpretato nei termini riferibili alla sentenza di applicazione della pena su richiesta quindi, irrilevanti ai fini del giudizio di revisione) sia per il sua assoluta aspecificità quanto alla qualificazione delle prove stesse in relazione alla possibilità di introduce nel giudizio di cognizione.

8. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende che si ritiene equo determinare in Euro mille/00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille/00 in favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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