T.A.R. Sardegna Cagliari Sez. II, Sent., 14-09-2011, n. 926 Condono Demolizione di costruzioni abusive Edilizia e urbanistica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con l’ordinanza impugnata, il Responsabile dell’area tecnica, servizio urbanistica del Comune, ha ordinato ai ricorrenti di demolire le opere realizzate in difformità dalla autorizzazione edilizia n. 2383 del 6.2.2001 e dalle concessioni edilizie n. 69 n. 71, entrambe del 11.7.2002.

Nell’ordinanza si rileva poi che nell’area in cui sono state eseguite le opere in difformità, la P.T. vi esercita un’attività di tipo produttivo artigianaleindustriale e direzionale, nonostante l’area ricada in zona E Agricola, si rileva ancora che la stessa ricade in "fascia di pericolosità idraulica Hi1, Hi2 eHi3".

I ricorrenti chiedono l’annullamento dell’ordinanza di demolizione, facendo valere quattro motivi di impugnativa.

Alla pubblica udienza del 13 luglio 2011, su richiesta del difensore dei ricorrenti, non costituito il Comune di Monastir, la causa è stata trattenuta in decisione dal Collegio.

Con l’ordinanza n. 200 del 22.4.2010, la Sezione aveva accolto la domanda cautelare con la seguente motivazione:

"Considerato che con la sentenza n. 178 del 15.2.2010, la Sezione ha già avuto modo di chiarire che la destinazione a zona agricola di un’area, in assenza di particolari ulteriori vincoli, non è incompatibile con la sua utilizzazione a parcheggio;

Rilevato che il Comune non si é uniformato alla statuizione contenuta nella sentenza, costringendo i ricorrenti a proporre ulteriore impugnativa avverso il provvedimento in epigrafe, che contiene identico divieto di utilizzazione dell’area a parcheggio;

Ritenuto che l’ulteriore determinazione contenuta nel provvedimento impugnato, circa la demolizione delle opere ritenute abusive, deve ritenersi illegittima perché adottata senza la previa definizione della domanda di accertamento di conformità presentata il 23.5.2005;

Rilevato che il Comune non ha depositato in giudizio i documenti richiesti dalla Sezione con l’ordinanza n. 24 del 14.4.2010, al fine di conoscere la consistenza delle opere abusive e notizie in ordine alla definizione della domanda di accertamento di conformità;

Ritenuto che, pertanto, la domanda cautelare debba essere accolta, restando impregiudicati gli eventuali successivi provvedimenti sanzionatori conseguenti all’esito della definizione del procedimento di sanatoria."

La documentazione richiesta dalla Sezione è stata poi depositata dal Comune di Monastir il 29 aprile 2010.

Nella relazione depositata dal Comune si afferma che l’Ufficio tecnico in data 18.7.2007 aveva chiesto documentazione integrativa al fine della definizione della domanda di accertamento di conformità presentata in data 23.5.2005 dalla ditta P.T., ma che quest’ultima non ha mai trasmesso la documentazione richiesta.

Nella relazione si afferma poi che, come previsto dal comma 3 dell’articolo 16 della legge regionale n. 23/1985, la domanda deve ritenersi respinta per mancato pronunciamento sulla stessa entro il termine di sessanta giorni, con ciò volendosi far conseguire e rimarcare che l’ordinanza di demolizione è stata adottata dopo la definizione, per silenzio rigetto, della domanda di accertamento di conformità.

La tesi del Comune è errata, mentre è fondata la correlativa censura proposta dai ricorrenti con il secondo motivo.

La giurisprudenza è univoca nel ritenere che in presenza di un’istanza di accertamento di conformità o di condono, l’Amministrazione non può adottare provvedimenti repressivi, pena la violazione del principio di economicità e coerenza dell’azione amministrativa, non potendosi previamente sanzionare ciò che potrebbe essere sanato. (Consiglio Stato, sez. IV, 06 luglio 2009, n. 4335).

Anche la Sezione con recente sentenza ha ribadito che l’ordine di demolizione adottato in data successiva alla presentazione della richiesta di accertamento di conformità o di condono, in assenza di preventiva determinazione su quest’ultima, è illegittimo in quanto l’amministrazione ha l’obbligo di pronunciarsi su di essa prima di procedere all’irrogazione delle sanzioni definitive. (TAR Sardegna, sez. II, 16.3.2011 n. 289).

Il silenzio rigetto di cui all’articolo 16 della legge regionale 11 ottobre 1985, n. 23, che si forma dopo il sessantesimo giorno dalla presentazione della domanda di accertamento di conformità, non equivale a definizione della domanda di sanatoria, ma costituisce soltanto il presupposto per consentire all’interessato di chiedere tutela, attraverso l’impugnazione del silenzio rigetto così formatosi, al fine di ottenere un provvedimento espresso che accolga o motivatamente respinga la richiesta di sanatoria.

Non è conforme ai principi dell’ordinamento che impongono la leale collaborazione fra cittadino ed amministrazione che un’Amministrazione pretenda di eludere il dovere di pronunciarsi su una domanda del cittadino di accertamento di conformità, a fronte dell’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso, come impone l’articolo 2 della legge 7 agosto 1990 n. 241.

Il cittadino ha il diritto di conoscere se le opere realizzate siano, in tutto o in parte, sanabili o meno e quali siano le specifiche ragioni giuridiche ostative al rilascio del titolo richiesto, anche al fine di poter esperire i mezzi di tutela.

Nel caso di specie il Comune avrebbe dovuto assegnare alla ditta P.T. un termine entro cui depositare la documentazione richiesta e, in caso di mancata osservanza del termine, definire il procedimento iniziato con la domanda di accertamento di conformità (sulla base della documentazione presentata) con un provvedimento espresso e motivato, nel quale dare conto delle ragioni dell’eventuale rigetto, totale o parziale, della domanda. Rigetto che potrebbe ovviamente essere motivato anche con riferimento alla mancata dimostrazione da parte dell’interessato, con idonea documentazione, dei presupposti previsti dalla legge per il rilascio del titolo richiesto.

Solo dopo la definizione del procedimento di sanatoria il Comune avrebbe potuto ordinare la demolizione, la riduzione in pristino, la cessazione del cambio di destinazione, o l’applicazione delle sanzioni pecuniarie, limitatamente alle opere non sanate con l’accertamento di conformità.

Con il provvedimento impugnato, invece, è stata ordinata genericamente la demolizione di opere abusive senza il previo accertamento di quali fossero, effettivamente quelle abusive; simile accertamento poteva risultare solo dopo la definizione della domanda di sanatoria.

Fondato si rivela anche il secondo motivo di ricorso.

Come esattamente rilevato dai ricorrenti, ai sensi degli articoli 3 e ss. della legge regionale n. 23 del 1985, il corretto esercizio della funzione sanzionatoria richiede la rigorosa individuazione di ciascuna opera, o parte di opera, abusiva, la corretta qualificazione secondo le differenti tipologie e l’applicazione delle conseguenti sanzioni, al fine di consentire al destinatario, per ciascun abuso, di adeguarsi spontaneamente, chiedere la sanatoria ovvero ricorrere in sede giurisdizionale contestando l’operato dell’Amministrazione.

Nella specie il Responsabile del servizio edilizia privata del Comune non ha, con il provvedimento impugnato, puntualmente individuato le opere ritenute abusive, ma ha genericamente affermato che sarebbero state realizzate opere in difformità della autorizzazione edilizia n. 2383 del 6.2.2001 e delle concessioni edilizie n. 69 n. 71 del 11.7.2002. La richiamata relazione del 10.11.2009 non può ritenersi sufficiente, in quanto anche nella stessa, dopo la descrizione dei manufatti che insistono sull’area dei ricorrenti, non vengono puntualmente individuate le opere (con le relative dimensioni) realizzate in difformità delle concessioni edilizie e della autorizzazione in precedenza rilasciate.

Inoltre, come esattamente osservato dai ricorrenti, in ciò vi è un ulteriore profilo di illegittimità poiché assoggetta a demolizione tutte le opere, senza considerare che quelle soggette ad autorizzazione edilizia potrebbero essere sanzionate con la sola sanzione pecuniaria ex articolo 14 della legge regionale n. 23/85.

Fondata appare anche la censura proposta con il primo motivo sulla genericità del richiamo, nel provvedimento, al vincolo idrogeologico.

In effetti nel provvedimento si afferma che l’area ricade in "fascia di pericolosità idraulica Hi1, Hi2 eHi3", senza però indicare specificamente i singoli fabbricati che ricadrebbero nelle singole fasce di pericolosità idraulica e quindi quali ammissibili a sanatoria e quali eventualmente non sanabili per la presenza del vincolo di alta pericolosità idraulica.

Quanto alla non utilizzabilità dell’area a fini diversi da quelli agricoli, la Sezione si è già pronunciata con la sentenza n. 178 del 2010, nella quale ha evidenziato che "non sussiste una pregiudiziale incompatibilità tra la destinazione agricola di un’area e la sua utilizzazione a parcheggio: la giurisprudenza amministrativa, infatti, ha avuto occasione di chiarire che la destinazione a zona agricola di un’area, salva la previsione di particolari vincoli ambientali o paesistici, non impone un obbligo specifico di utilizzazione effettiva in tal senso, avendo solo lo scopo di evitare insediamenti residenziali; essa, pertanto, non costituisce ostacolo alla installazione di opere che non riguardino l’edilizia residenziale e che, per contro, si rivelino per ovvi motivi incompatibili con zone abitate e quindi necessariamente da realizzare in aperta campagna (cfr., CdS, Sez. V, 15.6.2001 n. 3178; TAR Veneto, Sez. II, 31.10.2000 n. 1952 e Sez. III, 18.3.2002 n. 1108)".

Anche la Corte di Cassazione è pacifica nel ritenere che non è precluso al proprietario di un terreno agricolo la "possibilità di sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo, ed in particolare avendo riguardo ad utilizzazioni intermedie rispetto all’uso agricolo e quello edificatorio quali, ad esempio, il parcheggio, la caccia, lo sport e l’agriturismo (cfr. Cass. SS.UU 10.11.2010 n. 22802, cass. n. 12862 del 2010; cass. n. 10280 del 2004).

Nella specie l’attività imprenditoriale esercitata dalla P.T. dovrà essere complessivamente considerata, al fine valutare se la stessa rientri in un normale e ulteriore utilizzo di un’area agricola (utilizzo a parcheggio), ovvero se essa, per le opere realizzate e per le modalità di utilizzo, rientri in un’attività industriale, artigianale o commerciale, da ubicare in zona D. In quest’ultimo caso il Comune ben potrà disporre il trasferimento in area industriale del Comune, ove sussista effettivamente nella zona industriale del Comune altrettanta area idonea all’attività esercitata dalla P.T..

Non è infatti pensabile che il Comune possa, in violazione del principio di buona amministrazione e del principio sulla libertà di iniziativa economica, disporre la chiusura di un’attività produttiva – come quella della P.T. che occupa 91 dipendenti, che lo stesso Comune ha non solo tollerato da anni, ma anche autorizzato, sia pur parzialmente, con le concessioni e l’autorizzazione edilizia prima indicate – senza che lo stesso si attivi, con lo strumento pianificatorio, ad individuare una zona per impianti produttivi, ove trasferire l’attività.

Salve ovviamente le valutazioni in relazione alla pericolosità idraulica della zona, da compiere puntualmente in relazione allo specifico grado di pericolosità ove insistono le singole opere e vengono svolte le attività d’impresa.

La fondatezza delle censure esaminate, conduce all’accoglimento domanda di annullamento dell’ ordinanza n. 2 del 2010, senza che vi sia la necessità di esaminare le ulteriori censure, che restano assorbite.

Va invece dichiarata inammissibile l’impugnativa dell’ordinanza n. 38 del 9.12.2009, essendo la stessa già stata impugnata con il ricorso n. 3 del 2010, poi definito, con l’annullamento dell’ordinanza medesima, con la sentenza n. 178 del 2010.

Le spese del giudizio seguono la regola della soccombenza e si liquidano nel dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Seconda)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, in parte lo dichiara inammissibile ed in parte lo accoglie e, per l’effetto, annulla l’ ordinanza n. 2 del 21.1.2010.

Condanna l’Amministrazione soccombente al pagamento delle spese ed onorari del giudizio in favore di parte ricorrente, che liquida nella complessiva somma di Euro 3000,00 (tremila//00), oltre IVA, CPA e rimborso del contributo unificato.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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