Corte Costituzionale sentenza n. 80 SENTENZA 07 – 11 marzo 2011 .

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Gazzetta Ufficiale – 1ª Serie Speciale – Corte Costituzionale n. 12 del 16-3-2011

Sentenza

nel giudizio di legittimita’ costituzionale dell’art. 4 della legge
27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle
persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralita’) e
dell’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni
contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere),
promosso dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico
di D.P.E. con ordinanza del 12 novembre 2009, iscritta al n. 177 del
registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 24, 1ª serie speciale, dell’anno 2010.
Visto l’atto di costituzione di D.P.E.;
Udito nell’udienza pubblica del 25 gennaio 2011 il Giudice
relatore Giuseppe Frigo;
Udito l’avvocato Alfredo Gaito per D.P.E.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza del 12 novembre 2009, la Corte di cassazione,
seconda Sezione penale, ha sollevato, in riferimento all’art. 117,
primo comma, della Costituzione, questione di legittimita’
costituzionale dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423
(Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la
sicurezza e per la pubblica moralita’) e dell’art. 2-ter della legge
31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni
criminali di tipo mafioso, anche straniere), nella parte in cui «non
consentono che, a richiesta di parte, il procedimento in materia di
misure di prevenzione si svolga in udienza pubblica».
Il giudice a quo riferisce che con decreto del 9 giugno 2008 la
Corte d’appello di Catania aveva confermato il decreto emesso dal
Tribunale di Siracusa il 7 febbraio 2008, con il quale una persona
indiziata di appartenenza a una associazione di stampo mafioso era
stata sottoposta, in applicazione della legge n. 575 del 1965, alla
misura di prevenzione della sorveglianza speciale e dell’obbligo di
soggiorno presso il Comune di residenza per la durata di un anno ed
erano stati, altresi’, confiscati un immobile e un’autovettura
intestati alla moglie del proposto.
Il decreto del giudice d’appello era stato impugnato con ricorso
per cassazione dai difensori dell’interessato. Facendo leva sui
principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella
sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia, uno dei
difensori aveva, tra l’altro, eccepito, ai sensi dell’art. 609, comma
2, del codice di procedura penale, la violazione del principio di
pubblicita’ delle procedure giudiziarie, sancito dell’art. 6,
paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848
(d’ora in avanti: «CEDU»). Il medesimo difensore aveva chiesto,
quindi, che il ricorso venisse trattato in udienza pubblica in
applicazione «estensiva» dell’art. 441, comma 3, cod. proc. pen.,
attribuendo a tale istanza «conseguenze invalidanti per le decisioni
di merito», in quanto «ambedue scaturite all’esito di procedure da
ritenere illegali ora per allora».
Con ordinanza del 14 maggio 2009, il Collegio rimettente,
rilevato che le questioni di diritto sottoposte al suo esame avevano
dato luogo o potevano dare luogo a un contrasto giurisprudenziale,
aveva rimesso il ricorso alle Sezioni unite. Il Presidente aggiunto
della Corte di cassazione, con provvedimento del 22 giugno 2009,
aveva restituito tuttavia il procedimento, ritenendo che la Sezione
avesse omesso «di soffermarsi adeguatamente sulla specialita’ che
connota il giudizio di cassazione» e che non dovesse trascurarsi,
inoltre, la circostanza che, in materia di misure di prevenzione, il
ricorso per cassazione e’ ammesso solo per violazione di legge (art.
4, undicesimo comma, della legge n. 1423 del 1956).
Fissata quindi una nuova camera di consiglio per l’esame del
ricorso davanti alla Sezione rimettente, il ricorrente aveva
depositato memoria, insistendo nelle richieste formulate.
Tanto premesso, il giudice a quo osserva che, con la citata
sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia, la Corte
europea dei diritti dell’uomo ha rilevato che la pubblicita’ delle
procedure giudiziarie, garantita dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU
(secondo cui «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia
esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da
un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge»),
tutela le persone soggette a una giurisdizione contro una giustizia
segreta, che sfugge al controllo del pubblico, e costituisce uno dei
mezzi idonei per preservare la fiducia nei giudici, concorrendo
all’attuazione dell’equo processo. La citata norma della Convenzione
– ha soggiunto la Corte europea – non esclude che le autorita’
giudiziarie possano derogare al principio di pubblicita’, tenuto
conto delle particolarita’ della causa sottoposta al loro esame. La
situazione e’, tuttavia, diversa allorche’ – come avviene,
nell’ordinamento italiano, per il procedimento di applicazione delle
misure di prevenzione – una procedura si svolge a porte chiuse in
virtu’ di una norma generale e assoluta, senza che la persona
soggetta a giurisdizione abbia la possibilita’ di sollecitare una
pubblica udienza: non potendo una simile procedura ritenersi conforme
all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione.
In replica ai rilievi del Governo italiano – che aveva allegato,
a giustificazione della mancanza di pubblicita’, il carattere
altamente tecnico della procedura di applicazione delle misure
patrimoniali – la Corte di Strasburgo ha rilevato che non si puo’
comunque «perdere di vista la posta in gioco» nelle procedure di cui
si discute e gli effetti che esse possono produrre sulle persone
coinvolte: prospettiva nella quale non e’ possibile affermare che il
controllo del pubblico non rappresenti una condizione necessaria alla
garanzia dei diritti dell’interessato. Di conseguenza, ha giudicato
«essenziale» che le persone sottoposte a giurisdizione nell’ambito di
dette procedure «si vedano almeno offrire la possibilita’ di
sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate
dei tribunali e delle corti d’appello».
Tale conclusione e’ stata successivamente ribadita dalla Corte di
Strasburgo con la sentenza 8 luglio 2008, Perre e altri contro
Italia, cosi’ da potersi parlare di un indirizzo interpretativo
consolidato.
Il Collegio rimettente ricorda, in pari tempo, come la Corte
costituzionale, con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, abbia
chiarito che le norme della CEDU, nella interpretazione offertane
dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, integrino, quali «norme
interposte», il parametro costituzionale espresso dall’art. 117,
primo comma, Cost., nella parte in cui impone al legislatore il
rispetto degli obblighi assunti dall’Italia a livello internazionale.
Con la conseguenza che spetta al giudice comune interpretare la norma
interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i
limiti in cui cio’ sia consentito dal dato testuale; mentre, qualora
tale operazione non sia possibile – esclusa una diretta
disapplicazione della norma interna da parte del giudice –
quest’ultimo deve investire la Corte costituzionale della relativa
questione di legittimita’ costituzionale, in riferimento al parametro
dianzi indicato.
Nel caso in esame non sarebbe, in effetti, possibile interpretare
la norma interna in senso conforme alla disposizione convenzionale,
ostandovi l’evidenza del dato testuale. L’art. 4 della legge n. 1423
del 1956, ai commi sesto, decimo e undicesimo, prevede, infatti, in
modo specifico e inequivoco – con disposizioni valevoli, oltre che
per le misure personali, anche per quelle a carattere patrimoniale
previste dalla speciale normativa antimafia, di cui all’art. 2-ter
della legge n. 575 del 1965 – che il procedimento per l’applicazione
delle misure di prevenzione si svolge, in tutti i suoi gradi, in
camera di consiglio. Ne’ potrebbe applicarsi in via analogica alla
procedura in esame l’art. 441, comma 3, cod. proc. pen., il quale
stabilisce che il giudizio abbreviato si svolge in camera di
consiglio, ma che se tutti gli imputati ne fanno richiesta esso ha
luogo in udienza pubblica. Una simile operazione ermeneutica
risulterebbe impedita, per un verso, dal fatto che il ricorso
all’analogia e’ consentito solo per regolare ipotesi non previste
dalla legge; per altro verso, dalla natura eccezionale della norma da
ultimo citata.
Neppure, poi, potrebbe condividersi la tesi, accolta in altre
occasioni dalla stessa giurisprudenza di legittimita’, stando alla
quale i principi affermati dalla Corte europea nella sentenza del 13
novembre 2007 non sarebbero di ostacolo alla trattazione dei ricorsi
per cassazione in materia di misure di prevenzione con la procedura
camerale – e, in particolare, con la cosiddetta procedura «non
partecipata», di cui all’art. 611 cod. proc. pen. (caratterizzata da
un contraddittorio esclusivamente scritto) – posto che la predetta
sentenza non reca alcun riferimento al giudizio che si svolge dinanzi
alla Corte di cassazione.
Se e’ vero, infatti, che la Corte di Strasburgo ha in piu’
occasioni affermato che il diritto a un’udienza pubblica dipende
dalla natura delle questioni da trattare e che esso puo’ venire, in
particolare, escluso quando debbano trattarsi unicamente questioni di
diritto; la medesima Corte ha, pero’, anche precisato che l’assenza
dell’udienza pubblica, nei gradi successivi al primo, puo’ trovare
giustificazione solo se in primo grado la pubblicita’ sia stata
garantita.
Il ricordato indirizzo della giurisprudenza di legittimita’
potrebbe essere, d’altro canto, condiviso solo se la procedura
camerale fosse l’unico tipo di procedimento previsto davanti alla
Corte di cassazione: laddove, al contrario, il giudizio puo’
svolgersi tanto in pubblica udienza che in camera di consiglio e, in
questo secondo caso, tanto nella forma «non partecipata» che in
quella prevista dall’art. 127 cod. proc. pen. La regola generale, al
riguardo, e’ che «la corte procede in camera di consiglio quando deve
decidere su ogni ricorso contro provvedimenti non emessi nel
dibattimento» (art. 611 cod. proc. pen.): il che non esclude,
tuttavia, che la pubblica udienza sia talora prevista anche quando la
sentenza impugnata e’ stata pronunciata in camera di consiglio (come
avviene, in specie, per le sentenze emesse a norma dell’art. 442 cod.
proc. pen.).
Irrilevante sarebbe, inoltre, la circostanza che, nei
procedimenti di prevenzione, il ricorso per cassazione possa proporsi
solo per violazione di legge (vizio peraltro configurabile anche nel
caso di mancanza della motivazione del provvedimento impugnato o di
carenze della stessa tali da renderla meramente apparente), poiche’,
quali che siano i motivi deducibili, il giudizio di cassazione resta
comunque un giudizio di legittimita’.
Non resterebbe, pertanto, che prendere atto dell’incompatibilita’
delle norme censurate con l’art. 117, primo comma, Cost., nella parte
in cui non contemplano la «garanzia minima» pretesa dalla Corte di
Strasburgo ai fini considerati: ossia la possibilita’ che, a
richiesta di parte, il procedimento per l’applicazione delle misure
di prevenzione si svolga in udienza pubblica.
La questione sarebbe, altresi’, rilevante nel giudizio a quo
sotto due profili.
In primo luogo, perche’, come gia’ ricordato, il rito davanti
alla Corte di cassazione segue quello adottato nei giudizi di merito:
regola, questa, che dovrebbe essere nella specie applicata tenendo
conto anche di un’eventuale declaratoria di illegittimita’
costituzionale delle norme impugnate, nella parte in cui impongono lo
svolgimento in camera di consiglio del procedimento di cui si
discute. Inoltre, una volta che si colleghi la scelta del rito a una
opzione del soggetto interessato, questa non dovrebbe essere
necessariamente effettuata «in limine, potendosi esprimere anche in
successivi gradi di giudizio».
Sotto diverso profilo, poi, l’esito del giudizio di
costituzionalita’ condizionerebbe la decisione sulla «deduzione
difensiva di conseguenze invalidanti delle pronunce di merito
"scaturite all’esito di procedure da ritenere illegali ora per
allora"». L’eventuale dichiarazione di illegittimita’ costituzionale
delle norme impugnate, infatti, «non potrebbe non spiegare i suoi
effetti su un processo ancora in corso che, per essere
sostanzialmente giusto, deve avere la capacita’ di emendarsi, per
adeguarsi a regole costituzionalmente corrette».
2. – Si e’ costituito D. P. E., ricorrente nel giudizio a quo.
La parte privata svolge, in via preliminare, deduzioni adesive
alle tesi del giudice a quo, traendone la conclusione che – alla luce
della ricostruzione operata dalla giurisprudenza costituzionale a
partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 – le disposizioni
censurate violerebbero, in effetti, l’art. 117, primo comma, Cost.,
stante la configurabilita’ delle disposizioni della CEDU come «norme
interposte» rispetto a tale parametro.
La difesa della parte privata pone, nondimeno, l’accento su due
rilevanti elementi di novita’, intervenuti successivamente
all’ordinanza di rimessione.
Il primo e’ costituito dall’entrata in vigore – avvenuta il 1°
dicembre 2009 – del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007,
ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n. 130: Trattato
che, imprimendo una diversa configurazione al rapporto tra le norme
della CEDU e l’ordinamento interno, avrebbe reso non piu’ attuale la
concezione delle «norme interposte».
Il vigente art. 6 del Trattato sull’Unione europea – quale
risultante a seguito delle modifiche apportate dal Trattato di
Lisbona – stabilisce, infatti, al paragrafo 1, che «l’Unione
riconosce i diritti, le liberta’ e i principi sanciti nella Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000,
adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore
giuridico dei trattati»; precisando, poi, che «i diritti, le liberta’
e i principi della Carta sono interpretati in conformita’ delle
disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la
sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le
spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti
di tali disposizioni». Inoltre, ai successivi paragrafi 2 e 3, lo
stesso art. 6 prevede che «l’Unione europea aderisce alla Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’
fondamentali»; e che «i diritti fondamentali», garantiti da detta
Convenzione «e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli
Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi
generali».
Secondo la parte privata, alla luce di tali previsioni,
indipendentemente dalla formale adesione alla CEDU da parte
dell’Unione europea – non ancora avvenuta, ma comunque preannunciata
– i diritti elencati dalla Convenzione sarebbero stati ricondotti
all’interno delle fonti dell’Unione addirittura sotto un duplice
profilo. Da un lato, cioe’, in via diretta e immediata, tramite il
loro riconoscimento come «principi generali del diritto dell’Unione»;
dall’altro lato, in via mediata, ma non meno rilevante, come
conseguenza della «trattatizzazione» della Carta di Nizza.
L’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea – contenuto nel titolo VII, cui lo stesso art. 6 del Trattato
fa espresso rinvio – prevede, infatti, che ove la Carta «contenga
diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’
fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a
quelli conferiti dalla suddetta Convenzione»: fermo restando che tale
disposizione «non preclude che il diritto dell’Unione conceda una
protezione piu’ estesa».
Di conseguenza, tutti i diritti previsti dalla CEDU che trovino
un «corrispondente» all’interno della Carta di Nizza dovrebbero
ritenersi «tutelati (anche) a livello comunitario (rectius, europeo,
stante l’abolizione della divisione in "pilastri"), quali diritti
sanciti […] dal Trattato dell’Unione». Cio’ avverrebbe anche per il
diritto alla pubblicita’ delle procedure giudiziarie, che trova
riconoscimento nell’art. 47 della Carta in termini identici, anche
sul piano testuale, a quelli dell’art. 6 della Convenzione («ogni
persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata […]
pubblicamente»).
A fronte di cio’, il giudice comune sarebbe tenuto quindi a
disapplicare qualsiasi norma nazionale in contrasto con i diritti
fondamentali sanciti dalla CEDU, in base al principio, fondato
sull’art. 11 Cost., secondo cui «le norme di diritto comunitario sono
direttamente operanti nell’ordinamento interno».
L’altro elemento di novita’ e’ costituito dalla sentenza di
questa Corte n. 93 del 2010, con la quale e’ stata dichiarata
l’illegittimita’ costituzionale, in riferimento al parametro evocato
dall’odierno rimettente, dell’art. 4 della legge n. 1423 del 1956 e
dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, «nella parte in cui non
consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per
l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al
tribunale e alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica».
La parte privata rimarca, peraltro, come l’odierna questione di
costituzionalita’ sia piu’ ampia di quella decisa con la citata
pronuncia, attenendo al rispetto del diritto alla pubblicita’ delle
udienze non soltanto nei gradi di merito, ma anche nel giudizio
davanti alla Corte di cassazione.
Circoscrivere la declaratoria di illegittimita’ costituzionale ai
soli gradi di merito equivarrebbe, in effetti, a creare «pericolosi
vuoti di tutela» in tutti quei casi in cui non siano previsti
«meccanismi correttivi che consentano di recuperare, ora per allora,
la pubblicita’, dapprima negata o semplicemente non richiesta,
sollevando la questione per la prima volta solo dinanzi alla Corte di
cassazione». In ogni caso, una volta che si affidi la scelta del rito
alla parte, non si vedrebbe perche’ la pubblicita’ dell’udienza possa
essere richiesta solo nei gradi di merito e non, anche per la prima
volta, davanti alla Corte di cassazione.
La parte privata chiede, pertanto, che la Corte dichiari
l’illegittimita’ costituzionale dell’art. 4 della legge n. 1423 del
1956 e, conseguentemente, dell’art. 611 cod. proc. pen., nella parte
in cui prevedono che il giudizio di legittimita’ che abbia ad oggetto
misure di prevenzione debba svolgersi in camera di consiglio «non
partecipata», sia quando l’interessato abbia fatto espressa istanza
di trattazione in udienza pubblica dinanzi ai giudici di merito, sia
quando analoga richiesta sia stata presentata per la prima volta
dinanzi al giudice di legittimita’.
La parte privata chiede, altresi’, che la Corte dichiari, in via
conseguenziale, l’illegittimita’ costituzionale dell’art. 4, sesto e
decimo comma, della legge n. 1423 del 1956 e dell’art. 2-ter, secondo
comma, della legge n. 575 del 1965, nella parte in cui prevedono che
il provvedimento conclusivo dei giudizi di primo grado e di appello
venga adottato nella forma del decreto motivato, e non della
sentenza, anche qualora su istanza dell’interessato il procedimento
si sia svolto in pubblica udienza; nonche’ l’illegittimita’
costituzionale dell’art. 4, decimo e undicesimo comma, della legge n.
1423 del 1956 e dell’art. 3-ter della legge n. 575 del 1965, nella
parte in cui stabiliscono che, anche quando il procedimento di merito
si e’ svolto in pubblica udienza, il termine per proporre appello e
ricorso per cassazione e’ di soli dieci giorni. L’opzione
dell’interessato per un accertamento in udienza pubblica «con i
crismi propri del giudizio di cognizione» non potrebbe, infatti, non
incidere anche sulla forma dell’atto terminativo del giudizio – male
adattandosi a tale tipo di accertamento la forma del decreto – oltre
che sul termine per proporre impugnazione contro il medesimo.

Considerato in diritto

1. – La Corte di cassazione, seconda Sezione penale, dubita della
legittimita’ costituzionale, in riferimento all’art. 117, primo
comma, della Costituzione, dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956,
n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose
per la sicurezza e per la pubblica moralita’) e dell’art. 2-ter della
legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni
criminali di tipo mafioso, anche straniere), nella parte in cui «non
consentono che, a richiesta di parte, il procedimento in materia di
misure di prevenzione si svolga in udienza pubblica».
Il giudice a quo pone a base delle proprie censure l’affermazione
della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo la quale, ai fini
del rispetto del principio di pubblicita’ delle procedure
giudiziarie, sancito dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali,
le persone coinvolte nei procedimenti per l’applicazione di misure di
prevenzione debbono vedersi «almeno offrire la possibilita’ di
sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate
dei tribunali e delle corti d’appello» (sentenza 13 novembre 2007,
Bocellari e Rizza contro Italia).
La Corte rimettente rileva, altresi’, che, secondo la piu’
recente giurisprudenza costituzionale, le norme della CEDU,
nell’interpretazione loro attribuita dalla Corte di Strasburgo,
costituiscono «norme interposte» ai fini della verifica del rispetto
dell’art. 117, primo comma, Cost.: con la conseguenza che, ove il
giudice ravvisi un contrasto, non componibile per via di
interpretazione, tra una norma interna e una norma della Convenzione,
egli non puo’ disapplicare la norma interna, ma deve sottoporla a
scrutinio di costituzionalita’ in rapporto al parametro dianzi
indicato.
Nella specie, non sarebbe possibile interpretare le norme
censurate in senso conforme alla Convenzione, stante l’univocita’ del
dato testuale, a fronte del quale il procedimento per l’applicazione
delle misure di prevenzione si svolge, in tutti i suoi gradi, in
camera di consiglio (e, dunque, senza la presenza del pubblico); ne’
sussisterebbero i presupposti per l’estensione analogica alla
fattispecie considerata dell’art. 441, comma 3, del codice di
procedura penale, in tema di giudizio abbreviato.
Sarebbe, dunque, inevitabile la conclusione che le norme
denunciate violano l’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui
non accordano all’interessato la garanzia «minimale» richiesta dalla
Corte europea, ossia la facolta’ di chiedere che il procedimento si
svolga in udienza pubblica.
Detta facolta’ andrebbe riconosciuta, peraltro, non soltanto in
relazione ai giudizi di merito, ma anche con riguardo al giudizio di
cassazione, senza che rilevi, in senso contrario, la circostanza che
di quest’ultimo non venga fatta menzione nella citata sentenza della
Corte europea. Se pure e’ vero, infatti, che la Corte di Strasburgo
ha affermato in piu’ occasioni che il diritto a un’udienza pubblica
puo’ essere escluso quando debbano trattarsi esclusivamente questioni
di diritto, essa ha, tuttavia, anche precisato che l’assenza
dell’udienza pubblica, nei gradi successivi al primo, puo’
giustificarsi solo se in primo grado la pubblicita’ sia stata
garantita.
D’altro canto, una volta che la scelta del rito venga affidata
alla parte, non si vedrebbe perche’ la relativa opzione possa essere
effettuata solo «in limine», e non «anche in successivi gradi di
giudizio».
2. – Posteriormente all’ordinanza di rimessione, questa Corte,
con la sentenza n. 93 del 2010, ha dichiarato costituzionalmente
illegittime le norme sottoposte a scrutinio, per violazione del
medesimo parametro evocato dall’odierno rimettente, «nella parte in
cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento
per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al
tribunale e alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica»
(giudizi, quelli davanti al tribunale e alla corte d’appello, ai
quali le censure formulate nell’occasione dal giudice a quo dovevano
ritenersi circoscritte).
Nella circostanza, questa Corte ha anzitutto ricordato – e giova
qui ribadirlo, in rapporto a quanto piu’ avanti si osservera’ – come,
a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la giurisprudenza
costituzionale sia costante nel ritenere che le norme della CEDU –
nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e
applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrino,
quali «norme interposte», il parametro costituzionale espresso
dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la
conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli
«obblighi internazionali» (sentenze n. 317 e n. 311 del 2009, n. 39
del 2008). In questa prospettiva, ove si profili un eventuale
contrasto fra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice
comune deve verificare anzitutto la praticabilita’ di una
interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione,
avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e, ove
tale verifica dia esito negativo – non potendo a cio’ rimediare
tramite la semplice non applicazione della norma interna contrastante
– egli deve denunciare la rilevata incompatibilita’, proponendo
questione di legittimita’ costituzionale in riferimento all’indicato
parametro. A sua volta, la Corte costituzionale, investita dello
scrutinio, pur non potendo sindacare l’interpretazione della CEDU
data dalla Corte europea, resta legittimata a verificare se, cosi’
interpretata, la norma della Convenzione – la quale si colloca pur
sempre a un livello sub-costituzionale – si ponga eventualmente in
conflitto con altre norme della Costituzione: «ipotesi eccezionale
nella quale dovra’ essere esclusa la idoneita’ della norma
convenzionale a integrare il parametro considerato».
Su tale premessa, questa Corte ha quindi rilevato come il sesto e
il decimo comma dell’art. 4 della legge n. 1423 del 1956 – con
disposizioni valevoli anche in rapporto alle misure patrimoniali
antimafia previste dall’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 (il
cui primo comma richiama il procedimento regolato dalla legge del
1956) – stabiliscano specificamente che il giudizio per
l’applicazione delle misure di prevenzione si svolge, sia in primo
grado che nel giudizio di impugnazione davanti alla corte d’appello,
«in camera di consiglio»: percio’, «senza la presenza del pubblico»,
secondo il generale disposto, in tema di procedura camerale,
dell’art. 127, comma 6, cod. proc. pen.
Si e’ rilevato, altresi’, come tale assetto normativo sia stato
in piu’ occasioni censurato dalla Corte di Strasburgo, per contrasto
con il principio di pubblicita’ dei procedimenti giudiziari sancito
dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, in forza del quale «ogni
persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata […]
pubblicamente […] da un tribunale indipendente e imparziale,
costituito per legge» (sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza
contro Italia, cui hanno fatto seguito, in senso conforme, le
sentenze 8 luglio 2008, Perre e altri contro Italia; 5 gennaio 2010,
Bongiorno contro Italia, e 2 febbraio 2010, Leone contro Italia). La
Corte europea ha ribadito, al riguardo, che la pubblicita’ delle
procedure giudiziarie tutela le persone soggette a una giurisdizione
contro una giustizia segreta, che sfugge al controllo del pubblico, e
costituisce anche uno strumento per preservare la fiducia nei
giudici, concorrendo con cio’ all’attuazione dello scopo dell’art. 6
della Convenzione: ossia l’equo processo. Come attestano le eccezioni
previste dalla seconda parte della norma, questa non impedisce, in
assoluto, alle autorita’ giudiziarie di derogare al principio di
pubblicita’: ma l’udienza a porte chiuse, per tutta o parte della sua
durata, deve essere comunque «strettamente imposta dalle circostanze
della causa». Alcune circostanze eccezionali, attinenti alla natura
delle questioni da trattare – quale, ad esempio, il carattere
«altamente tecnico» del contenzioso – possono giustificare, in
effetti, che si faccia a meno di un’udienza pubblica: ma nella
maggior parte dei casi in cui la giurisprudenza della Corte di
Strasburgo e’ pervenuta a tale conclusione in rapporto a procedimenti
davanti ad autorita’ giudiziarie «civili» chiamate a decidere nel
merito, il ricorrente aveva avuto, comunque, la possibilita’ di
chiedere che la causa fosse trattata in udienza pubblica. La
situazione e’ diversa, per contro, quando, sia in primo grado che in
appello, una procedura «sul merito» si svolge a porte chiuse in
virtu’ di una norma generale e assoluta, senza che la persona
soggetta a giurisdizione fruisca dell’anzidetta facolta’: non potendo
una simile procedura considerarsi conforme all’art. 6, paragrafo 1,
della Convenzione.
Con riguardo alla fattispecie in discussione, la Corte di
Strasburgo – in replica ai rilievi svolti dal Governo italiano – non
ha contestato che il procedimento per l’applicazione delle misure di
prevenzione (e, in particolare, delle misure patrimoniali) possa
presentare un elevato grado di tecnicismo, in quanto tendente al
«controllo delle finanze e dei movimenti di capitali»; ovvero che
possa coinvolgere «interessi superiori, quali la protezione della
vita privata di minori o di terze persone indirettamente interessate
dal controllo finanziario». Cio’ non consente, tuttavia, di
trascurare l’entita’ della «posta in gioco» nelle procedure stesse,
le quali incidono in modo diretto e significativo sulla situazione
personale e patrimoniale della persona soggetta a giurisdizione: il
che induce a dover reputare essenziale, ai fini della realizzazione
della garanzia prefigurata dalla norma convenzionale, «che le persone
[…] coinvolte in un procedimento di applicazione delle misure di
prevenzione si vedano almeno offrire la possibilita’ di sollecitare
una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali
e delle corti d’appello».
A fronte di tali indicazioni, questa Corte ha quindi concluso che
le norme censurate violavano, in parte qua, l’art. 117, primo comma,
Cost., dovendo senz’altro escludersi che la norma convenzionale, come
interpretata dalla Corte europea, «contrasti con le conferenti tutele
offerte dalla nostra Costituzione». Per consolidata giurisprudenza
della Corte, infatti, pure in assenza di un esplicito richiamo in
Costituzione, «la pubblicita’ del giudizio, specie di quello penale,
costituisce principio connaturato ad un ordinamento democratico
fondato sulla sovranita’ popolare, cui deve conformarsi
l’amministrazione della giustizia, la quale – in forza dell’art. 101,
primo comma, Cost. – trova in quella sovranita’ la sua
legittimazione» (ex plurimis, sentenze n. 373 del 1992, n. 69 del
1991 e n. 50 del 1989). D’altra parte, pur dovendosi anche precisare
che il principio in questione «non ha valore assoluto, potendo cedere
in presenza di particolari ragioni giustificative», cio’ tuttavia si
giustifica solo quando le stesse risultino «obiettive e razionali»
(sentenza n. 212 del 1986), e, nel caso del dibattimento penale,
«collegate ad esigenze di tutela di beni a rilevanza costituzionale»
(sentenza n. 12 del 1971).
Questa Corte ha anche escluso la praticabilita’ di una
interpretazione conforme alla Convenzione delle norme censurate,
basata, in specie, sull’applicazione analogica dell’art. 441, comma
3, cod. proc. pen., in forza del quale il giudizio abbreviato –
normalmente trattato in camera di consiglio – si svolge in udienza
pubblica se tutti gli imputati ne fanno richiesta. Difettano,
infatti, «le condizioni legittimanti tale operazione ermeneutica, sia
perche’ il ricorso all’analogia presuppone il riconoscimento di un
vuoto normativo, qui non ravvisabile in presenza di una specifica
disposizione contraria» (art. 127, comma 6, cod. proc. pen.); «sia a
fronte delle marcate differenze strutturali e funzionali dei
procedimenti in questione (giudizio abbreviato e procedimento di
prevenzione)».
3. – La pronuncia di illegittimita’ costituzionale ora ricordata
non e’, peraltro, integralmente satisfattiva delle richieste
dell’odierno rimettente. Il quesito di costituzionalita’ oggi
sottoposto al vaglio della Corte e’, difatti, piu’ ampio della
questione decisa con la sentenza n. 93 del 2010, anche se la
comprende, attenendo inequivocamente a tutti i gradi di giudizio in
materia di misure di prevenzione: non solo, cioe’, ai giudizi di
merito, ma anche a quello di legittimita’.
Ai fini della decisione, si rende pertanto necessario scindere
l’una doglianza dall’altra.
Quanto alla questione concernente il difetto di pubblicita’ delle
udienze di prevenzione nei gradi di merito, la stessa e’
inammissibile per sopravvenuta mancanza di oggetto. La norma per
questo verso censurata – vale a dire, quella che non consente agli
interessati di chiedere che, davanti ai tribunali e alle corti
d’appello, il procedimento di prevenzione si svolga in forma pubblica
– e’ gia’ stata, infatti, rimossa dall’ordinamento dalla ricordata
declaratoria di illegittimita’ costituzionale con efficacia ex tunc
(ex plurimis, ordinanze n. 306 e n. 78 del 2010, n. 327 e n. 82 del
2009). Codesto profilo di inammissibilita’ e’ assorbente rispetto a
quello, pur riconoscibile, che deriva dal difetto di rilevanza della
questione nel giudizio a quo, non risultando dall’ordinanza di
rimessione che l’interessato, ricorrente per cassazione, abbia
formulato nei precedenti gradi di giudizio alcuna istanza di
trattazione in forma pubblica del procedimento.
4. – Con riferimento alla preclusione dello svolgimento in forma
pubblica del procedimento davanti alla Corte di cassazione, la
questione – non esaminata dalla citata sentenza n. 93 del 2010 –
risulta, per converso, senz’altro rilevante nel giudizio principale.
Essa condiziona, infatti, la decisione della Sezione rimettente sulla
richiesta di trattazione del ricorso per cassazione in udienza
pubblica, formulata dal ricorrente.
L’art. 4, undicesimo comma, della legge n. 1423 del 1956
stabilisce, in effetti, che anche il ricorso per cassazione in
materia di misure di prevenzione venga trattato «in camera di
consiglio». Tale previsione si salda col disposto dell’art. 611 cod.
proc. pen., in forza del quale la Corte di cassazione procede in
camera in consiglio – oltre che, per regola generale, «quando deve
decidere su ogni ricorso contro provvedimenti non emessi in
dibattimento, fatta eccezione delle sentenze pronunciate a norma
dell’articolo 442» – anche, e prima di tutto, «nei casi
particolarmente previsti dalla legge». In assenza di diversa
indicazione normativa, la trattazione dei ricorsi in materia di
misure di prevenzione ha luogo, d’altro canto, con la cosiddetta
procedura camerale «non partecipata», disciplinata dallo stesso art.
611 cod. proc. pen.: procedura che – in deroga al generale disposto
dell’art. 127 cod. proc. pen. – non contempla l’«intervento dei
difensori», basandosi su un contraddittorio esclusivamente scritto.
5. – Rispetto allo scrutinio del merito della questione, assume
tuttavia rilievo preliminare il problema – sottoposto specificamente
all’attenzione di questa Corte dalla parte privata – degli effetti
della sopravvenuta entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13
dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008,
n. 130, che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato
che istituisce la Comunita’ europea.
Secondo la parte privata, le innovazioni recate da detto Trattato
(entrato in vigore il 1° dicembre 2009) avrebbero comportato un
mutamento della collocazione delle disposizioni della CEDU nel
sistema delle fonti, tale da rendere ormai inattuale la ricordata
concezione delle «norme interposte». Alla luce del nuovo testo
dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea, dette disposizioni
sarebbero divenute, infatti, parte integrante del diritto
dell’Unione: con la conseguenza che – almeno in fattispecie quale
quella di cui al presente si discute – i giudici comuni (ivi
compreso, dunque, il giudice a quo) risulterebbero abilitati a non
applicare le norme interne ritenute incompatibili con le norme della
Convenzione, senza dover attivare il sindacato di costituzionalita’.
Varrebbe, infatti, al riguardo, la ricostruzione dei rapporti tra
diritto comunitario e diritto interno, quali sistemi distinti e
autonomi, operata dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte
sulla base del disposto dell’art. 11 Cost. (secondo cui l’Italia
«consente, in condizioni di parita’ con gli altri Stati, alle
limitazioni di sovranita’ necessarie ad un ordinamento che assicuri
la pace e la giustizia fra le Nazioni»). Alla stregua di tale
ricostruzione le norme derivanti da fonte comunitaria dovrebbero
ricevere diretta applicazione nell’ordinamento italiano, ma rimangono
estranee al sistema delle fonti interne e, se munite di effetto
diretto, precludono al giudice nazionale di applicare la normativa
interna con esse reputata incompatibile (ex plurimis, sentenze n. 125
del 2009, n. 168 del 1991 e n. 170 del 1984). Un effetto diretto non
potrebbe essere, d’altronde, negato alle norme della CEDU,
segnatamente allorche’ – come nell’ipotesi in esame – sia gia’
intervenuta una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo
che abbia riconosciuto una violazione da parte dell’Italia,
riconducibile a uno specifico difetto "strutturale" del sistema
normativo interno.
Benche’ la stessa parte privata, nel formulare le proprie
conclusioni, abbia poi insistito per la declaratoria di
illegittimita’ costituzionale delle norme censurate (e, in via
conseguenziale, anche di ulteriori disposizioni), appare evidente
che, ove la tesi ora ricordata fosse corretta, la questione dovrebbe
essere dichiarata inammissibile: essendo, quello denunciato, un
contrasto che spetterebbe ormai allo stesso giudice comune – e non
piu’ a questa Corte – accertare e dirimere (ex plurimis, in tema di
contrasto fra norme interne e norme comunitarie con effetto diretto,
sentenze n. 284 del 2007 e n. 170 del 1984). Donde, appunto, la
pregiudizialita’ del problema evidenziato dalla parte privata
rispetto all’analisi del merito del quesito.
5.1. – A tale proposito, occorre quindi ricordare come l’art. 6
del Trattato sull’Unione europea, nel testo in vigore sino al 30
novembre 2009, stabilisse, al paragrafo 2, che l’«Unione rispetta i
diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali
[…] e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli
Stati membri, in quanto principi del diritto comunitario».
In base a tale disposizione – che recepiva un indirizzo adottato
dalla Corte di giustizia fin dagli anni settanta dello scorso secolo
– tanto la CEDU quanto le «tradizioni costituzionali comuni» degli
Stati membri (fonti esterne all’ordinamento dell’Unione) non
assumevano rilievo come tali, ma in quanto da esse si traevano «i
principi generali del diritto comunitario» che l’Unione era tenuta a
rispettare. Sicche’, almeno dal punto di vista formale, la fonte
della tutela dei diritti fondamentali nell’ambito dell’Unione europea
era unica, risiedendo, per l’appunto, nei «principi generali del
diritto comunitario», mentre la CEDU e le «tradizioni costituzionali
comuni» svolgevano solo un ruolo "strumentale" all’individuazione di
quei principi.
Coerentemente questa Corte ha in modo specifico escluso che dalla
«qualificazione […] dei diritti fondamentali oggetto di
disposizioni della CEDU come principi generali del diritto
comunitario» – operata dapprima dalla Corte di giustizia, indi anche
dall’art. 6 del Trattato – potesse farsi discendere la riferibilita’
alla CEDU del parametro di cui all’art. 11 Cost. e, con essa, la
spettanza al giudice comune del potere-dovere di non applicare le
norme interne contrastanti con la Convenzione (sentenza n. 349 del
2007). L’affermazione per cui l’art. 11 Cost. non puo’ venire in
considerazione rispetto alla CEDU, «non essendo individuabile, con
riferimento alle specifiche norme convenzionali in esame, alcuna
limitazione della sovranita’ nazionale» (sentenza n. 188 del 1980,
gia’ richiamata dalla sentenza n. 349 del 2007 succitata), non poteva
ritenersi, infatti, messa in discussione da detta qualificazione per
un triplice ordine di ragioni.
In primo luogo, perche’ «il Consiglio d’Europa, cui afferiscono
il sistema di tutela dei diritti dell’uomo disciplinato dalla CEDU e
l’attivita’ interpretativa di quest’ultima da parte della Corte dei
diritti dell’uomo di Strasburgo, e’ una realta’ giuridica, funzionale
e istituzionale, distinta dalla Comunita’ europea creata con i
Trattati di Roma del 1957 e dall’Unione europea oggetto del Trattato
di Maastricht del 1992» (sentenza n. 349 del 2007).
In secondo luogo, perche’, i «principi generali del diritto
comunitario di cui il giudice comunitario assicura il rispetto»,
ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri
e alla CEDU, «rilevano esclusivamente rispetto a fattispecie alle
quali tale diritto sia applicabile: in primis gli atti comunitari,
poi gli atti nazionali di attuazione di normative comunitarie, infine
le deroghe nazionali a norme comunitarie asseritamente giustificate
dal rispetto dei diritti fondamentali (sentenza 18 giugno 1991,
C-260/89, ERT)»; avendo «la Corte di giustizia […] precisato che
non ha tale competenza nei confronti di normative che non entrano nel
campo di applicazione del diritto comunitario (sentenza 4 ottobre
1991, C-159/09, Society for the Protection of Unborn Children
Ireland; sentenza 29 maggio 1998, C-299/05, Kremzow)».
In terzo luogo e da ultimo, perche’ «il rapporto tra la CEDU e
gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, non essendovi in questa
materia una competenza comune attribuita alle (ne’ esercitata dalle)
istituzioni comunitarie, e’ un rapporto variamente ma saldamente
disciplinato da ciascun ordinamento nazionale» (sentenza n. 349 del
2007).
5.2. – L’art. 6 del Trattato sull’Unione europea e’ stato,
peraltro, incisivamente modificato dal Trattato di Lisbona, in una
inequivoca prospettiva di rafforzamento dei meccanismi di protezione
dei diritti fondamentali.
Il nuovo art. 6 esordisce, infatti, al paragrafo 1, stabilendo
che l’«Unione riconosce i diritti, le liberta’ e i principi sanciti
nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7
dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo
stesso valore giuridico dei trattati». La norma prosegue – per quanto
ora interessa – prevedendo, al paragrafo 2, che «l’Unione aderisce
alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle liberta’ fondamentali»; per chiudersi, al paragrafo 3, con la
statuizione in forza della quale «i diritti fondamentali, garantiti
dalla Convenzione […] e risultanti dalle tradizioni costituzionali
comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in
quanto principi generali».
Alla luce della nuova norma, dunque, la tutela dei diritti
fondamentali nell’ambito dell’Unione europea deriva (o derivera’) da
tre fonti distinte: in primo luogo, dalla Carta dei diritti
fondamentali (cosiddetta Carta di Nizza), che l’Unione «riconosce» e
che «ha lo stesso valore giuridico dei trattati»; in secondo luogo,
dalla CEDU, come conseguenza dell’adesione ad essa dell’Unione;
infine, dai «principi generali», che – secondo lo schema del
previgente art. 6, paragrafo 2, del Trattato – comprendono i diritti
sanciti dalla stessa CEDU e quelli risultanti dalle tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri.
Si tratta, dunque, di un sistema di protezione assai piu’
complesso e articolato del precedente, nel quale ciascuna delle
componenti e’ chiamata ad assolvere a una propria funzione. Il
riconoscimento alla Carta di Nizza di un valore giuridico uguale a
quello dei Trattati mira, in specie, a migliorare la tutela dei
diritti fondamentali nell’ambito del sistema dell’Unione, ancorandola
a un testo scritto, preciso e articolato.
Sebbene la Carta «riafferm[i]», come si legge nel quinto punto
del relativo preambolo, i diritti derivanti (anche e proprio) dalle
tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e dalla CEDU, il
mantenimento di un autonomo richiamo ai «principi generali» e,
indirettamente, a dette tradizioni costituzionali comuni e alla CEDU,
si giustifica – oltre che a fronte dell’incompleta accettazione della
Carta da parte di alcuni degli Stati membri (si veda, in particolare,
il Protocollo al Trattato di Lisbona sull’applicazione della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea alla Polonia e al Regno
Unito) – anche al fine di garantire un certo grado di elasticita’ al
sistema. Si tratta, cioe’, di evitare che la Carta "cristallizzi" i
diritti fondamentali, impedendo alla Corte di giustizia di
individuarne di nuovi, in rapporto all’evoluzione delle fonti
indirettamente richiamate.
A sua volta, la prevista adesione dell’Unione europea alla CEDU
rafforza la protezione dei diritti umani, autorizzando l’Unione, in
quanto tale, a sottoporsi a un sistema internazionale di controllo in
ordine al rispetto di tali diritti.
5.3. – Con riferimento a fattispecie quali quella che al presente
viene in rilievo, da nessuna delle predette fonti di tutela e’,
peraltro, possibile ricavare la soluzione prospettata dalla parte
privata.
Nessun argomento in tale direzione puo’ essere tratto, anzitutto,
dalla prevista adesione dell’Unione europea alla CEDU, per
l’assorbente ragione che l’adesione non e’ ancora avvenuta.
A prescindere da ogni altro possibile rilievo, la statuizione del
paragrafo 2 del nuovo art. 6 del Trattato resta, dunque, allo stato,
ancora improduttiva di effetti. La puntuale identificazione di essi
dipendera’ ovviamente dalle specifiche modalita’ con cui l’adesione
stessa verra’ realizzata.
5.4. – Quanto, poi, al richiamo alla CEDU contenuto nel paragrafo
3 del medesimo art. 6 – secondo cui i diritti fondamentali garantiti
dalla Convenzione «e risultanti dalle tradizioni costituzionali
comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell’Unione in
quanto principi generali» – si tratta di una disposizione che
riprende, come gia’ accennato, lo schema del previgente paragrafo 2
dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea: evocando, con cio’, una
forma di protezione preesistente al Trattato di Lisbona.
Restano, quindi, tuttora valide le considerazioni svolte da
questa Corte in rapporto alla disciplina anteriore, riguardo
all’impossibilita’, nelle materie cui non sia applicabile il diritto
dell’Unione (come nel caso sottoposto a questa Corte), di far
derivare la riferibilita’ alla CEDU dell’art. 11 Cost. dalla
qualificazione dei diritti fondamentali in essa riconosciuti come
«principi generali» del diritto comunitario (oggi, del diritto
dell’Unione). Le variazioni apportate al dettato normativo – e, in
particolare, la sostituzione della locuzione «rispetta» (presente nel
vecchio testo dell’art. 6 del Trattato) con l’espressione «fanno
parte» – non sono, in effetti, tali da intaccare la validita’ di tale
conclusione. Come sottolineato nella citata sentenza n. 349 del 2007,
difatti, gia’ la precedente giurisprudenza della Corte di giustizia –
che la statuizione in esame e’ volta a recepire – era costante nel
ritenere che i diritti fondamentali, enucleabili dalla CEDU e dalle
tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, facessero «parte
integrante» dei principi generali del diritto comunitario di cui il
giudice comunitario era chiamato a garantire il rispetto (ex
plurimis, sentenza 26 giugno 2007, C-305/05, Ordini avvocati contro
Consiglio, punto 29).
Rimane, percio’, tuttora valida la considerazione per cui i
principi in questione rilevano unicamente in rapporto alle
fattispecie cui il diritto comunitario (oggi, il diritto dell’Unione)
e’ applicabile, e non anche alle fattispecie regolate dalla sola
normativa nazionale.
5.5. – Quest’ultimo rilievo e’ riferibile, peraltro, anche alla
restante fonte di tutela: vale a dire la Carta dei diritti
fondamentali, la cui equiparazione ai Trattati avrebbe determinato,
secondo la parte privata, una «trattatizzazione» indiretta della
CEDU, alla luce della "clausola di equivalenza" che figura nell’art.
52, paragrafo 3, della Carta. In base a tale disposizione (compresa
nel titolo VII, cui l’art. 6, paragrafo 1, del Trattato fa espresso
rinvio ai fini dell’interpretazione dei diritti, delle liberta’ e dei
principi stabiliti dalla Carta), ove quest’ultima «contenga diritti
corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, il
significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti
dalla suddetta Convenzione» (ferma restando la possibilita’ «che il
diritto dell’Unione conceda una protezione piu’ estesa»). Di
conseguenza – sempre secondo la parte privata – i diritti previsti
dalla CEDU che trovino un «corrispondente» all’interno della Carta di
Nizza (quale, nella specie, il diritto alla pubblicita’ delle
udienze, enunciato dall’art. 47 della Carta in termini identici a
quelli dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione) dovrebbero
ritenersi ormai tutelati anche a livello di diritto dell’Unione
europea.
A prescindere da ogni ulteriore considerazione, occorre peraltro
osservare come – analogamente a quanto e’ avvenuto in rapporto alla
prefigurata adesione dell’Unione alla CEDU (art. 6, paragrafo 2,
secondo periodo, del Trattato sull’Unione europea; art. 2 del
Protocollo al Trattato di Lisbona relativo a detta adesione) – in
sede di modifica del Trattato si sia inteso evitare nel modo piu’
netto che l’attribuzione alla Carta di Nizza dello «stesso valore
giuridico dei trattati» abbia effetti sul riparto delle competenze
fra Stati membri e istituzioni dell’Unione.
L’art. 6, paragrafo 1, primo alinea, del Trattato stabilisce,
infatti, che «le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo
le competenze dell’Unione definite nei trattati». A tale previsione
fa eco la Dichiarazione n. 1 allegata al Trattato di Lisbona, ove si
ribadisce che «la Carta non estende l’ambito di applicazione del
diritto dell’Unione al di la’ delle competenze dell’Unione, ne’
introduce competenze nuove o compiti nuovi dell’Unione, ne’ modifica
le competenze e i compiti definiti dai trattati».
I medesimi principi risultano, peraltro, gia’ espressamente
accolti dalla stessa Carta dei diritti, la quale, all’art. 51
(anch’esso compreso nel richiamato titolo VII), stabilisce, al
paragrafo 1, che «le disposizioni della presente Carta si applicano
alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del
principio di sussidiarieta’, come pure agli Stati membri
esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione»; recando,
altresi’, al paragrafo 2, una statuizione identica a quella della
ricordata Dichiarazione n. 1.
Cio’ esclude, con ogni evidenza, che la Carta costituisca uno
strumento di tutela dei diritti fondamentali oltre le competenze
dell’Unione europea, come, del resto, ha reiteratamente affermato la
Corte di giustizia, sia prima (tra le piu’ recenti, ordinanza 17
marzo 2009, C-217/08, Mariano) che dopo l’entrata in vigore del
Trattato di Lisbona (sentenza 5 ottobre 2010, C-400/10 PPU, McB;
ordinanza 12 novembre 2010, C-399/10, Krasimir e altri).
Presupposto di applicabilita’ della Carta di Nizza e’, dunque,
che la fattispecie sottoposta all’esame del giudice sia disciplinata
dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti
e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto
dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro
per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto
dell’Unione – e non gia’ da sole norme nazionali prive di ogni legame
con tale diritto.
Nel caso di specie – attinente all’applicazione di misure
personali e patrimoniali ante o praeter delictum – detto presupposto
difetta: la stessa parte privata, del resto, non ha prospettato alcun
tipo di collegamento tra il thema decidendum del giudizio principale
e il diritto dell’Unione europea.
5.6. – Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve,
dunque, conclusivamente escludere che, in una fattispecie quale
quella oggetto del giudizio principale, il giudice possa ritenersi
abilitato a non applicare, omisso medio, le norme interne ritenute
incompatibili con l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, secondo quanto
ipotizzato dalla parte privata.
Restano, per converso, pienamente attuali i principi al riguardo
affermati da questa Corte a partire dalle sentenze n. 348 e 349 del
2007: principi, del resto, reiteratamente ribaditi dalla Corte stessa
anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (sentenze n. 1
del 2011; n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010), pure in rapporto alla
tematica oggetto dell’odierno scrutinio (sentenza n. 93 del 2010).
6. – Nel merito, la questione relativa al difetto di pubblicita’
del giudizio di cassazione in materia di misure di prevenzione non e’
fondata.
6.1. – Come gia’ rimarcato da questa Corte nella sentenza n. 93
del 2010 (punto 2 del Considerato in diritto) e come rilevato anche
dalla prevalente giurisprudenza di legittimita’, con la quale
l’odierna ordinanza di rimessione si pone consapevolmente in
contrasto, il principio affermato dalla Corte di Strasburgo nelle
decisioni poste a fondamento della censura di costituzionalita’ e’
riferito esclusivamente ai giudizi presso i tribunali e le corti
d’appello, senza che si faccia alcun riferimento al giudizio davanti
alla Corte di cassazione.
Contrariamente a quanto sostiene il Collegio rimettente, la
mancata menzione del giudizio di legittimita’ risulta particolarmente
significativa – nel senso di assumere una valenza ad excludendum –
ove si consideri che la Corte europea era chiamata a pronunciarsi su
procedimenti di prevenzione che avevano percorso tutti i gradi di
giudizio interno, ivi compreso quello di cassazione (cio’, stante il
presupposto di legittimazione dell’accesso alla Corte di Strasburgo,
rappresentato dall’esaurimento delle vie di ricorso interne: art. 35,
paragrafo 1, della CEDU). E se pure e’ vero che nel caso esaminato
dalla piu’ volte citata sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza
contro Italia, i ricorrenti si erano lamentati solo della mancata
pubblicita’ delle udienze nei gradi di merito, analoga limitazione
delle censure non si riscontra, invece, nei casi esaminati dalle
successive sentenze in materia (sentenza 8 luglio 2008, Perre e altri
contro Italia; sentenza 5 gennaio 2010, Bongiorno contro Italia;
sentenza 2 febbraio 2010, Leone contro Italia).
La soluzione limitativa adottata in rapporto alla fattispecie che
interessa riflette, d’altro canto, il generale orientamento della
Corte europea in tema di applicabilita’ del principio di pubblicita’
nei giudizi di impugnazione. Tale orientamento si esprime
segnatamente nell’affermazione per cui, al fine della verifica del
rispetto del principio di pubblicita’, occorre guardare alla
procedura giudiziaria nazionale nel suo complesso: sicche’, a
condizione che una pubblica udienza sia stata tenuta in prima
istanza, l’assenza di analoga udienza in secondo o in terzo grado
puo’ bene trovare giustificazione nelle particolari caratteristiche
del giudizio di cui si tratta.
In specie, i giudizi di impugnazione dedicati esclusivamente alla
trattazione di questioni di diritto possono soddisfare i requisiti di
cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, nonostante la mancata
previsione di una pubblica udienza davanti alle corti di appello o
alla corte di cassazione (ex plurimis, sentenza 21 luglio 2009,
Seliwiak contro Polonia; Grande Camera, sentenza 18 ottobre 2006,
Hermi contro Italia; sentenza 8 febbraio 2005, Miller contro Svezia;
sentenza 25 luglio 2000, Tierce e altri contro San Marino; sentenza
27 marzo 1998, K.D.B. contro Paesi Bassi; sentenza 29 ottobre 1991,
Helmers contro Svezia; sentenza 26 maggio 1988, Ekbatani contro
Svezia). La valenza del controllo immediato del quisque de populo
sullo svolgimento delle attivita’ processuali, reso possibile dal
libero accesso all’aula di udienza – uno degli strumenti di garanzia
della correttezza dell’amministrazione della giustizia – si apprezza,
difatti, secondo un classico, risalente ed acquisito principio, in
modo specifico quando il giudice sia chiamato ad assumere prove,
specialmente orali-rappresentative, e comunque ad accertare o
ricostruire fatti; mentre si attenua grandemente allorche’ al giudice
competa soltanto risolvere questioni interpretative di disposizioni
normative.
Si deve, di conseguenza, ritenere che l’avvenuta introduzione nel
procedimento di prevenzione, per effetto della sentenza n. 93 del
2010 di questa Corte, del diritto degli interessati di chiedere la
pubblica udienza davanti ai tribunali (giudici di prima istanza) e
alle corti di appello (giudici di seconda istanza, ma competenti al
riesame anche delle questioni di fatto, se non addirittura essi
stessi all’assunzione o riassunzione di prove) e’ sufficiente a
garantire la conformita’ del nostro ordinamento alla CEDU, senza che
occorra estendere il suddetto diritto al giudizio davanti alla Corte
di cassazione.
6.2. – Al fine di contrastare tale conclusione, non giova la
tesi, sostenuta dalla parte privata nel corso della discussione
orale, secondo la quale, a seguito della legge 20 febbraio 2006, n.
46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di
inappellabilita’ delle sentenze di proscioglimento), che ha
modificato, in senso ampliativo, i motivi di ricorso per cassazione
legati alla mancata assunzione di prove decisive e, soprattutto, ai
vizi di motivazione (art. 606, comma 1, lettere d ed e, cod. proc.
pen.), il giudizio davanti alla Corte di cassazione non potrebbe piu’
essere considerato un giudizio di mera legittimita’.
Pure a prescindere dal rilievo circa la natura, tuttora
controversa, delle implicazioni dell’evocata riforma normativa,
l’assunto difensivo non e’ comunque pertinente nella specie, poiche’
nel procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione il
ricorso per cassazione e’ ammesso solo «per violazione di legge»
(art. 4, undicesimo comma, della legge n. 1423 del 1956, richiamato
dall’art. 3-ter, secondo comma, della legge n. 575 del 1965), il che
significa, per consolidata giurisprudenza, che la deducibilita’ del
vizio di motivazione resta circoscritta ai soli casi di motivazione
inesistente o meramente apparente, qualificabile come violazione
dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice di
appello dal nono comma del citato art. 4 della legge n. 1423 del
1956.
6.3. – Parimenti non condivisibile e’ l’ulteriore assunto del
Collegio rimettente e della parte privata, secondo il quale, una
volta che si affidi la scelta del rito alla parte, non si vedrebbe
perche’ la pubblicita’ dell’udienza possa essere richiesta solo nei
gradi di merito, e non – anche per la prima volta – nel giudizio di
legittimita’: cio’, tenuto conto anche dell’esigenza di prevedere
«meccanismi correttivi che consentano di recuperare, ora per allora,
la pubblicita’, dapprima negata o semplicemente non richiesta,
sollevando la questione per la prima volta solo dinanzi alla Corte di
cassazione».
In proposito, la Corte di Strasburgo ha avuto modo di affermare
che il principio, in forza del quale la pubblica udienza non e’
richiesta nei gradi di impugnazione destinati alla trattazione di
sole questioni di diritto (o concernenti comunque materie le cui
peculiarita’ meglio si attagliano a una trattazione scritta), vale
anche quando l’udienza pubblica non si e’ tenuta in prima istanza,
perche’ l’interessato vi ha rinunciato, esplicitamente o
implicitamente, omettendo di formulare la relativa richiesta.
Nell’interesse a una corretta amministrazione della giustizia, e’,
infatti, normalmente piu’ conveniente che un’udienza sia tenuta gia’
in prima istanza, piuttosto che solo davanti al giudice di
impugnazione (sentenza 8 febbraio 2005, Miller contro Svezia;
sentenza 12 novembre 2002, Dory contro Svezia; sentenza 12 novembre
2002, Lundevall contro Svezia; sentenza 12 novembre 2002, Salomonsson
contro Svezia). Cio’ contrasta, evidentemente, con l’ipotizzato
riconoscimento alla parte del diritto di stabilire, a suo arbitrio,
se far celebrare l’udienza pubblica in materia di prevenzione davanti
ai giudici di merito o a quello di legittimita’.
Quanto, poi, all’asserita esigenza di prevedere «meccanismi
correttivi» delle violazioni del principio di pubblicita’ consumatesi
nei gradi di merito, va anzitutto osservato che una simile violazione
non appare ravvisabile nel caso di specie. Come gia’ accennato,
infatti, non consta che la parte interessata abbia presentato alcuna
istanza di trattazione in forma pubblica del procedimento davanti al
Tribunale e alla Corte d’appello. Ne’ gioverebbe opporre che detta
istanza non avrebbe potuto essere utilmente formulata, dato che le
norme censurate prevedevano, all’epoca, che la procedura venisse
trattata in sede camerale, senza alcuna alternativa. E’ agevole
replicare, infatti, che l’interessato avrebbe potuto bene chiedere
l’udienza pubblica gia’ in sede di merito, eccependo, nel contempo,
l’illegittimita’ costituzionale delle norme stesse in parte qua,
cosi’ come e’ avvenuto – con ottenimento del risultato – nel
procedimento nel quale e’ stata sollevata la questione decisa con la
sentenza n. 93 del 2010. In termini analoghi si e’, del resto,
espressa la stessa Corte di cassazione, escludendo che la mancata
trattazione in udienza pubblica del procedimento di prevenzione nei
gradi di merito possa produrre alcuna conseguenza processuale, ove
gli interessati non abbiano mai richiesto, in quella sede, che il
giudizio venisse tenuto in forma pubblica (Cass., 22 gennaio 2009-23
aprile 2009, n. 17229; Cass., 18 novembre 2008-17 dicembre 2008, n.
46751).
Si deve aggiungere, peraltro, che ove pure nel giudizio a quo si
fosse realizzata la dedotta violazione dell’art. 6, paragrafo 1,
della CEDU, essa non verrebbe affatto rimossa per effetto della
trattazione in udienza pubblica del ricorso per cassazione. Anche a
tale riguardo, sono puntuali le indicazioni della giurisprudenza
della Corte di Strasburgo, la quale ha reiteratamente chiarito come
lo svolgimento pubblico di un giudizio di impugnazione che sia a
cognizione limitata – in particolare, perche’ il controllo del
giudice di grado superiore e’ circoscritto ai soli motivi di diritto
(come nel caso del giudizio di cassazione) – non basta a compensare
la mancanza di pubblicita’ del giudizio anteriore (sentenza 14
novembre 2000, Riepan contro Austria). Cio’, proprio perche’ sfuggono
all’esame del giudice di legittimita’ gli aspetti in rapporto ai
quali l’esigenza di pubblicita’ delle udienze e’ piu’ avvertita,
quali l’assunzione delle prove, l’esame dei fatti e l’apprezzamento
della proporzionalita’ tra fatto e sanzione (al riguardo, sentenza 10
febbraio 1983, Albert e Le Compte contro Belgio; sentenza 23 giugno
1981, Le Compte, Van Leuven e De Meyere contro Belgio; nonche’, piu’
di recente, Grande Camera, sentenza 11 luglio 2002, Göç contro
Turchia).
7. – Sulla base delle considerazioni svolte, la questione
sollevata va dunque dichiarata inammissibile, nella parte attinente
ai giudizi di merito, e infondata, nella parte relativa al giudizio
davanti alla Corte di cassazione.

Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

1) Dichiara inammissibile la questione di legittimita’
costituzionale dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423
(Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la
sicurezza e per la pubblica moralita’) e dell’art. 2-ter della legge
31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni
criminali di tipo mafioso, anche straniere), nella parte in cui non
consentono che, a richiesta di parte, il procedimento davanti al
tribunale e alla corte d’appello in materia di applicazione di misure
di prevenzione si svolga in udienza pubblica, sollevata, in
riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, dalla
Corte di cassazione con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) Dichiara non fondata la questione di legittimita’
costituzionale dell’art. 4 della legge n. 1423 del 1956 e dell’art.
2-ter della legge n. 575 del 1965, nella parte in cui non consentono
che, a richiesta di parte, il ricorso per cassazione in materia di
misure di prevenzione venga trattato in udienza pubblica, sollevata,
in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, dalla
Corte di cassazione con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2011.

Il Presidente: De Siervo

Il redattore: Frigo

Il cancelliere: Melatti

Depositata in cancelleria l’11 marzo 2011.

Il cancelliere: Melatti

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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