Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 09-06-2011) 08-08-2011, n. 31570

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza emessa il 5 luglio 2010, la Corte di Appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza emessa il 15.7.2009 dal Tribunale di Benevento, dichiarava l’estinzione del reato ascritto a B. V. per morte dell’imputato, e, ritenuto fondato in punto di pena l’appello degli altri imputati appellanti, ed in conformità alle richieste avanzate in ordine al trattamento sanzionatorio dal P.G. di udienza, rideterminava, riducendole, le pene inflitte in primo grado a B.A., P.L., D.M. G., G.A., Pa.An. e F.G., i quali, come precisato dalla Corte stessa, avevano formalmente rinunciato a tutti i motivi di appello, eccezion fatta per quelli relativi alla misura della pena. La Corte territoriale, in motivazione, considerava inammissibili i motivi di impugnazione oggetto di rinuncia, e tuttavia, quanto alla ritenuta colpevolezza, richiamava il compendio probatorio cui il primo giudice aveva ancorato il proprio convincimento circa la ritenuta responsabilità degli imputati, con particolare riferimento: 1) all’esito delle perquisizioni, ed al sequestro della droga; 2) al risultato del narcotest; 3) al contenuto delle conversazioni oggetto delle intercettazioni telefoniche; 4) a quanto acclarato dagli investigatori per diretta percezione in occasione di servizi di osservazione; 5) alle dichiarazioni rese dagli stessi imputati. La Corte di merito rilevava (pag. 8 della sentenza) che in qualche caso ( G., Pa. e F.) il primo giudice aveva determinato la pena in misura inferiore a quella legale, dando atto che, peraltro, non essendovi stata impugnazione del P.M., a tanto non poteva porsi rimedio. Quanto ai criteri seguiti per la dosimetria della pena, la Corte territoriale seguiva un percorso motivazionale che può sintetizzarsi come segue: a) dava atto del ruolo preminente svolto nell’illecita attività da B.A., di quello ricoperto subito dopo di lui dal P. e dal D.M., e di quello ricoperto dalla G. e dalla Pa., da ritenersi più marginale perchè subordinato ai rispettivi mariti; b) evidenziava che bisognava tener conto delle disposizioni della L. n. 251 del 2005, (c.d. "ex Cirielli") già in vigore all’epoca dei fatti oggetto dell’imputazione, nonchè della recidiva reiterata per gli imputati ai quali la stessa era stata contestata, non essendovi stato specifico motivo di appello sul punto relativo all’eventuale esclusione della recidiva stessa; c) faceva infine richiamo ai parametri cui all’art. 133 c.p..

Hanno proposto ricorso per cassazione B.A., P. L., D.M.G., G.A., Pa.An. e F.G..

All’udienza del 10 febbraio 2011 i ricorsi del B.A. e della G.A. venivano rinviati a nuovo ruolo per legittimo impedimento del loro comune difensore, con separazione delle relative posizioni, come da ordinanza riportata sul ruolo di udienza; venivano invece esaminati e decisi i ricorsi di P.L., D.M. G., Pa.An. e F.G. (risultando costoro in stato di detenzione).

All’odierna udienza, presente il difensore del B. avv. Massimo Pisani, è stata rigettata l’istanza di rinvio avanzata da detto difensore, in assenza di una causa di legittimo impedimento, essendo già stata precedentemente rinviata la trattazione dei ricorsi del B. e della G. – per impedimento del precedente difensore – e stante l’imminente scadenza dei termini di custodia cautelare (arresti domiciliari) per il B.A. (25 luglio 2011).

Le censure dedotte da B.A. e dalla G. possono sintetizzarsi come segue: 1) il B. – richiamando anche taluni precedenti della giurisprudenza di legittimità in tema di vizio motivazionale e di condizioni per l’applicabilità dell’art. 129 del codice di rito – denuncia vizio di motivazione in ordine alle valutazioni probatorie, sostenendo che la Corte distrettuale avrebbe omesso qualsiasi esame finalizzato a rilevare le condizioni idonee a legittimare un proscioglimento nel merito relativamente ai reati contestati (ivi compreso quello associativo), limitandosi ad un acritico richiamo ai verbali di perquisizione e sequestro di droga, alle conversazioni telefoniche intercettate ed alle prove testimoniali, sottovalutando invece del tutto le prove a discarico e la circostanza che al B. non sarebbe stata sequestrata alcuna sostanza stupefacente; il ricorrente denuncia altresì l’eccessività della pena, anche per il diniego delle attenuanti generiche, asseritamente ingiustificato; 2) la G. deduce vizio di motivazione, proponendo censure sostanzialmente analoghe a quelle formulate dal B., limitatamente al mancato proscioglimento in ordine ai reati alla stessa contestati.

Motivi della decisione

I ricorsi esaminati sono inammissibili per le ragioni di seguito indicate.

Gli imputati, aderendo alle conclusioni del PG di udienza nel giudizio di secondo grado, hanno in sostanza rinunciato a tutti i motivi diversi da quello relativo all’entità della pena, evidentemente sulla base di una diversa considerazione dei generali criteri direttivi fissati dall’art. 133 c.p.. Si tratta quindi di una rinuncia parziale, ritualmente formulata per come si rileva dal verbale della relativa udienza, ed alla cui ammissibilità non osta alcuna inderogabile ragione giuridica (cfr. Sez. 2, n. 9382 del 04/05/1979 – sia pure con riferimento al codice di rito abrogato – secondo cui come l’imputato ha diritto a rinunziare alla impugnazione proposta, allo stesso modo può rinunziare ad uno o più motivi).

L’inammissibilità dei ricorsi discende dunque dalla applicazione del combinato disposto di cui all’art. 589 c.p.p., e art. 597 c.p.p., comma 1: vale a dire dalla intervenuta rinuncia parziale ai motivi di impugnazione diversi da quelli relativi alla pena, correlata al principio di devolutività dell’appello.

La rinuncia ad uno o più motivi di appello circoscrive, invero, la cognizione del gravame ai soli capi o punti della decisione ai quali si riferiscono i residui motivi, di tal che l’imputato non può dolersi con il ricorso per cassazione dell’eventuale omessa motivazione in ordine ai motivi rinunciati. Se la rinuncia attiene ai motivi formulati in punto di responsabilità dall’appellante, è evidente che il giudice del gravame non è tenuto ad alcuna specifica motivazione in merito al mancato proscioglimento dell’imputato per taluna delle cause delineate dall’art. 129 c.p.p.; e ciò per due ragioni: per un verso, a causa dell’effetto devolutivo dell’appello, allorchè l’imputato abbia abdicato ai motivi di impugnazione, limitando il thema decidendum del giudizio di secondo grado alla sola misura della pena, la cognizione del giudice di appello è circoscritta esclusivamente ai motivi non rinunciati, concernenti proprio e soltanto il trattamento sanzionatorio; per altro verso, la rinuncia ai motivi di doglianza sulla responsabilità presuppone una pronuncia affermativa della colpevolezza dell’appellante e, per ciò stesso, l’inesistenza di eventuali cause di non punibilità ex art. 129 del codice di rito. Pur permanendo il potere-dovere del giudice di appello di applicare anche d’ufficio (sussistendone i presupposti, originari o sopravvenuti) la generale regola valutativa dettata dall’art. 129 c.p.p., le censure afferenti alla ipotizzata omessa applicazione di tale norma, formulate con il ricorso per cassazione, non possono risolversi, tuttavia, in una denuncia di omissione formale o di genericità del vaglio compiuto, senza indicare gli elementi concreti, idonei ad ipotizzare possibili soluzioni liberatorie ex art. 129 c.p.p. (v. Cass. Sez. 5, 18.5.2006 n. 19511, Birra, rv. 234407). Giova peraltro sottolineare, ad abundantiam, che, nella concreta fattispecie, la Corte distrettuale, come sopra ricordato, ha parimenti evidenziato il compendio probatorio cui il primo giudice aveva ancorato il convincimento della ritenuta colpevolezza, anche degli imputati B.A. e G.A..

Quanto alle doglianze concernenti l’entità della pena – relative quindi all’unico motivo non oggetto della rinuncia – dedotte dal B.A., peraltro con formulazioni generiche ed assertive (dunque, già di per sè con evidenti profili di inammissibilità), le stesse sono anche manifestamente infondate posto che la Corte territoriale, nel ridurre la pena inflitta dal primo giudice, ha dato adeguatamente conto del trattamento sanzionatorio adottato, evidenziando il ruolo svolto dall’imputato e richiamando i criteri indicati nell’art. 133 c.p. (cfr. pag. 8 dell’impugnata sentenza).

Alla declaratoria di inammissibilità segue, per legge, la condanna dei ricorrenti B.A. e G.A. al pagamento delle spese processuali, nonchè (trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile alla volontà, e quindi a colpa, dei ricorrenti: cfr.

Corte Costituzionale, sent. N. 186 del 7-13 giugno 2000) al versamento a favore della cassa delle ammende di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 1000,00 (mille) ciascuno.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento e, ciascuno, a quello della somma di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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