Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 13-07-2011) 09-08-2011, n. 31593 Dibattimento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 12/10/2010, la Corte di Appello di Firenze confermava la sentenza pronunciata in data 25/11/2009 con la quale il Tribunale di Lucca aveva ritenuto A.P. responsabile (in concorso con D. e F. giudicati separatamente) del delitto di rapina aggravata ai danni dell’agenzia di Viareggio della (OMISSIS).

2. Avverso la suddetta sentenza, l’imputato, con due separati ricorsi a mezzo dei due difensori, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi:

2.1. Violazione dell’art. 500 c.p.p.: sostiene il ricorrente che la Corte territoriale aveva ritenuto elemento di prova a suo carico il riconoscimento effettuato dalla teste B., incorrendo, però, in un duplice vizio:

a) innanzitutto, perchè aveva travisato la risultanza istruttoria avendo ritenuto che la teste lo avesse riconosciuto laddove la medesima aveva parlato solo di "vaga somiglianza";

b) in secondo luogo perchè "confermando di avere reso dichiarazioni nella fase delle indagini preliminari, la teste B. non ha affermato nè che quelle dichiarazioni fossero identiche, nè addirittura prevalenti rispetto al contenuto delle successiva deposizione dibattimentale".

Di conseguenza, poichè non si era verificata alcuna risoluzione del contrasto fra le dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari e nel dibattimento, la Corte Territoriale (e lo stesso tribunale) non avrebbe potuto utilizzare a carico di esso ricorrente le dichiarazioni rese in fase predibattimentale, ma solo ai fini di valutare l’attendibilità della teste.

2.2. Manifesta illogicità della motivazione per avere la Corte territoriale ritenuto elemento a carico la testimonianza del teste C. che aveva visto il terzo rapinatore e lo aveva descritto "con i capelli brizzolati" laddove esso ricorrente era calvo.

La Corte, sul punto, aveva travisato il suddetto dato fattuale fornendo una spiegazione illogica.

Inoltre, la motivazione era erronea avendo la Corte affermato che il cappellino ritrovato nell’abitazione dell’ A. fosse simile a quello indossato dal terzo rapinatore, non considerando che, in realtà, era diverso da quello osservato e descritto dai testimoni.

Infine, erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto di valenza neutra il traffico telefonico del cellulare del ricorrente:

al contrario, dall’esame del medesimo emergeva il dato obiettivo che esso ricorrente, alle ore 13 e alle ore 15 del 23/03/2009 (giorno della rapina avvenuta alle ore 15 circa) non era in compagnia dei due rapinatori, nè a Viareggio a compiere la rapina.

2.3. Violazione dell’art. 99 c.p., comma 5: sostiene il ricorrente che è irragionevole che la recidiva venga calcolata dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile e non dal fatto storico:

infatti, seguendo il suddetto criterio, la Corte territoriale aveva ritenuto la recidiva infraquinquennale malgrado la gran distanza dei fatti considerati.

La Corte territoriale, poi, aveva errato nel ritenere che l’aumento, per la recidiva ex art. 99 c.p., comma 5, dovesse essere pari a due terzi, laddove la norma prevede un aumento non inferiore ad un terzo.

2.4. Violazione art. 62 bis c.p. per avere la Corte territoriale negato la concessione delle attenuanti generiche sulla base di una motivazione tautologica limitandosi a constatare la presenza di precedenti e senza analizzare concretamente la personalità dell’imputato, il suo percorso, il tempo intercorso dalla pregressa detenzione all’ultimo reato commesso ed infine valutare la possibilità di un bilanciamento.

Motivi della decisione

1. Con i primi due motivi, il ricorrente, in pratica, cerca di sostenere che la motivazione con quale la Corte territoriale (e, prima ancora, il Tribunale) aveva ritenuto a suo carico una serie di indizi, tali non potevano essere considerati perchè mancavano delle caratteristiche di cui all’art. 192 c.p.p., avendo, anzi, la Corte, travisato gli esiti dell’istruttoria dibattimentale.

La censura va ritenuta infondata alla stregua delle considerazioni che seguono.

1.1. Riconoscimento B.: in punto di fatto, la Corte ha ricostruito la testimonianza della B. nei seguenti termini:

" (..) In dibattimento la testimone, esaminate le fotografie inserite nel fascicolo fotografico già visionato nel corso delle indagini e in cui, come emerso dalle contestazioni effettuate dal PM, aveva con sicurezza riconosciuto il D., come il primo rapinatore e, in modo meno sicuro, l’ A. come il terzo rapinatore, si mostrava inizialmente esitante, in ragione, come adduceva, del tempo trascorso dal fatto.

Ricevuta lettura delle dichiarazioni rese quando nella fase delle indagini, aveva effettuato, nei termini di cui si è detto, il riconoscimento dei rapinatori, la teste ricordava di averli individuati e anche il minor grado di certezza con cui aveva riconosciuto il terzo malvivente, così implicitamente confermando il riconoscimento fattone nella fase delle indagini.

Non possono, pertanto, condividersi le considerazioni svolte per sostenere che ricordare di avere reso delle dichiarazioni è cosa diversa dal confermare di averle rese, soprattutto se, come nel caso di specie, il dichiarante non smentisca le prime dichiarazioni, richiamate alla mente a seguito delle contestazioni del PM, nè introduca elementi correttivi".

In via di diritto, va osservato che ci si trova di fronte all’ipotesi prevista dall’art. 500 c.p.p. in quanto, a fronte dell’incertezza mostrata dalla teste nel riconoscere l’imputato, il P.m. utilizzò, per la contestazione, le dichiarazioni rese dalla teste la quale, nel corso delle indagini preliminari, sia pure con un grado di minore certezza rispetto al riconoscimento del D., aveva pur sempre riconosciuto anche l’odierno imputato.

Va premesso che, correttamente fu effettuata la contestazione atteso che, secondo la giurisprudenza di questa Corte che qui va ribadita, "nel corso dell’esame dibattimentale del testimone e delle parti private può procedersi alla contestazione delle dichiarazioni rese in precedenza tutte le volte in cui vi sia difformità con la dichiarazione dibattimentale, sia che con questa il soggetto sottoposto ad esame manifesti una conoscenza diversa, sia che riveli di non ricordare le vicende o i fatti su cui ha riferito in precedenza": Cass. 6221/2005 Rv. 233092.

Il problema che pone l’art. 500 c.p.p. (e la censura dedotta dal ricorrente) consiste, sostanzialmente, nello stabilire (salvo le tre eccezioni previste nei commi quarto, sesto e settimo) se e quale valore debba darsi alle precedenti dichiarazioni utilizzate per la contestazione e deriva dal fatto che l’atteggiamento del teste può essere vario in quanto:

– può limitarsi a confermare quanto precedentemente dichiarato o a rettificare quanto affermato in dibattimento, conformandosi, quindi, alle precedenti dichiarazioni: in tale ipotesi, poichè il teste ha confermato, nel dibattimento, quanto precedentemente dichiarato (magari rettificando le dichiarazioni dibattimentali), nessuno dubita che il giudice – salva sempre ovviamente la valutazione di attendibilità – debba tenere conto delle suddette dichiarazioni proprio perchè si tratta di dichiarazioni conformi sulle quali non vi è contrasto alcuno;

– può rendere dichiarazioni contrastanti con quelle rese precedentemente: in tal caso, il comma secondo dell’art. 500 c.p.p. stabilisce, a chiare lettere, che le dichiarazioni lette per la contestazione possono essere valutate solo ai fini della credibilità del teste;

– infine, il teste, spesso a causa del lungo periodo di tempo dopo il quale viene chiamato a deporre, in dibattimento dichiara di non ricordare il fatto o la circostanza su cui viene esaminato ma, una volta effettuata la contestazione, afferma che, se quella circostanza o fatto che non ricorda, l’ha dichiarata in sede di indagini, allora essa è vera.

Quest’ultima dichiarazione produce due effetti:

a) il teste afferma e certifica la veridicità di quanto precedentemente affermato;

b) di conseguenza, la suddetta dichiarazione, essendo stata effettuata in dibattimento, diviene pienamente utilizzabile, fatta salva, ovviamente, la prudente valutazione del giudice.

In altri termini, il giudice si trova di fronte ad una duplice affermazione del teste che, da una parte, dichiara che quello che ha affermato precedentemente è vero e, dall’altra, che, in quel momento, stante il tempo trascorso (o per altri motivi), non è in grado di ricordare il fatto su cui è stato esaminato.

In questa situazione di non contrasto fra le due dichiarazioni (il "non ricordo", infatti, ha una valenza neutra), non può trovare applicazione l’art. 500 c.p.p., comma 2 ma solo le regole generali in ordine alla valutazione dell’attendibilità del teste sulla dichiarazione precedente resa e dallo stesso teste veicolata nel dibattimento grazie al fatto che ha dichiarato che quello che dichiarò è vero.

Sulla base di quanto appena detto, la censura dedotta dal ricorrente, in via di stretto diritto, va, quindi, disattesa alla stregua del seguente principio di diritto: "nel corso dell’esame dibattimentale del testimone e delle parti private può procedersi alla contestazione delle dichiarazioni rese in precedenza tutte le volte in cui vi sia difformità con la dichiarazione dibattimentale, sia che con questa il soggetto sottoposto ad esame manifesti una conoscenza diversa, sia che riveli di non ricordare le vicende o i fatti su cui ha riferito in precedenza.

Nell’ipotesi in cui il teste dichiari di non ricordare il fatto o la circostanza su cui viene esaminato ma, una volta effettuata la contestazione, affermi che, se quella circostanza o fatto che non ricorda, l’ha dichiarata in sede di indagini, allora essa è vera, non si applica l’art. 500 c.p.p., comma 2 ma solo le regole generali in ordine alla valutazione dell’attendibilità del teste sulla dichiarazione precedente resa e dallo stesso teste veicolata nel dibattimento grazie al fatto che ha dichiarato che quello che dichiarò è vero".

Fatta questa premessa di diritto, la dedotta doglianza, deve, però, ritenersi infondata anche in concreto in considerazione della ricostruzione fattuale effettuata dalla Corte territoriale.

Infatti, la Corte territoriale ha chiarito che fra le dichiarazioni rese dalla teste B. precedentemente e quelle rese al dibattimento non vi era alcun contrasto per la semplice ragione che la teste aveva affermato, al dibattimento, stante il tempo trascorso, di non essere sicura di poter riconoscere l’imputato ma, aveva confermato di avere effettuato, durante le indagini, il riconoscimento dell’imputato, seppure con un grado di minore certezza rispetto al riconoscimento del D..

Ci si trova, quindi, di fronte all’ipotesi in ultimo presa in considerazione, sicchè, correttamente, la Corte territoriale ha ritenuto di utilizzare l’individuazione effettuata dalla B. non ostandovi alcun divieto dell’art. 500 c.p.p..

Peraltro, non può non osservarsi come tutta la questione sia stata sopravvalutata dal ricorrente.

Infatti, la Corte territoriale, ben conscia che su quel solo indizio (proprio perchè la teste si era espressa con incertezza), non poteva essere fondato il giudizio di colpevolezza, in realtà, ha fatto riferimento ad un quadro probatorio ben più pregnante, sicchè l’individuazione effettuata della B. ha finito per essere solo un ulteriore elemento di riscontro e di rinforzo ai restanti indizi.

1.2. Le fattezze del terzo rapinatore: la Corte territoriale, in ordine ai "capelli brizzolati" di cui sarebbe stato dotato il terzo rapinatore, ha così motivato: "nell’appello si adduce che il teste C. aveva riferito che il terzo rapinatore, da lui già visto vicino il furgone rosso, era brizzolato. A detto particolare non ha fatto minimamente cenno il C. nel corso della deposizione, che ha anzi dichiarato che l’uomo aveva un cappellino.

Dei capelli brizzolati si trova traccia solo in una nota del verbale di fermo.

Si tratta, dunque, di un particolare che la difesa non ha ritenuto di dover approfondire in dibattimento durante l’esame del teste, cui non è stata rivolta nessuna domanda sulla capigliatura del rapinatore.

Va, inoltre, considerato che nella foto inserita nel fascicolo in atti l’imputato appare più che completamente calvo, con il capo rasato, ne è dato sapere se la foto sia stata scattata e meno all’atto del fermo.

Non vi sono elementi di certezza in ordine all’aspetto somatico di cui si discute, suscettibile, se non dovute a radicale calvizie, di modificarsi anche in tempi brevi.

Non appare, pertanto, provato che l’imputato, al momento della rapina, fosse del tutto calvo o completamente rasato.

L’indicazione data dal C. sui capelli dell’ A., non approfondita in dibattimento, non può costituire elemento atto a svilire il riconoscimento fotografico effettuato dalla teste B., avvalorato dalla verificata attendibilità del riconoscimento del D. – reo confesso – fatto dalla stessa testimone".

Come si può, quindi, notare, si tratta di una motivazione di fatto che, in quanto non smentita da alcun dato fattuale contrario ed essendo logica e congrua, porta a ritenere la doglianza di mero merito e, quindi, non scrutinatale in questa sede di legittimità.

Infatti, tutta la censura da per dimostrato e provato proprio quel dato di fatto (ossia che il terzo rapinatore avesse i capelli brizzolati) che la Corte territoriale, invece, afferma non solo non essere stato provato ma, in ipotesi, anche poco significativo perchè ben avrebbe potuto l’imputato rasarsi la testa a zero subito dopo la rapina ("Non vi sono elementi di certezza in ordine all’aspetto somatico di cui si discute, suscettibile, se non dovute a radicale calvizie, di modificarsi anche in tempi brevi").

1.3. Il traffico telefonico: in ordine al suddetto elemento, al quale la difesa riconnette molta importanza, la Corte ha così motivato:

"nessuna indicazione contraria all’ipotesi di accusa può trarsi dai tabulati acquisiti nella fase delle indagini e prodotti dal PM all’udienza dei 20.11.09, da cui si desume solo che il cellulare del F., nell’arco di tempo in cui si è mosso da Livorno verso Viareggio è stato in stretto contatto con quello in uso ad Ac. S..

Il traffico telefonico sviluppato dal cellulare dell’imputato (utenza nr (OMISSIS)) non è stato oggetto di esame nel dibattimento.

Dai tabulati in atti emerge, peraltro, che il cellulare, alle 10.37.44 del 23.3.09, era a Firenze. In seguito, fino al 16.49.23, il telefono pare essere rimasto inattivo. Dai tabulati non è dato ricavare nessuna indicazione utile a localizzare il telefono dell’ A. tra le 10.37.44 e le 16.49.23 e la mancanza di contatti con il cellulare del F. – ripetutamente contattato, invece, dal telefono del fratello dell’imputato – costituisce elemento di ulteriore supporto all’accusa, trovando ragionevole spiegazione proprio nell’essersi l’ A. trovato in compagnia del nipote nelle ore in cui è avvenuto il sopralluogo ed è stata consumata la rapina".

Come si può notare, quindi, ancora una volta la Corte territoriale, con motivazione congrua, logica ed adeguata alle indicate risultanze fattuali, ha smentito la tesi difensiva.

In questa sede, il ricorrente ripropone la sua censura ma va replicato che la medesima non si fonda su pretesi vizi motivazionali (gli unici deducibili in questa sede) ma su un elemento di fatto che risulta smentito dalla sentenza e cioè che il telefono cellulare di Ac.St. (fratello dell’imputato) fosse in uso all’odierno ricorrente.

Nella sentenza impugnata, si da invece atto che il cellulare di Ac.St. era in uso a costui e che, quindi, le telefonate da costui effettuate al F. e la localizzazione del medesimo in luoghi e ore diversi da quelli in cui fu eseguita la rapina, erano del tutto irrilevanti.

In realtà, al di là dei singoli indizi che il ricorrente tenta di confutare (ricorrendo, peraltro, a surrettizie censure di pretese illogicità e/o contraddittorietà della motivazione che, in realtà, mascherano argomenti di merito con i quali si tenta una rivalutazione di quelle stesse doglianze già dedotte e disattese dalla Corte territoriale), la Corte ha ritenuto la responsabilità del prevenuto oltre che su oggettivi riscontri (riconoscimento B.; fattezze del rapinatore identiche a quelle dell’imputato per età e caratteristiche (portatore di occhiali da vista); ritrovamento nella sua abitazione di un cappellino tipo papalina identico a quello utilizzato dal rapinatore; l’autocarro utilizzato per la rapina era nella disponibilità dell’imputato il quale, alle ore 11,55 fu fermato dalla Polizia Municipale di Livorno alla guida del suddetto mezzo con a bordo i due coimputati; D. era giunto da Palermo la mattina della rapina ed era stato prelevato proprio dall’ A.) anche su argomenti di natura logica desunti dall’inverosimiglianza della versione resa dai complici (cfr pag. 6 sentenza impugnata).

In altri termini, a fronte di una motivazione con la quale la Corte territoriale, in modo ampio, congruo e logico alla stregua di puntuali elementi di natura fattuale e logica, ha ritenuto l’imputato responsabile del delitto ascrittogli, le censure dedotte devono ritenersi infondate in quanto la ricostruzione effettuata dalla Corte e la decisione alla quale è pervenuta deve ritenersi compatibile con il senso comune e con "i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento": infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di Cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune Cass. n. 47891/2004 rv 230568; Cass. 1004/1999 rv 215745;

Cass. 2436/1993 rv 196955.

Sul punto va, infatti ribadito che l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, dev’essere percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze:

ex plurimis SSUU 24/1999.

Va, infine, osservato che la motivazione della Corte è corretta perchè ha valutato i singoli indizi non isolatamente ma nel loro insieme, al contrario del procedimento utilizzato dal ricorrente che ha estrapolato ciascun singolo indizio per meglio confutarlo trascurando così il quadro d’insieme.

Sennonchè, sul punto, deve ribadirsi il consolidato principio di diritto secondo il quale la rilevanza dei singoli dati non può essere accertata estrapolandoli dal contesto in cui essi sono inseriti, ma devono essere posti a confronto con il complesso probatorio, dal momento che soltanto una valutazione globale e una visione di insieme permettono di verificare se essi rivestano realmente consistenza decisiva oppure se risultino inidonei a scuotere la compattezza logica dell’impianto argomentativo, dovendo intendersi, in quest’ultimo caso, implicitamente confutati.

2. Anche le doglianze in ordine al trattamento sanzionatorio sono infondate per le ragioni di seguito indicate.

2.1 Violazione dell’art. 99 c.p., comma 5: la sentenza impugnata non contiene alcun errore di diritto atteso che, quanto al dies a quo dal quale calcolare la recidiva infraquinquennale, la questione dedotta, nel caso di specie, è irrilevante.

Sul punto, infatti, va premesso che all’imputato è stata contestata la recidiva specifica (art. 99 c.p., comma 2, n. 1), infraquinquennale (art. 99 c.p., comma 2, n. 2) e reiterata (art. 99 c.p., comma 4).

Ora, la questione sollevata (e cioè della sussistenza della recidiva infraquinquennale e, quindi, della decorrenza del dies a quo) avrebbe avuto una indubbia rilevanza se all’imputato non fosse stata contestata la recidiva reiterata. Infatti, nel caso di recidiva semplice, tolta, eventualmente, la recidiva infraquinquennale, sarebbe venuto meno il presupposto giuridico previsto dall’art. 99, comma 3 (concorso fra più circostanza fra quelle indicate al comma 2: recidiva pluriaggravata) per l’aumento di pena fino alla metà.

All’imputato, invece, è stata contestata la recidiva reiterata e, quindi, il regime giuridico di riferimento è quello previsto all’art. 99 c.p., comma 5 che prevede un aumento di pena (obbligatorio) "nei casi indicati al comma 2" ossia nelle ipotesi di recidiva aggravata: il che significa (come desumibile dal fatto che non è stato richiamato il comma 3 che prevede la recidiva pluriaggravata) che, per l’aumento di pena, è sufficiente che all’imputato sia contestata la recidiva aggravata per la quale basta anche una sola delle circostanze indicate dal comma 2.

Ora, poichè nel caso di specie, all’imputato è stata contestata, appunto, la recidiva aggravata (ed esattamente la recidiva specifica ex art. 99 c.p., comma 2, n. 1), è del tutto irrilevante stabilire se debba essere considerata anche a recidiva infraquinquennale proprio perchè l’aumento di pena previsto dall’art. 99 c.p., comma 5 scatta obbligatoriamente anche in presenza di una sola delle circostanze indicate nel comma 2. 2.2. Quanto all’Aumento di pena, i giudici di merito hanno ritenuto, nella loro discrezionalità, di aumentarla, legittimamente, fino a due terzi, possibilità del tutto legale atteso che l’art. 99 c.p., comma 5 prevede un aumento minimo di un terzo ma non quello massimo che deve ritenersi essere quello di due terzi così come dispone il comma 4. 2.3. Quanto alla mancata concessione delle attenuanti generiche, la motivazione addotta sul punto dalla Corte territoriale è amplissima, congrua e coerente con gli evidenziati elementi fattuali, sicchè la censura non può che essere disattesa involgendo la discrezionalità che la legge concede al giudice di merito che, per quanto detto, deve ritenersi correttamente esercitata e, quindi, incensurabile in sede di legittimità. 3. In conclusione, l’impugnazione deve rigettarsi con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

RIGETTA il ricorso e CONDANNA il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *