Cass. pen., sez. Unite 28-11-2006 (26-09-2006), n. 39298 ATTI PROCESSUALI – TRADUZIONE DEGLI ATTI Indagini preliminari – Avviso di conclusione – Obbligo di traduzione per l’indagato alloglotta – Omissione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1 – Il 1° luglio 2004 il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Rossano ha condannato, con generiche e diminuente del rito abbreviato, C. A. a 12 anni di reclusione e W. H. e M. S., tutti di lingua polacca, ad anni 10 e mesi 8 ciascuno, per l’omicidio commesso il 3 aprile 2003 di S. R. Z..

La Corte d’assise di appello di Catanzaro ha confermato le condanne. In sentenza preliminarmente rigetta la denuncia di nullità di quella appellata, derivante da nullità della richiesta di proroga di indagini, dell’avviso di cui all’art. 415 bis c.p.p. e della richiesta di rin­vio a giudizio già eccepite, perché non tradotte in lingua polacca.

Condivide l’assunto del G.U.P. che, giusto l’art. 109 c.p.p., non è prevista la traduzione da parte di un interprete degli atti processuali dei quali l’imputato è destinatario, se non su richiesta, nella specie non formulata. Ed osserva che l’art. 143 c.p.p. stabilisce la nomina dell’interprete solo per consentire la comprensione dell’accusa ed il compimento degli atti ai quali l’imputato è chiamato a partecipare, ed ai tre indagati era stato nominato l’inter­prete per l’interrogatorio di garanzia. Aggiunge che nessun atto d’indagine risulta compiuto dal PM successivamente al provvedimento di proroga delle indagini. Inoltre ritiene irrile­vante la questione per quanto concerne W., espressosi nel corso del giudizio corretta­mente in lingua italiana. Conclude che, chiedendo di essere ammessi al rito abbreviato, gl’imputati hanno "sostanzialmente accettato la precorsa attività, nessuna esclusa, così sanando ogni eventuale viziò.

Nel merito ricostruisce che gl’imputati alloggiavano precariamente con S., in un fabbricato rurale. Ed erano in frequente dissidio con lui per le sue prevaricazioni. La se­ra del fatto avevano bevuto e S. era ubriaco ed aggressivo. Nel corso del litigio tut­ti lo colpivano ripetutamente con bottiglie e altri oggetti contundenti al viso, al cranio e agli arti superiori, cagionandogli lesioni che avrebbero potuto per se stesse produrre l’even­to mortale. Infine, trascinatone il corpo inerte senza soluzione di continuità, lo avvolgeva­no dentro un involucro di cellophane ben serrato, ponendosi sdraiati accanto a lui. Tal co­sa, secondo la perizia medico legale, ne cagionava la morte per asfissia. Ma l’unicità dell’a­zione, di cui «l’avvolgimento» nell’involucro è ultima frazione, dimostra la volontà omicida.

Ritiene perciò infondata la tesi secondo cui nel fatto sarebbe ravvisabile l’ipotesi di lesioni seguite da omicidio colposo, sulla scorta dell’argomento che l’avvolgimento del cor­po nel telo era dovuto alla volontà di occultare quello che si riteneva ormai un cadavere.

E tanto ribadisce, perché la morte del S. risulta esito finale di una serie cau­sale, comprensiva sia delle percosse che del soffocamento, e per l’evidente inidoneità del cellophane a nascondere alcunché e perciò ad occultare il (ritenuto) cadavere.

La sentenza, pur essendosi W. assunto esclusiva responsabilità, afferma il con­corso di tutti gli imputati che, sorpresi il mattino dopo nell’atto di fuggire per ferrovia, si sono contraddetti, perché: C. e M. hanno riportato lesioni, e sono state rinvenute tracce di sangue sui loro abiti, il che dimostra la loro partecipazione alla collutta­zione; la ferite della vittima sono riferibili a una pluralità di aggressori, gl’imputati avevano comune intento di sottrarsi alle angherie del S.; era materialmente impossibile l’avvolgimento del corpo da parte di una sola persona (per di più ubriaca).

2 – Contro la sentenza sono stati proposti distinti ricorsi.

C. e M. deducono ciascuno:

1° – nullità della richiesta di proroga del termine di indagini preliminari del 15.11.03, dell’avviso di conclusione delle indagini ex art. 415 bis c.p.p., e della richiesta di rinvio a giu­dizio del 3.3.04, per mancata traduzione di tali atti in lingua polacca (non comprendendo essi l’italiano), eccezione proponibile nonostante la richiesta di rito abbreviato;

2° – mancanza e manifesta illogicità della motivazione circa la ritenuta partecipazio­ne (materiale o morale) di ciascuno dei due al delitto, e violazione di legge nell’essere comunque ritenuto il fatto unico di omicidio volontario, anziché due, da qualificarsi lesioni volontarie o tentativo di omicidio, ed omicidio colposo (giusto Cass., Sez. I, n. 10535/88, Auriemma, e v. Cass., Sez. 1,18.3.03, Iovino).

In particolare per C. si obietta che le tracce ematiche sono state rilevate solo su pantaloni e scarpe, mentre W. ne aveva anche sul maglione. L’ipotesi ricostruttiva altamente più probabile è che egli si sia limitato ad aiutarlo a trascinare il corpo inerte, er­roneamente ritenuto già cadavere (per errore determinato dal viso coperto di sangue). Si aggiunge che i Giudici di merito non si son posti la questione se gl’imputati, ed in partico­lare C. erano capaci di intendere e di volere al momento dei fatti.

Analogamente il ricorso per M. sostiene attendibile la sua spiegazione di essersi macchiato di sangue nell’aiutare W. solo a spostare il corpo inerte. Inoltre la motiva­zione offre erroneo apprezzamento dell’ipotesi di fuga degl’imputati, trovati a poca distan­za (presso la stazione ferroviaria) il mattino successivo ai fatti, nei quali lo stesso M. sarebbe stato al più connivente, non avendo obbligo giuridico d’impedire l’evento.

W. propone un solo motivo. Censura la ricostruzione operata in sentenza negli stessi termini degli altri ricorrenti, sostenendo in particolare che il cadavere non risulta av­volto, seppure coperto quasi interamente da cellophane (così il verbale della P.G., di accertamento urgente sul cadavere). E perviene in diritto alle stesse conclusioni.

3 – Il procedimento è stato assegnato alla I Sezione di questa Corte, che lo ha ri­messo alle Sezioni Unite, rilevando contrasto di giurisprudenza in ordine alla questione comune ai ricorsi di C. e M., avente ad oggetto gli atti processuali, che devono necessariamente essere tradotti in lingua conosciuta agli imputati stranieri che non conoscono l’italiano (come i due ricorrenti), e i presupposti perché ciò si renda necessario.

L’ordinanza premette il dettato dell’art. 6/3° co., lett. a, della Convenzione per la sal­vaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Roma 4.11.1959) e dell’art. 14/3° co., lett. a, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (New York, 19.12.1966), secondo cui «ogni accusato ha diritto a essere informato, . nel più breve spa­zio di tempo, nella lingua che egli comprende e in maniera dettagliata, della natura e dei motivi dell’accusa a lui rivolta» e dell’art. 111/3° co., u. p., della Costituzione, modificato con L. cost. n. 2/99, secondo cui «la legge assicura che una persona accusata di un reato (?) sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo». Rimarca che la sentenza 10/93 della Corte costituzionale ha affermato che «in linea generale, il diritto all’interprete può essere fatto valere ed essere fruito, stando al tenore letterale dell’art. 143 del codice di procedura penale, ogni volta che l’imputato abbia bisogno della traduzione nella lingua da lui conosciuta in ordine a tutti gli atti a lui indiriz­zati, sia scritti che orali (?) anche nella fase delle indagini preliminari».

Indi precisa che il contrasto giurisprudenziale concerne in particolare l’avviso di con­clusione delle indagini ex art. 415 bis del codice processuale.

Osserva che la sentenza impugnata sembra fare riferimento all’indirizzo per cui, «in conformità sia del dettato costituzionale, sia dell’art. 6, lett. e, della Convezione europea dei diritti dell’uomo 4 novembre 1959, nei confronti dell’imputato straniero che non cono­sce la lingua italiana, il diritto di difesa é assicurato solo limitatamente agli atti orali, es­sendo escluso l’obbligo di traduzione degli atti processuali nella sua lingua madre» e quin­di dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari ex art. 415 bis, codice procedura penale (Cass., sez. II, 8 ottobre – 25 novembre 2003, Tegri e a., riv. n. 227609).

Secondo altro orientamento, sostenuto da numerosa giurisprudenza di merito ed e-vocato da Cass., sez. I, 4 – 26.11.04, P. M. in proc. Istvan, riv. n. 230528, l’obbligo di tra­duzione in lingua nota all’imputato straniero dell’avviso ex art. 415 bis del codice di rito consegue, da un lato, alla precisazione contenuta nella sentenza n. 10/1993 della Corte costituzionale, secondo cui l’art. 143 c.p.p. si riferisce sia agli atti orali che a quelli scritti e, dall’altro, alla circostanza che il termine «accusa» di cui alla norma in esame va interpreta­to, anche alla luce del disposto dei testi sovranazionali sopra richiamati e dell’art. Ili della Costituzione, in senso lato e comprensivo di tutti gli atti nei quali l’indicazione di elementi a carico dell’indagato o dell’imputato fa sorgere una necessità di difesa.

In sintesi la Sezione remittente, evidentemente condividendo la tesi della Corte di merito secondo cui è comunque irrilevante l’omessa traduzione del provvedimento di pro­roga in assenza di ulteriori attività d’indagine, circoscrive il thema decidendi, chiedendo alle Sezioni Unite di pronunciarsi sulla questione:

"se indagato stran/ero che non conosca la lingua italiana abbia diritto alla traduzio­ne dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari e della richiesta di rinvio a giudizio in una lingua a lui nota".

Il Primo Presidente ha disposto la trattazione in questa udienza.

Motivi della decisione

1 – La questione di nullità, proposta per C. e M., è preliminare.

I motivi che la sostengono sono inammissibili relativamente alla richiesta di proroga delle indagini preliminari (art. 406). La richiesta va bensì notificata a cura del giudice alla persona sottoposta alle indagini (ed alla persona offesa, se l’abbia chiesto), al fine di pro­cedere ai sensi dell’art. 127 c.p.p.. Ma il provvedimento di proroga è mero atto d’impulso non impugnabile. Ed è possibile solo denunciare l’inutilizzabilità delle prove assunte dopo

proroga irrituale (S.U. 17/92, Bernini ed a. – CED Rv. 191786).

Nella specie non risultano utilizzati risultati di indagini svolte dopo la proroga.

1.1 – Quanto alla denuncia di nullità per omessa traduzione dell’avviso di cui all’art. 415 bis e della richiesta di rinvio a giudizio di cui all’art. 416 (anche per nullità derivata), i ricorrenti invocano un giusto principio.

II contrasto giurisprudenziale si appunta sulla mancata traduzione dell’avviso di chiu­sura delle indagini, cui segue la richiesta. E non può essere condiviso l’indirizzo che esclu­de l’obbligo di traduzione. Esso poggia essenzialmente sul rilievo che l’art. 169/3° co. c.p.p. detta l’unica norma che, in relazione a quella dell’art. 109/1° co., prevede in via ecceziona­le l’obbligo di tradurre un atto scritto destinato all’imputato straniero alloglotta (cfr. in par­ticolare la sentenza Tegri, citata, i cui precedenti possono rinvenirsi in Cass., Sez. II, 59098/91, Hailovic, Rv. 186420).

Sennonché la regola dell’art. 109/1° co., che gli atti del procedimento penale sono compiuti in lingua italiana, scritti o orali che siano, è legata al principio di territorialità. Tant’è che l’art. 109/2° prevede deroga, se il procedimento si svolga in una parte del terri­torio dello Stato, dove è insediata una minoranza linguistica riconosciuta. In tal caso il cit­tadino italiano appartenente a tale minoranza può chiedere di essere interrogato o esami­nato nella madrelingua, ed ottenere la redazione del verbale anche in tale lingua. Succes­sivamente ha il diritto di ottenere che gli atti a lui indirizzati siano tradotti.

L’art. 169/3° si occupa invece dell’ imputato straniero che si trovi all’estero. E dispone la redazione nella sua lingua dell’invito a dichiarare o eleggere domicilio nel territorio dello Stato, quando non risulta dagli atti che egli conosca la lingua italiana.

Pertanto l’art. 169/3°, al pari dell’art. 109/2°, pone eccezione per ragioni territoriali alla redazione esclusiva di talun atto scritto in lingua italiana. E, fermo in entrambi i casi che gli atti diversi da quelli indicati dalle stesse disposizioni sono redatti o espressi in lin­gua italiana, le due norme si rimettono conseguentemente, per la traduzione in diversa lingua comprensibile dal destinatario, alla regola dell’art. 143/1° co. c.p.p.. Questa attribui­sce all’imputato che non conosce la lingua italiana il diritto di farsi assistere da un interpre­te per poter (a) comprendere l’accusa e (b) seguire il compimento degli atti cui partecipa. L’endiadi finalistica {comprensione dell’accusa – partecipazione consapevole) specifica al­l’evidenza la locuzione sintetica "atti a lui diretti", adottata dall’art. 109/2, determinando solo l’ambito funzionale degli atti da tradurre, senza distinzione tra quelli orali e scritti.

Va aggiunto che l’art. 143/1° conclude che, se l’imputato è cittadino italiano, si pre­sume sino a prova contraria la sua conoscenza della lingua italiana. Ne segue che lo stesso cittadino italiano ha diritto all’assistenza di interprete, se dimostra di non comprendere la lingua (si pensi all’italiano cresciuto all’estero), per ottenere la traduzione di alcun atto a lui diretto in altra lingua (e v. la ratio della presunzione eccettuativa dell’art. 109/2° ).

Per contro non si presume (di qui il limite di redazione in diversa lingua di cui all’art. 169/3° ) che il cittadino straniero che si trovi in Italia, già al momento dell’invito ad indicare o eleggere domicilio, ignori la lingua italiana. Ma se egli richiede di farsi assistere da un in­terprete, deve risultare la sua conoscenza della lingua italiana perché glielo si neghi.

In conclusione, l’imputato straniero che si trovi in Italia ha diritto di ottenere, nel primo diretto contatto con l’autorità che procede (nel caso esaminato dalla sentenza Zala-galtìs, in corso d’interrogatorio, v. oltre), la traduzione degli atti a lui diretti, se non cono­sce la lingua italiana. La sua richiesta, ponendosi fuori di presunzione, non è prevista quale atto formale da cui scaturisce obbligo vincolante per l’autorità che procede (a differenza del caso di cui all’art. 109/2), bensì intesa come acquisizione dimostrativa d’ignoranza, che può essere superata da opposta emergenza (come nel caso di specie a proposito dell’im­putato W. che, difatti, in questa sede non ripropone la questione).

1.2 – Su queste premesse normative e di sistema, va ribadito che l’estensione del­l’obbligo di tradurre anche atti scritti del procedimento, che abbiano l’oggetto indicato dal 1° co. dell’art. 143, si ancora al dettato costituzionale.

La sentenza 10/93 della Corte Costituzionale, qualificata "interpretativa di rigetto", ha dichiarato infondate due questioni, relative rispettivamente all’art. 555 co. 3 c.p.p. (verifica da parte del giudice della disponibilità del querelante a rimettere querela e del querelato ad accettare la remissione, in caso di comparizione a seguito di citazione diretta), e al combinato disposto degli art. 456 co. 2 (avviso della facoltà di richiedere che si proceda con giudizio abbreviato o ai sensi dell’art. 444 c.p.p.) e 458 co. 1 (facoltà che, relativamente al giudizio abbreviato, è da esercitarsi entro 15 gg. dal ricevimento dell’avviso), nella parte in cui non prevedono che tali atti debbano essere tradotti all’imputato che non conosca la lingua italiana. E l’art. 456 concerne un atto scritto, il decreto che dispone il giudizio.

Il Giudice delle leggi spiega che non è necessaria previsione specifica, per la piena estensione della garanzia di cui all’art. 143 co.l, in conformità ai diritti dell’imputato rico­nosciuti da convenzioni internazionali ratificate, e dall’art. 24 co.2 della Costituzione.

Pertanto, ben prima del contrasto segnalato, ha ritenuto che secondo diritto vivente l’art. 143 c.p.p. pone obbligo indiscriminato di traduzione degli atti orali e scritti, i quali im­plichino comprensione dell’accusa, per l’esercizio delle facoltà di difesa sostanziale.

Di seguito la novella dell’art. 111 Costituzione, operata con L. cost. 23.11.99 n. 2, re­ca espressamente nell’ultima parte del 3° co. che la legge assicura? che la persona accu­sata di un reato ? sia assistita da un interprete, se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo? in riferimento a tutte le modalità di esercizio del diritto di difesa premesse dalla stessa disposizione. E si tratta tra l’altro della ricezione dell’informazione circa la natura e i motivi dell’accusa, con possibilità di tempo e condizioni per preparare la difesa, di interrogare personalmente avanti al giudice le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere convocazione e interrogatorio di persone a sua difesa e dell’ac­quisizione di ogni altro mezzo di prova a favore. ÿ evidente che si tratta di facoltà in prevalenza già connesse all’avviso di chiusura delle indagini preliminari di cui all’art. 415 bis c.p.p., introdotto con L. 16.12.99, n. 479 c.p.p., consecutiva alla novella costituzionale.

1.3 – In questo quadro S.U. n. 5053/03, Zalagaltis, ha affermato che deve risultare (v. sopra) all’autorità procedente che il cittadino straniero non è a conoscenza della lingua italiana, affinché sia munito di interprete e si disponga la traduzione degli atti a lui diretti, nella lingua a lui nota, senza distinzioni tra atti orali e scritti.

La sentenza si occupa dell’ordinanza di custodia, che deve essere comunque esegui­ta. Ed afferma che, se risulta dopo la sua esecuzione che l’imputato ignori la lingua italia­na, deve essere tradotta in corso dell’interrogatorio previsto dall’art. 294 c.p.p..

Pertanto, quando già risulti l’ignoranza delle lingua l’atto scritto destinato all’imputato deve essere tradotto subito dopo la sua redazione, ovvero prima della notifica.

L’avviso di cui all’art. 415 bis/2° è previsto a pena di nullità della richiesta di rinvio a giudizio (art. 416/1° co.), o del decreto di citazione (art. 552/2° ), perché deve enunciare l’imputazione e contenere l’avvertimento all’imputato della possibilità di esercizio di facoltà di difesa sostanziale, oltre che tecnica (co. 3° : presentare memorie, depositare documen­ti, chiedere il compimento di atti di indagine, presentarsi per rilasciare dichiarazioni o ren­dere interrogatorio). Perciò l’avviso è sicuramente tra gli atti cui si riferisce il principio af­fermato da Corte Costituzionale 10/93, in relazione all’art. 24 Cost. e espresso dall’art. 111/3, alla cui novella (L. Cost. 2/99) ha fatto immediato seguito la sua introduzione nel sistema procedurale (L. 3.12.99, n. 479). E del pari lo è la richiesta di rinvio a giudizio.

ÿ a questi rilievi letterali, logici e sistematici che si rapporta correttamente la giuri­sprudenza del ed. secondo indirizzo (il principio è affermato oltre che nella sentenza citata della stessa Sezione che ha disposto la rimessione, P.M. in proc. Istavan, anche in Cass., Sez IV, n. 7664/05, Ferrante ed a., Rv. 223415, secondo cui "l’omessa traduzione dell’av­viso di conclusione delle indagini preliminari determina la nullità ex artt. 178 lett. e e 180 c.p.p. dell’avviso medesimo, che si riverbera sulla richiesta di rinvio a giudizid’).

1.4 – Va a questo punto rilevato che, nell’udienza preliminare in cui gl’imputati sono comparsi in stato di detenzione, per tutti è stata immediatamente formulata dalla difesa eccezione di nullità per mancata traduzione dell’avviso di cui all’art. 415 bis e della richie­sta di rinvio a giudizio. Respinta l’eccezione, ciascun imputato ha formulato richiesta di rito abbreviato condizionata. Respinte tali richieste, ciascuno ancora ha proposto quella ordina­ria non condizionata. E le richieste di tutti sono state accolte.

A fronte di questo accaduto, rileva innanzitutto che S.U. 12/00 Jakani (CED, Rv. 216259) ha affermato che la mancata traduzione, nella lingua dell’imputato che ignori quella italiana, del decreto di citazione a giudizio configura nullità generale di tipo inter­medio (art. 178 lett. e, 180 c.p.p.), sanabile dalla comparizione della parte (art. 184 c.p.p.).

Si è poi ritenuto che la richiesta di rito abbreviato sani (art. 183 c.p.p.) la nullità per omissione dell’invito a rendere interrogatorio prevista dall’art. 416 c.p.p., come quella in di­scorso che è ritenuta costantemente "generale non assoluta" (cfr. Cass. n. 2116/02, CED Rv. 223257; n. 30270/03 – Rv. 225489; n. 34955/03 – Rv. 226364; n. 47578/03 – Rv. 226675; n. 38662/04 – Rv. 229534; nr. 44960/05 – Rv. 233062), perché "con l’accettazione di giu­dizio allo stato degli atti, egli (l’imputato) non tende a impedire la devoluzione del processo al giudice del dibattimento, ma vuole solo difendersi dall’accusa davanti al giudice per l’udienza preliminare"(cfr.: Cass., Sez. VI, 937/01, Agosto ed altri, Rv. 220382).

Ne segue che la Corte di merito si è conformata ad un principio generale già afferma­to da giurisprudenza incontrastata, nel ritenere in via subordinata che comunque la nullità, nella specie eccepita per omessa traduzione dell’avviso e della richiesta di rinvio a giudizio, è sanata a sensi dell’art. 183 c.p.p. dalla richiesta accolta di giudizio abbreviato. Secondo la disposizione di tale articolo, difatti, Yaccettazione degli effettìdi un atto nullo è, al pari del­la rinuncia, un atto proprio della parte interessata. E quella parte non poteva dunque ri­proporre di seguito l’eccezione, una volta accettato l’effetto della richiesta di rinvio a giudi­zio, perché gl’imputati avevano formulato la richiesta di rito abbreviato.

Ma innanzitutto si rileva che l’eccezione non risulta deducibile ai sensi dell’art. 182 c.p.p.. L’articolo non si occupa della sanatoria strictu sensu, ma esclude che la nullità possa essere dedotta da "c/7/1 (ha dato concorso a darvi causa) "non ha interesse all’osser­vanza della disposizionè, cosa che si desume da suo comportamento contrastante.

Perciò se l’imputato, ovvero colui che è titolare del diritto di difesa, esercita la facoltà riservatagli di richiedere il giudizio abbreviato, non solo accetta gli effetti dell’atto nullo propedeutico, ma innanzitutto dimostra di non avere interesse all’osservanza della disposi­zione violata. La richiesta pertanto rende indedudicibile l’eccezione, nella specie proposta dal difensore, che è bensì soggetto legittimato a denunciare una nullità quale parte, ma non può per questa via contrastare l’interesse sostanziale manifesto dell’imputato.

2 – Passando alle censure di merito, la tesi comune ai tre ricorsi, che si sia in pre­senza di una duplice azione e che l’omicidio sia da qualificarsi colposo, è sorretta dal rife­rimento a principio affermato dalla sentenza Auriemma, citata.

Questa si occupa del caso della donna che, posti in essere atti diretti a cagionare la morte del figlio neonato, ritenendo erroneamente di averlo ucciso per averlo gettato nel water, lo aveva poi avvolto in una coperta e chiuso in un sacchetto di plastica per occultar­lo, cagionandone invece in tal modo la morte per asfissia. E ravvisa il concorso di tentato omicidio ed omicidio colposo, non un delitto unico di omicidio doloso.

Spiega che la distinzione tra due azioni concatenate o contestuali, quando la seconda cagiona l’evento cui era diretta la prima, è possibile per via dell’errore (circa la presunta realizzazione di tale evento) che determina l’agente all’azione ulteriore. E sottolinea per contro che la possibilità di imputare a titolo di dolo il fatto nel suo insieme postula che la volontà dell’ultimo atto sia effettiva, non potendosi ricavare in via ipotetica attraverso \’/d quodplerumque accidit (cfr. CED Rv. 179560).

Ma avverte: "Soltanto se l’originaria intenzione persista nella fase terminale, nel sen­so che l’agente ad essa dia corso con una direttiva psicologica che rivesta il contenuto di dolo eventuale (con la volontà quindi che ove mai gli atti già compiuti non fossero suffi­cienti per il risultato preso di mira, esso sia da quelli successivi cagionato), in detta ipotesi l’evento potrebbe essere ritenuto doloso, abbracciando evidentemente l’animus occidendi la condotta in tutto il suo iter".

Il principio della sentenza Auriemma trova seguito in Cass. Sez. 1,18.3.03, Iovino ed altro. Questa tuttavia afferma che nel caso in cui l’agente, che non sia certo di aver cagio­nato la morte nella prima fase, realizzi anche il secondo segmento della condotta con la deliberata intenzione di uccidere la vittima, pur instaurandosi un nuovo decorso causale, è ravvisabile il dolo diretto alternativo, perché la condotta successiva, sebbene ispirata allo scopo di (distruggere o) occultare il cadavere, è mirata tuttavia a cagionare la morte della vittima nell’ipotesi in cui questa non si sia già verificata.

In effetti rileva che, se l’agente compie un atto pure apparentemente diretto all’oc­cultamento di cadavere, ma idoneo a cagionare per sé la morte della vittima se ancora in vita, si prefigura comunque la morte quale premessa necessaria del risultato ulteriore. In tal caso non può essere dato rilievo al suo sostenuto errore, per ritenere l’evento mortale contro la sua intenzione (art. 43 CP), attribuendolo a colpa ai sensi dell’art. 47 CP.

Perciò in punto di censura di motivazione, non è riconoscibile come criterio d’inferen­za la direzione apparente dell’ultimo atto all’occultamento di cadavere, ma la sua funzione concreta nel contesto complessivo del comportamento, da cui è scaturito l’evento mortale.

2.1. – Ed è a questo criterio riconoscibile, che si è attenuta la sentenza impugnata.

Ricostruisce, su scorta di accertamento medico – legale, che gl’imputati avevano in­nanzitutto colpito ripetutamente la vittima in parti vitali così da provocarne un’emorragia altrimenti inarrestabile. E probabilmente avrebbero conseguito per tal via l’evento, se non avessero cagionato la morte per asfissia, mediante la consecutiva copertura del corpo con il foglio di cellophane.

In questa luce, il Giudice di appello rileva che tra i primi atti lesivi e quello che ha ca­gionato la morte per asfissia non risulta soluzione di continuità, e che la copertura non era affatto idonea ad occultare il cadavere. E all’evidenza adotta il termine "avvolgimento" di seguito in motivazione, perché è incontestato che sia stata la copertura del volto, e perciò delle prime vie respiratorie, a produrre l’asfissia.

La chiave motivazionale è dunque nell’induzione che gl’imputati hanno reso impossi­bile alla vittima di liberarsi dal foglio di cellophane, anche solo per respirare, la qualcosa giustifica l’asserto che si sarebbero posti accanto al corpo per impedire che lo facesse. E pertanto conclude coerentemente che l’eccezione di sostenuto decisivo errore, circa il fatto che la vittima fosse già morta dopo i primi atti offensivi, risulta sfornita di allegazione.

All’uopo, difatti, ogni altra valutazione dei dati (lesioni degl’imputati, macchie sui ve­stiti, analisi delle mozioni e dei comportamenti dei singoli, ubriachezza di tutti, spostamen­to del cadavere, fuga concorde, inattendibilità delle dichiarazioni rese a discolpa) è opera­ta secondo massime di esperienza riconoscibili in senso convergente nella prova della dire­zione micidiale della condotta criminosa ricostruita, ancorché l’atto finale risulti diverso dai precedenti e, perciò, secondo metro di implicazione in ciascun caso ineccepibile.

Oltre i ricorsi propongono valutazioni alternative di quelle operate dal Giudice di merito, non consentite in questa sede.

Resta quindi intangibile la motivazione di concorso di tutti in omicidio volontario.

Infine il ricorso C., insistendo sullo stato di ubriachezza degl’imputati, come della vittima, a stregua di quanto accertato sul cadavere, pone quella che definisce ulterio­re questione di capacità d’intendere e di volere al momento del fatto.

Ma tale questione, squisitamente di merito, non risulta già proposta al Giudice d’ap­pello, ed è pertanto inammissibile.

P.Q.M.

rigetta I ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del proce­dimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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