Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 28-04-2011) 09-08-2011, n. 31616 Divieto e obbligo di dimora

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ordinanza in data 26.11.2010 il Tribunale del Riesame di Roma, in parziale accoglimento dell’appello del P.M. presentato il 16.1.2009 avverso l’ordinanza 12.1.2009 del GIP presso il Tribunale di Roma che aveva disposto nei confronti di S.M. e O. M.C., in relazione ai reati di truffa aggravata e corruzione di cui ai capi B) C) D) ed F) la misura del divieto di espatrio e del divieto di dimora, applicava nei confronti dei predetti la misura degli arresti domiciliari.

Si legge nell’ordinanza che il procedimento derivava da sentenza 20.11.2009 della Corte di Cassazione che aveva annullato l’ordinanza emessa dal Tribunale del Riesame di Roma in data 21.5.2009 con la quale erano stati respinti gli appelli del P.M., nonchè da Sentenza 27.9.2010 sempre della Corte di Cassazione che aveva annullato, per violazione del diritto di difesa (il P.M. aveva depositato atti rilevanti tre giorni prima dell’udienza e non risultava che la difesa avesse avuto conoscenza di tale deposito), l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Roma pronunciata in sede di rinvio il 30.4.2010, a seguito della prima sentenza della Suprema Corte, per la parte relativa all’accoglimento parziale dell’appello del P.M. (l’appello era stato rigettato in relazione alle posizioni di M. e P.).

Questa Corte aveva cassato anche l’ordinanza del 27.1.2009 con la quale il Tribunale del Riesame aveva rigettato le impugnazioni degli indagati. In sede di rinvio i giudici del Tribunale della Libertà emettevano in data 23.7.2009 ordinanza con la quale escludevano la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza in relazione al reato di cui all’art. 416 c.p. e con riguardo agli altri reati escludevano la sussistenza delle esigenze cautelari. Avverso tale ordinanza il P.M. presentava nuovo ricorso per Cassazione dichiarato inammissibile con sentenza in data 12.1.2010 di questa Corte che rilevava la non censurabilità della ordinanza impugnata adeguatamente motivata sia sotto il profilo della sussistenza dei gravi indizi che sotto il profilo della sussistenza delle esigenze cautelari.

Con la sentenza 27.9.2010 la Corte di Cassazione, nell’annullare con rinvio l’ordinanza 30.4.2010 nella parte in cui aveva accolto l’appello nei confronti di S. ed O. aveva ribadito il principio di diritto secondo il quale nel caso in cui pendano due procedure cautelari aventi ad oggetto la medesima misura originaria, quella ancora pendente dopo la definitiva conclusione dell’altra può proseguire nel solo caso in cui in essa siano presenti elementi nuovi, rispetto a quelli esaminati nel giudicato cautelare che si è formato con la definizione dell’altra, limitatamente ai punti della decisione cui si riferiscono tali elementi probatori, e rilevando che il Tribunale aveva ritenuto determinanti a superare il giudicato i documenti e le deduzioni contenute nella memoria depositata dal P.M. il 27.4.2010 aveva fissato il seguente principio di diritto:" nella procedura di appello cautelare l’utilizzazione di materiale probatorio nuovo prodotto da una delle parti è possibile, ma è subordinata alla positiva verifica che la controparte sia stata posta nelle condizioni di poter esercitare il diritto al contraddittorio".

Ciò detto il Tribunale in sede di rinvio si poneva il problema di verificare se i nuovi elementi acquisiti dal P.M. e presentati a sostegno dell’appello fossero tali da superare il giudicato cautelare formatosi in ordine all’insussistenza della gravità indiziaria con riguardo al reato di associazione per delinquere e in ordine all’insussistenza delle esigenze cautelari legate al pericolo di reiterazione. Il giudice del riesame affermava che tali elementi non permettevano di ritenere che fossero stati acquisiti nuovi indizi atti a sostenere la sussistenza del reato associativo, rilevava però che gli stessi consentivano di rivalutare, con riguardo alle posizioni del S. e dell’ O.M., le esigenze cautelari correlate al pericolo di reiterazione dei reati di truffa aggravata e corruzione loro ascritti. Da tali elementi emergeva che gli indagati non avevano interrotto la loro attività con la liquidazione della TECNOPROCESS proseguendola con una società appositamente costituita negli stessi locali e simulando una cessione di azienda a favore di tre dipendenti del S., tra cui l’ O.M. che si era dichiarato nullatenente e privo di redditi.

Il Tribunale sottolineava come con tale comportamento il S. e l’ O.M. avevano dimostrato una sfrontata indifferenza al processo in corso ed una radicata volontà di proseguire l’attività criminale solo momentaneamente interrotta dall’emissione delle prime misure cautelari.

Evidenziava come la documentazione prodotta dalla difesa all’udienza del 26.11.2010 non faceva che confermare quanto evidenziato, considerato che afferiva: alla cessione di ramo d’azienda agli indicati prestanome; alle ingiunzioni di pagamento fatte al S. in qualità i liquidatore della TECNOPROCESS per ritardi nei pagamenti e alle dimissioni del S. dalla carica di liquidatore della TECNOPROCESS. Ricorre per Cassazione il difensore di S.M. e O. M.C. deducendo che l’ordinanza impugnata è incorsa in assenza di motivazione e travisamento della prova. Contesta la mancata valutazione da parte del Tribunale del Riesame delle evidenze probatorie introdotte dalla difesa quali elementi contrastanti la precedente produzione documentale del P.M. Sottolinea come la lettura del contratto di cessione di ramo d’azienda dalla TECNOPROCESS in liquidazione alla TP GROUP srl evidenzia l’assoluta correlazione tra le società e l’impossibilità che con la seconda si sia potuta proseguire l’attività della prima, sia nel presente che nel futuro.

Evidenzia come ogni contratto relativo al tradig estero (unica attività oggetto di contestazione nella originaria ordinanza) con le obbligazioni ad esso legate è rimasto infatti in carico alla TECNOPROCESS e come la TP Group srl non possieda alcuno dei requisiti tecnico finanziari per poter partecipare alle gare indette dalla Comunità Europea. Rileva che una più attenta lettura degli atti depositati avrebbe permesso al Tribunale di accertare che le due società non avevano mai diviso la sede di via (OMISSIS), e sottolinea come la cessione fosse stata effettiva e non simulata.

Evidenzia anche il tempo trascorso tra la prima e la seconda ordinanza senza che nulla di quanto paventato dal P.M. si fosse verificato. Il ricorso è infondato e deve essere respinto.

Lamenta il ricorrente un vizio di motivazione. Sul punto va ricordato che anche alla luce del nuovo testo dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, non è consentito alla Corte di Cassazione di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito. La previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal "testo" del provvedimento impugnato, anche da "altri atti del processo", purchè specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti del giudice di legittimità, il quale è tuttora giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto. In questa prospettiva il richiamo alla possibilità di apprezzarne i vizi anche attraverso gli "atti del processo" rappresenta solo il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto "travisamento della prova", in virtù del quale la Corte, lungi dal procedere ad una (inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove), prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti per verificare se il relativo contenuto è stato preso in esame, senza travisamenti, all’interno della decisione.

In altri termini si può parlare di travisamento della prova nei casi in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale. Non spetta invece alla Corte di cassazione "rivalutare" il modo con cui quello specifico mezzo di prova è stato apprezzato dal giudice di merito, giacchè attraverso la verifica del travisamento della prova il giudice di legittimità può e deve limitarsi a controllare se gli elementi di prova posti a fondamento della decisione esistano o, per converso, se ne esistano altri inopinatamente e ingiustamente trascurati o fraintesi. In sintesi: non c’è spazio per una rinnovata considerazione della valenza attribuita ad una determinata deposizione testimoniale, mentre potrebbero farsi valere: la mancata considerazione di una deposizione testimoniale di segno opposto esistente in atti ma non considerata dal giudice ovvero la valenza ingiustamente attribuita ad una deposizione testimoniale inesistente o avente un contenuto opposto a quello recepito dal giudicante (cfr. tra le tante: Cass. Sez. 2 n. 38915/07; Cass. Sez. 4 n. 35683/07;

Cass. Sez. 4 n. 15556/08; Cass. Sez. 6 n. 18491/10).

Ciò detto la censura del ricorrente con riguardo alla mancata valutazione delle specifiche doglianze difensive si palesa infondata non apprezzandosi nella motivazione del provvedimento gravato alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva.

Anzitutto il giudice ha dimostrato attraverso il proprio iter argomentativo di avere tenuto in considerazione la documentazione prodotta dalla difesa relativa alla cessione di ramo d’azienda e le ingiunzioni di pagamento escludendone la rilevanza ai fini della prova della effettività della cessione.

Tenendo conto di tutti i principi ricordati, deve dunque concludersi che, nel caso di specie, le argomentazioni poste a base delle censure in argomento non intaccano la congruenza logica del complesso motivazionale impugnato, alla quale il ricorrente ha inteso piuttosto sostituire una sua visione alternativa del fatto, fondata sull’interpretazione di documenti non allegati al ricorso.

In proposito il Collegio osserva che è ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità il principio della cd.

"autosufficienza" del ricorso in base al quale quando la doglianza fa riferimento ad atti processuali, la cui valutazione si assume essere stata omessa o travisata, è onere del ricorrente suffragare la validità del proprio assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti specificatamente indicati o la loro allegazione (ovviamente nei limiti di quanto era già stato dedotto in precedenza), essendo precluso alla Corte l’esame diretto degli atti del processo, a meno che il fumus del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso (cfr.

Cass. n. 20344/06; Cass. n. 20370/06; Cass. n. 47499/07; Cass. n. 16706/08) Nel caso in esame la ricorrente non ha messo a disposizione di questa Corte di legittimità gli elementi obiettivi necessari per apprezzare, sulla base di atti specificatamente trascritti o allegati, la sussistenza o l’insussistenza di un fumus delle doglianze e quindi l’utilità o la superfluità di un esame diretto dei relativi atti. In applicazione a tali principi il Collegio ritiene che le risultanze processuali inadeguatamente esposte e le argomentazioni esposte nel motivo in esame si risolvono in generiche censure in punto di fatto che tendono unicamente a prospettare una diversa ed alternativa lettura dei fatti di causa, ma che non possono trovare ingresso in questa sede di legittimità a fronte di un’ordinanza impugnata che, come già detto, appare congruamente e coerentemente motivata.

Il ricorso deve essere respinto.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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