Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 13-04-2011) 10-08-2011, n. 31867 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di Reggio Calabria, costituito ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen., con ordinanza in data 11 giugno 2010 (depositata il successivo 18 giugno), ha confermato la misura della custodia cautelare in carcere applicata dal Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale, con provvedimento del 21 maggio 2010, nei confronti di P.F., nato nel 1987, sottoposto ad indagini per il delitto di cui all’art. 416 bis cod. pen. come appartenente all’omonima cosca Pesce, radicata e attiva nel comune Rosarno (in provincia di Reggio Calabria) e nelle zone limitrofe.

L’ordinanza si apre con un’ampia premessa sulla storia, composizione, e attuale scenario di operatività della cosca, il cui capo storico P.A. (classe 1953), pur detenuto in espiazione della pena dell’ergastolo, continuerebbe a godere di grande carisma e autorità nei confronti dei propri congiunti e presunti sodali criminali, individuati nei fratelli dello stesso capo: P.G. (detto (OMISSIS)), P.S. e P.V.; e nei giovani figli dei predetti: F. (classe 1978) figlio di A., R. (classe 1984) figlio di S., e F. (classe 1987), attuale ricorrente.

A carico di quest’ultimo il Tribunale desume i gravi indizi di colpevolezza, per gli ipotizzati reati di detenzione e porto di armi e associazione per delinquere di stampo mafioso, dal contenuto di una conversazione tra presenti, intercettata il 10 novembre 2006, che ebbe luogo nel carcere di (OMISSIS) dove era detenuto, all’epoca, l’omonimo cugino P.F. (classe 1984). Questi, parlando con 11 congiunto, lo avrebbe informato della custodia in luoghi riservati di cose di interesse comune che P.F. (classe 1987) avrebbe potuto prelevare, su sua indicazione, all’occorrenza.

Le "cose" evocate nel colloquio sono interpretate dai giudici della misura cautelare come armi, sia per la cautela usata dai conversanti nel parlarne senza farvi mai esplicito cenno, sia per i dati emergenti dalle investigazioni tali da assegnare a P.F. (classe 1984) il compito di addetto alla custodia e gestione di una partita di armi utili all’associazione, in collaborazione con fidati accoliti, i quali, nella sua forzata assenza, lo avrebbero sostituito.

Nella stessa sede e luogo P.F. (classe 1984) parlò non solo con l’omonimo (classe 1987) ma anche con l’altro cugino, P. R., e dal dialogo tra i tre giovani sarebbe emersa, secondo l’ordinanza, la loro ansia di vendicare la morte di tale S. D., persona molto vicina alla cosca Pesce, ucciso solo un mese prima, l’8 ottobre 2006, e la loro impaziente voglia di farlo subito, avendo già individuato i ritenuti responsabili dell’assassinio nei componenti della famiglia A., come risulterebbe confermato dal contenuto di altra conversazione intercettata tra diverse persone.

La circostanza che la vendetta non fu consumata subito, ma solo il 14 agosto 2007 con l’uccisione di A.D. e il tentato omicidio di A.V., poichè prevalsero più caute strategie del gruppo Pesce miranti ad evitare inimicizie con i B., altra cosca egemone nel medesimo territorio e storica alleata dei P. ma in buoni rapporti anche con gli A., non escluderebbe, secondo il giudice del riesame, l’intraneità al sodalizio criminale dei più giovani rampolli, i quali, come emerso dal predetto dialogo in carcere, erano a conoscenza delle dinamiche criminali di comune interesse e ad esse prendevano parte attivamente.

Sulla ritenuta esistenza di gravi indizi di colpevolezza del delitto associativo di tipo mafioso si innesta, nel provvedimento in esame, la presunzione relativa di ricorrenza delle esigenze cautelari, in mancanza di elementi per ritenere, nonostante il decorso del tempo, che P.F. (classe 1987) abbia rescisso i suoi legami criminali a base familiare, donde l’ulteriore presunzione di adeguatezza della sola misura della custodia in carcere ai fini di cautela.

2. Avverso la predetta ordinanza il P. ha proposto ricorso per cassazione tramite i suoi difensori, avvocati Stefania Rania del foro di Catanzaro e C.G. del foro di Palmi, lamentando la mancanza e la contraddittorietà della motivazione con riguardo alle censure mosse all’ordinanza genetica di applicazione della misura.

Secondo il ricorrente, dall’unica conversazione tra presenti, in data 10 novembre 2006, di cui si è detto, sarebbero state desunte due ipotesi criminose del tutto prive di sostegno motivazionale.

Quanto al delitto in materia di armi, il Tribunale non avrebbe superato la vistosa contraddizione di sostenere, contemporaneamente, il concorso dell’indagato nel possesso di un ipotizzato rilevante compendio balistico e la sua ignoranza del luogo di occultamento delle armi, emergente dalle parole: "no quell’altro so …" pronunciate dallo stesso indagato, evocanti la sua conoscenza di un solo luogo di occultamento e non anche di quello richiamato dal cugino detenuto, suo interlocutore.

Non solo.

Proprio dal contenuto della conversazione captata si evincerebbe che P.F. (classe 1987) non aveva la libera disponibilità neppure delle ipotizzate armi di cui avrebbe conosciuto la collocazione, posto che esse erano sotto l’esclusivo controllo del cugino detenuto, il quale, all’occorrenza, gli avrebbe impartito le istruzioni per prelevarle.

Sempre con riguardo al delitto in materia di armi sarebbe totalmente carente la motivazione della circostanza aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 convertito nella L. n. 203 del 1991, non essendo emerso che le supposte armi dovessero essere utilizzate per fatti di mafia ovvero per agevolare il programma associativo.

In merito al contenuto della medesima conversazione avente per oggetto il progetto omicidiario, si tratterebbe di un’esternazione del tutto episodica ed isolata, non risultando altre captazioni a carico dell’indagato ed essendo evidentemente molto fragile un quadro indiziario fondato su propositi vendicativi manifestati soltanto dagli altri due cugini, P.F. (classe 1984) e P. R., pure presenti al medesimo colloquio.

L’ordinanza impugnata, inoltre, avrebbe erroneamente attribuito a P.F. (classe 1987) la permanente partecipazione all’ipotizzata associazione di tipo mafioso, nonostante la mancanza di alcun elemento a riscontro dell’attualità del vincolo criminale.

Risulterebbero commessi, infine, rilevanti errori nella trascrizione del contenuto delle intercettazioni, laddove si attribuisce all’indagato la frase "il prendevamo tutti e due in una volta" (prima persona plurale), riferita alle designate vittime del progetto omicidiario individuate negli A., mentre le reali parole pronunziate sarebbero state: "il pigliavano tutti e due in una volta" (terza persona plurale con riferimento dell’aggressione all’opera di terzi), così come sbagliata sarebbe la trascrizione dei nomi di V. e C., con riguardo ai nemici A., in realtà mai nominati nel corso della conversazione, giusta consulenza di trascrizione depositata dalla difesa in sede di riesame, donde l’ulteriore vistosa carenza motivazionale per travisamento della fonte di prova a sostegno della ritenuta gravità indiziaria a carico del ricorrente.

Motivi della decisione

3. I motivi del ricorso sono infondati.

Innanzitutto, va rilevato che l’unicità della conversazione tra presenti, oggetto di intercettazione ambientale nel carcere di (OMISSIS), non inficia, di per sè, la motivazione della ritenuta gravità indiziaria a carico del P., correttamente apprezzata sulla base del contenuto della medesima conversazione e non del numero dei colloqui captati.

Contrariamente all’assunto del ricorrente, il Tribunale del riesame ha, poi, adeguatamente motivato la sua valutazione di gravità indiziaria con riguardo alla partecipazione del giovane P. all’omonimo sodalizio criminale di tipo mafioso a composizione prevalentemente familiare, senza incorrere in vizi logici o giuridici e, neppure, nel travisamento del contenuto della conversazione captata.

Da esso, al di là dei particolari irrilevanti sottolineati dai difensori (conoscenza da parte dell’indagato di uno solo dei nascondigli delle presunte armi e necessità di essere autorizzato dal più adulto congiunto detenuto per il prelievo delle medesime, e, ancora, riferimento in terza persona anzichè in prima persona plurale al colpo mortale da infliggere agli odiati avversari per vendicare l’omicidio del S.), emerge con estrema eloquenza, correttamente sottolineata dal giudice della cautela, l’intraneità del ricorrente alle strategie della cosca e ai mezzi a disposizione della stessa, e ciò al più elevato livello, rappresentato dall’urgente riaffermazione del predominio territoriale del sodalizio di appartenenza attraverso la pronta ed esemplare vendetta contro i suoi nemici, di cui lo stesso ricorrente si faceva impaziente promotore insieme ai congiunti, avvalendosi degli uomini e dei mezzi (armi) nella comune disponibilità.

Nel descritto contesto non assume alcun rilievo la discettazione civilistica dei difensori circa il titolo di effettivo possessore delle armi attribuibile al solo detenuto, P.R., e non anche all’attuale ricorrente, il quale avrebbe avuto bisogno dell’autorizzazione del primo per disporne, essendo invece significativo e assorbente il motivato riconoscimento dell’attiva partecipazione del giovane P.F. (classe 1987) alle attività e strategie della consorteria criminale, adeguatamente argomentato nell’ordinanza impugnata.

Il mero decorso del tempo, infine, non è sufficiente a far ritenere cessati i vincoli criminali del ricorrente con l’associazione di tipo mafioso, denominata cosca Pesce, il cui consolidato radicamento nel territorio di vita dell’istante e la perdurante attività, nonostante la detenzione del suo capo storico, grazie anche alla diffusa ramificazione del gruppo a composizione prevalentemente familiare, impegnano tutta la lunga premessa del provvedimento gravato.

In proposito, giova richiamare la giurisprudenza di questa Corte secondo cui, in tema di misure cautelari personali, il decorso del tempo dalla commissione del reato associativo di tipo mafioso, per il quale v’è un contesto di gravità indiziaria, assume rilievo al fine di superare la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari solo se e quando risulti con certezza che la persona sottoposta alle indagini abbia irreversibilmente reciso i legami con l’organizzazione criminosa di appartenenza (Sez. 2, n. 21106 del 27/04/2006, dep. 16/06/2006, Guerini, Rv. 234657), ciò che è da escludere nel caso in esame.

Segue, ai sensi dell’art. 615, comma 2, e art. 616 cod. proc. pen., il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

La cancelleria provvedere alle comunicazioni previste dall’art. 94 disp. att. cod. proc. pen., comma 1 ter.

P.Q.M.

Trasmessa copia L. 8 agosto 1995, n. 332, ex art. 23, n. 1 ter.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell’Istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94 disp. att. cod. proc. pen., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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