Cons. Stato Sez. IV, Sent., 16-09-2011, n. 5227 Concessione per nuove costruzioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.1. Gli attuali appellanti, S. A. C. D. J. e Bartolomeo C. De Judicibus – quest’ultimo anche quale procuratore delle Signore P. e A. A. – espongono che la controversia che li vede opposti al Comune di Molfetta ha avuto inizio nel 1982, allorquando l’Amministrazione Comunale rilasciò ai S. R. P., G. P., B. P., L. G., N. B., A. B. e N. A. delle concessioni edilizie nell’ambito di un piano particolareggiato senza obbligare costoro a cedere gratuitamente le aree necessarie per la realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria e senza chiedere la corresponsione dei relativi oneri.

Sempre secondo quanto riferito dagli appellanti, l’Amministrazione Comunale reperì tali aree all’interno del lotto finitimo, di loro proprietà, e che sarebbe stato quindi parzialmente appreso dal Comune medesimo in via del tutto arbitraria con occupazione del sedime non seguito da espropriazione.

Gli attuali appellanti espongono quindi che questa stessa Sezione annullò con decisione n. 674 dd. 4 marzo 1997 le concessioni edilizie nn. 643, 644, 646, 648 e 652 rilasciate dal Comune di Molfetta ai predetti titolari.

L’Amministrazione Comunale, peraltro, ancorchè ritualmente diffidata, non avrebbe – a detta dei medesimi appellanti – adottato alcun provvedimento al fine di eseguire la statuizione di questo giudice, tant’è che con susseguente decisione n. 1747 dd. 23 novembre 1999 dispose l’esecuzione coattiva del giudicato, eventualmente anche mediante Commissario ad acta della Regione Puglia.

Nondimeno, l’Amministrazione Comunale avrebbe posto in essere a preteso adempimento dei propri obblighi scaturenti dal giudicato "provvedimenti sfacciatamente elusivi" (cfr. pag. 3 dell’atto introduttivo del presente giudizio di appello) comminando ai titolari delle concessioni edilizia annullate la sanzione pecuniaria per l’edificazione abusiva senza quantificazione della stessa per poi – da ultimo – procedere all’adozione di un nuovo piano particolareggiato per l’area nella quale erano sorti gli edifici; e, soprattutto, "dimenticando" (cfr. ibidem) di essere tenuta a risarcire i danni discendenti dai provvedimenti amministrativi illegittimi da essa adottati e – per l’appunto – annullati dal giudice amministrativo.

1.2. In dipendenza di ciò, con ricorso proposto sub R.G. 10 del 2001 innanzi al T.A.R. per la Puglia, Sede di Bari, i S. A. C. D. J. e Bartolomeo C. De Judicibus – quest’ultimo, sempre, anche quale procuratore delle Signore P. e A. A. – hanno chiesto la condanna del Comune di Molfetta al risarcimento dei danni discendenti dall’adozione dei predetti titoli edilizi annullati ope iudicis.

A tale proposito, dopo aver riepilogato i fatti dianzi riassunti, i ricorrenti in primo grado hanno testualmente affermato che essi avrebbero subito "danni di rilevante entità" (cfr. pag. 3 dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado)

In primo luogo i ricorrenti medesimi affermano che l’Amministrazione Comunale, al fine di realizzare una strada per l’accesso all’attigua lottizzazione e la scuola ivi prevista, avrebbe illegittimamente appreso senza procedere all’espropriazione per pubblica utilità ben 5.491 metri quadrati di terreno, per un valore venale ammontante a quattro miliardi di lire (pari ad Euro 2.065.827,59), "considerato che lo stesso Comune l’11 dicembre 1982 fece sottoscrivere ai titolari delle concessioni edilizie l’impegno del seguente tenore: "si obbliga senza riserva alcuna e irrevocabilmente a riconoscere in favore del Comune di Molfetta, proporzionalmente alle aree da cedere per opere di urbanizzazione secondaria, il prezzo diverso da quello di esproprio che eventualmente il Comune dovrà pagare a favore dei Germani C. o altri espropriandi a seguito di esito favorevole del giudizio amministrativo dagli stessi promosso contro il Comune d Molfetta"" (cfr. ibidem, pag. 3 e ss.).

I medesimi ricorrenti in primo grado hanno pertanto rimarcato che ciò comproverebbe la circostanza per cui "il Comune sapeva fin da allora che doveva risarcire i danni e che il valore del suolo era ben maggiore di quello di esproprio" (cfr. ibidem).

I ricorrenti medesimi hanno inoltre chiesto che a Bartolomeo C., in quanto titolare di impresa edile, andasse pure riconosciuto l’ulteriore danno derivante dal mancato utilizzo in proprio delle aree contra legem sottratte e, conseguentemente, del mancato utile aziendale da quantificarsi in misura non inferiore ad un miliardo di lire (pari ad Euro 516.456,90).

Da ultimo, i ricorrenti hanno pure chiesto il risarcimento del danno derivante dall’abbattimento del loro fabbricato rurale insistente nell’area appresa contra legem, stimato in Lire 10 milioni (pari ad Euro 5.164,56), nonché il risarcimento del danno da mancato reddito dei beni parimenti sottratti contra legem,stimato a sua volta, in Lire 20 milioni (ossia Euro 10.329,13.) e il deprezzamento della parte residua del fondo pari a 50 milioni di lire (pari ad Euro 25.822,84).

In conseguenza di tutto ciò, i ricorrenti in primo grado hanno quindi quantificato la loro pretesa economica in complessive Lire 5 miliardi e 80 milioni (Euro 2.623.601,04), da rivalutarsi al momento dell’emanazione della statuizione giudiziale con gli interessi decorrenti dalla data dell’occupazione contra legem sino a quella del soddisfo del credito.

In via istruttoria i ricorrenti hanno chiesto al T.A.R. l’effettuazione di una consulenza tecnica d’ufficio al fine della quantificazione dei danni da loro asseritamente subiti.

1.3. Si è costituito in giudizio il Comune di Molfetta, concludendo per l’inammissibilità del ricorso e, comunque, per la sua reiezione nel merito.

1.4. Con sentenza n. 1634 dd. 25 marzo 2004 la Sezione III^ dell’adito T.A.R. ha dichiarato il ricorso in parte inammissibile e in parte infondato.

Il giudice di primo grado, dopo aver richiamato l’allora vigente art. 6, n. 3) del R.D. 17 agosto 1907 n. 642 laddove affermava che il ricorso proposto innanzi al giudice amministrativo deve contenere l’esposizione sommaria dei fatti, i motivi su cui si fonda, con l’indicazione degli articoli di legge o di regolamento che si ritengono violati e le conclusioni, ha affermato che l’esposizione sommaria dei fatti deve tendere a determinare il collegamento tra le situazioni vantate dal ricorrente e la realtà fattuale sui cui incide l’atto impugnato o il comportamento dell’Amministrazione.

Inoltre, sempre ad avviso del primo giudice, i motivi di ricorso si identificano indefettibilmente con l’elencazione dei vizi dell’atto oggetto del gravame e devono pertanto essere rappresentati in modo chiaro e puntuale: e ciò al fine di poter sicuramente individuare e circoscrivere il "thema decidendum," a pena dell’inammissibilità del ricorso medesimo.

Dopo aver dunque chiarito tutto ciò in linea di principio, il T.A.R. ha ritenuto che il ricorso innanzi a sé proposto era carente di una sufficiente e chiara esposizione dei motivi di fatto e di diritto a fondamento della pretesa di risarcimento del danno per occupazione abusiva del fondo, in quanto nell’atto introduttivo del giudizio si faceva – per l’appunto – riferimento ad una vicenda distinta, relativa a concessioni edilizie rilasciate ad altri soggetti, annullate da questo giudice di appello con l’anzidetta decisione n. 674 del 1997 per invalidità derivata e successivamente sanate dall’Amministrazione Comunale attraverso la rimozione dei vizi formali in esse ab origine esistenti, nel mentre non erano stati dedotti e illustrati argomenti di fatto o di diritto a sostegno della domanda.

Tale carenza, ad avviso dello stesso giudice di primo grado, produrrebbe pertanto nella specie la violazione dell’anzidetto art. 6, n. 3, del R.D. 642 del 1907, con conseguente pronuncia di inammissibilità del ricorso e, comunque, di infondatezza per genericità dei motivi dedotti: e ciò anche a prescindere dalla circostanza dell’avvenuta produzione in giudizio, da parte del Comune, di due atti di citazione proposti nei suoi confronti da parte dei medesimi ricorrenti e con i quali essi hanno dedotto le medesime pretese innanzi al giudice civile.

Il T.A.R. ha – altresì – condannato i ricorrenti in primo grado al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio di primo grado, liquidandole nella misura di Euro 3.000,00.

2.1. Con l’appello in epigrafe i ricorrenti in primo grado chiedono la riforma di tale sentenza, sostanzialmente reiterando le proprie deduzioni già illustrate in primo grado e contestando, comunque, il complessivo impianto della sentenza medesima.

In buona sostanza, gli appellanti reputano che con essa il giudice di primo grado non abbia recepito i canoni civilistici imposti dalla riforma del processo amministrativo introdotta dalla L. 21 luglio 2000 n. 205, posto che nel caso di specie non si verterebbe sull’impugnazione di atti illegittimi ma sulle conseguenze dannose arrecate dagli stessi e che – soprattutto – l’annullamento delle concessioni edilizie non dovrebbe essere ricondotto – come per l’appunto ha fatto il T.A.R. – a una mera "vicenda distinta", ma alla premessa di fatto necessaria e sufficiente per la proposizione della domanda risarcitoria.

Sempre ad avviso degli appellanti, la "prova principe" dell’avvenuta occupazione sine titulo delle aree di loro proprietà sarebbe costituita proprio dagli atti di citazione in sede civile notificati da loro al Comune in data 13 maggio 1996 e 8 luglio 1996, e nondimeno reputati irrilevanti dal giudice di primo grado.

In dipendenza di tutto ciò, gli appellanti hanno pertanto reiterato anche nel presente grado di giudizio le loro domande risarcitorie, nonché la richiesta istruttoria di nomina di un consulente tecnico d’ufficio.

2.2. Si è costituito anche nel presente grado di giudizio il Comune di Molfetta, concludendo per la reiezione dell’appello.

3. Alla pubblica udienza del 10 maggio 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione.

4.1. Tutto ciò premesso, l’appello in epigrafe va respinto.

4.2. Come ha correttamente evidenziato il giudice di primo grado, l’art. 6, n. 3), del R.D. 17 agosto 1907 n. 642, vigente all’epoca dei fatti per cui è causa, disponeva che il ricorso proposto innanzi al giudice amministrativo doveva contenere l’esposizione sommaria dei fatti, i motivi su cui si fondava, con l’indicazione degli articoli di legge o di regolamento che si ritenevano violati e le conclusioni.

Tale disciplina, costituente regola fondamentale del presente processo, è stata ora puntualmente riprodotta nell’art. 40 cod. proc. amm.

Altrettanto correttamente il giudice di primo grado ha affermato che l’esposizione sommaria dei fatti nell’ambito dell’atto introduttivo del giudizio doveva – e questo Collegio rimarca, a sua volta, che deve a tutt’oggi – consentire al giudicante di verificare il collegamento tra le situazioni vantate dal ricorrente e la realtà fattuale sui cui incide l’atto impugnato o il comportamento dell’Amministrazione.

Nel caso di specie tale verifica non è possibile.

Le concessioni edilizie rilasciate ai proprietari delle aree contermini sono state invero annullate dal giudice amministrativo, come pure è stato annullato dal giudice amministrativo il presupposto piano particolareggiato che aveva dato luogo all’illegittimo asservimento urbanistico del fondo di proprietà degli attuali appellanti rispetto al lotto 10, nel quale ultimo sono state – per l’appunto – realizzate le edificazioni sulla base dei predetti titoli annullati.

A fronte di ciò, tuttavia, va evidenziato che il pregiudizio lamentato dai ricorrenti, ossia l’ablazione contra legem della loro proprietà, trova per certo un presupposto nel piano particolareggiato anzidetto e nei titoli edilizi emanati in conseguenza di tale strumento urbanistico: ma risulta altrettanto assodato che tale presupposto non è unico, in quanto il danno si è determinato allorquando in concreto è stata posta in essere, in via ulteriormente consequenziale, la materiale apprensione contra legem di parte del fondo degli appellanti.

Detto altrimenti, il giudice di primo grado ha forse eccessivamente semplificato l’analisi della fattispecie allorquando ha considerato l’approvazione del piano particolareggiato e il rilascio dei titoli edilizi quale "vicenda distinta" rispetto a quella della materiale ablazione di parte del fondo dei ricorrenti: ma anche correttamente restituendo alle due vicende il rapporto di presupposizione che le connette, risulta con ogni evidenza che la seconda delle due, ossia l’ablazione dell’area destinata a standard e poi – a quanto sembra – utilizzata per la realizzazione di un edificio scolastico, non è stata provata in giudizio come avrebbe dovuto esserlo ai fini dell’accertamento del danno e della sua quantificazione.

Soltanto dal momento dell’apprensione illegittima del bene, coincidente con la violazione del diritto di proprietà degli attuali appellanti, può infatti essere verificata da questo giudice la sussistenza dei presupposti per accogliere la domanda di risarcimento del danno proposta da coloro che allegano di essere stati illegittimamente privati del proprio bene.

Nel caso di specie gli attuali appellanti hanno proposto in primo grado un atto introduttivo del giudizio dettagliato nella ricostruzione della vicenda sino alla statuizione di annullamento dei titoli edilizi da parte di questo giudice, ma del tutto carente di qualsivoglia illustrazione per quanto segnatamente attiene all’epoca in cui è stata consequenzialmente appresa la parte del proprio fondo destinata a soddisfare le esigenze di standard dei lottizzanti vicini, nonché della precisazione circa l’avvenuta emissione o meno di atti idonei a tale scopo da parte dell’Amministrazione Comunale, e – ancora – dell’ulteriore delucidazione circa l’avvenuto pagamento – o meno – di somme a titolo di occupazione provvisoria del sedime appreso.

Senza l’allegazione di tali elementi nessuna statuizione sulla domanda risarcitoria è possibile, posto che essi non possono essere dati come assorbentemente provati per la mera circostanza che i provvedimenti che avevano concluso altra e presupposta sequenza procedimentale sono stati caducati ope iudicis.

Né gli attuali appellanti possono ovviare a tali omissioni mediante l’affermazione che il giudice di primo grado non avrebbe recepito i canoni civilistici imposti dalla riforma del processo amministrativo introdotta dalla L. 21 luglio 2000 n. 205, concludendo tale loro dire con l’assunto per cui lo stesso giudice avrebbe in tal modo obliterato di considerare che nel caso di specie non si verterebbe sull’impugnazione di atti illegittimi ma sulle conseguenze dannose da questi arrecate.

Il Collegio, per parte propria, rileva che nel processo amministrativo, anche dopo l’entrata in vigore della L. 205 del 2000 e, a fortiori, anche dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di rito approvato con D.L.vo 2 luglio 2010 n. 104 (cfr. art. 64, comma 3, cod. proc. amm.), il sistema probatorio è per certo fondamentalmente retto dal principio dispositivo con metodo acquisitivo degli elementi di prova da parte del giudice, il quale comporta l’onere per il ricorrente di presentare almeno un indizio di prova perché il giudice possa esercitare i propri poteri istruttori (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 7 ottobre 2009, n. 6118): e ciò, per l’appunto, è contemplato dal "sistema" proprio in quanto il ricorrente, di per sé, non ha la disponibilità delle prove, essendo queste nell’esclusivo possesso dell’Amministrazione ed essendo quindi sufficiente che egli fornisca un principio di prova.

Viceversa, la disciplina contenuta nell’art. 2697 cod. civ. (corrispondente, ora, all’art. 64, comma 1, cod. proc. amm.) secondo la quale spetta a chi agisce in giudizio indicare e provare i fatti, deve trovare integrale applicazione anche nel processo amministrativo ogniqualvolta non ricorra tale disuguaglianza di posizioni tra Pubblica Amministrazione e privato, come – per l’appunto – nel caso di specie, laddove si verte esclusivamente sulla spettanza, o meno, di un risarcimento del danno: con la conseguenza che, a pena di un’inammissibile inversione del regime dell’onere della prova, non è consentito al giudice amministrativo di sostituirsi alla parte onerata quando quest’ultima si trovi nell’impossibilità di provare il fatto posto a base della sua azione (cfr., al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 10 novembre 2010 n. 8006).

Nel caso in esame, dunque, gli attuali appellanti si sono astenuti dal fornire la prova degli elementi di fatto su cui si fonda la loro pretesa risarcitoria, ossia – come detto innanzi – almeno i riferimenti dell’epoca in cui essi hanno subito l’apprensione dei loro beni, comunque documentabili mediante gli atti di immissione in possesso delle realità da parte dell’Amministrazione Comunale.

Né – ancora – l’omissione della prova stessa può essere surrogata con il rinvio fatto dagli appellanti medesimi ai contenuti degli atti di citazione da essi proposti in sede giudiziale civile contro il Comune al fine di ottenere ivi il valore dei beni espropriati, posto che gli atti introduttivi di quei giudizi, ancorchè qui paradossalmente prodotti dalla controparte pubblica, essendo atti provenienti dagli appellanti che illustrano i medesimi fatti per cui qui è causa, nulla aggiungono o tolgono a quanto gli appellanti medesimi avrebbero dovuto illustrare sin dal momento della proposizione del loro ricorso al T.A.R.; senza sottacere – poi – che proprio per effetto della sottoscrizione (documentata nella presente causa dagli stessi, attuali appellanti) dell’impegno dei lottizzanti a tenere indenne il Comune dei maggiori costi eventualmente sopportati per l’ablazione del fondo loro attiguo rispetto alle indennità di espropriazione, per la presente causa poteva comunque profilarsi anche una concorrente tutela in sede di giurisdizione ordinaria per l’ottenimento di tali voci di danno.

5. Il Collegio, nel respingere l’appello in epigrafe, reputa che comunque sussistono motivi di stretta equità per compensare integralmente tra le parti le spese e gli onorari del giudizio, nel mentre dichiara irripetibile il contributo unificato di cui all’art. 9 e ss. del D.L.vo 30 maggio 2002 n. 115.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Compensa integralmente tra le parti le spese e gli onorari del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *