Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 06-07-2011) 11-08-2011, n. 31884

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 20/5/2010, depositata il 12/7/2010, la Corte di Appello di Palermo ha confermato la sentenza 24/3/2009 emessa dal GUP del Tribunale di Palermo nei confronti di A.M. e M. G.M., riconosciuti responsabili del reato associativo pluriaggravato di cui all’art. 416 bis c.p., nonchè nei confronti di P.S. e P.R.A., riconosciuti responsabili del reato di cui alla L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies e D.L. n. 152 del 1991, art. 7, e condannati alle pene in atti precisate, con riconoscimento – in relazione all’ A. – di identità di disegno criminoso con i reati per i quali costui aveva riportato condanna con le sentenze 1/4/95 del Tribunale di Trapani e 20/5/2000 della Corte di Assise di Trapani, e con applicazione – in favore e degli imputati P.S. e P.R.A. – del beneficio della sospensione della pena.

Secondo l’ipotesi accusatoria l’imputato A. rivestiva un ruolo preminente all’interno del sodalizio criminoso operante in Castellamare del Golfo, gestendo le attività tipiche dell’organizzazione mafiosa (estorsioni, controllo del territorio, spartizione degli appalti etc….) ed avvalendosi – in ruolo esecutivo – del coimputato M., oltre che di altri, nel mentre i due fratelli P., figli di P.F. ritenuto reggente del mandamento di Trapani, avevano favorito attraverso l’intestazione di alcune quote della Sicilcalcestruzzi s.r.l. l’elusione delle norme in tema di misure di prevenzione patrimoniali e la commissione dei delitti di ricettazione e riciclaggio.

La Corte di merito, dopo aver riepilogato le argomentazioni poste a base della sentenza di primo grado e sintetizzato le censure avanzate dagli imputati con gli atti di appello, ha in primo luogo preso in esame le eccezioni di inutilizzabilità delle intercettazioni da più parti avanzate, anche sotto profili parzialmente diversi, e le ha disattese:

– affermando, quanto ai rilievi mossi dagli imputati P. in ordine alla carenza di motivazione dei provvedimenti, al difetto dei requisiti di urgenza ed indispensabilità, all’assenza di ragioni giustificatrici dell’utilizzo di impianti esterni, che trattavasi di rilievi assolutamente generici e quindi inammissibili;

– osservando, quanto alle censure mosse dall’imputato A. in ordine all’indebito utilizzo di impianti esterni agli Uffici della Procura ed alla carenza di motivazione ravvisabile nel decreto n. 170/06 del 24/1/2006 del P.M. e nel provvedimento di convalida 25/1/2006 del GIP, che il P.M. aveva dato conto con adeguata motivazione dell’esistenza di tutti i presupposti richiesti dalla legge per procedere alla intercettazione (attualità dell’attività criminosa, gravità degli indizi, indispensabilità ed urgenza dell’attività captativa, indisponibilità degli impianti presso la sala intercettazioni della Procura), e che, dal suo canto, il GIP aveva parimenti dato adeguata motivazione della sua valutazione di sussistenza e coerenza degli elementi richiamati ed allegati;

– rammentando, quanto alla lamentata mancata indicazione delle modalità esecutive delle intercettazioni da svolgersi in luoghi di privata dimora ed alla connessa questione di legittimità costituzionale, pure avanzate dall’imputato A., che il principio di inviolabilità del domicilio, sotteso all’eccezione de qua, doveva coordinarsi, subendo la necessaria compressione, con il principio della obbligatorietà dell’azione penale, tenuto conto che la collocazione di microspie all’interno di luoghi di privata dimora costituisce una necessaria e naturale modalità di attuazione quale mezzo di ricerca della prova funzionale al soddisfacimento dell’interesse pubblico all’accertamento di gravi reati.

La Corte territoriale ha poi proceduto alla disamina delle singole posizioni osservando, con specifico riguardo alle questioni poste nei motivi di gravame, quanto appresso sintetizzato.

Quanto all’ A., premesse le peculiarità dell’associazione mafiosa e la irrilevanza dell’acquisizione di prove circa la commissione dei reati-fine, la Corte di Appello ha rilevato che il tenore dei colloqui intercettati comprovavano l’attualità, a quella data e successivamente al periodo coperto dalle precedenti condanne, della compartecipazione dell’imputato nell’associazione mafiosa, egli interloquendo sulla gestione di attività estorsive tipiche dell’attività di "cosa nostra" e dimostrando di svolgere un ruolo nell’espletamento di siffatta attività.

Ad avviso della Corte di merito l’addebitato ruolo di promotore era comprovato dal suo atteggiarsi, da un canto, come referente diretto per le questioni attinenti il territorio di Castellamare del Golfo di P.F., "reggente" del "mandamento" di Trapani, e, dall’altro canto, come indiscusso punto di riferimento degli associati della famiglia mafiosa di Castellamare del Golfo.

Ha rilevato, infine, che la pena irrogata era congrua ed adeguata.

Quanto al M., premesse ancora una volta le peculiarità dell’associazione mafiosa e la irrilevanza dell’acquisizione di prove circa la commissione dei reati-fine, la Corte di Appello ha rilevato che attraverso l’attività captativa e i servizi di controllo era stata acquisita la prova della piena disponibilità del M. a far fronte alle richieste provenienti dall’associazione e quindi di una sua compenetrazione non meramente nominale nel sodalizio criminoso.

Egli fungeva da autista di B.P., reggente della famiglia mafiosa di Palermo Rocca-Mezzo Monreale, e garantiva i contatti dei referenti locali con costui, dimostrandosi pienamente consapevole delle competenze territoriali delle diverse famiglie mafiose, concordando con il B. le migliori modalità attuative per il raggiungimento degli scopi perseguiti, risultando coinvolto in progetti estorsivi riconducibili all’associazione mafiosa, fungendo da terminale di richieste di rilievo per il sodalizio e da tramite per lo svolgimento delle attività proprie del gruppo criminoso.

Ha soggiunto la Corte che la incomprensibilità di alcune frasi intercettate non inficiavano la univocità in senso accusatorio delle altre, tanto più se valutate unitariamente fra loro e con i servizi di osservazione e pedinamento svolti dalla P.G..

Pertanto, a criterio dei giudici di appello, anche nei confronti di tale imputato andava affermata la sussistenza delle circostanze aggravanti di cui all’art. 416 bis c.p., commi 4 e 6 costituendo dato storico e di comune esperienza il possesso di armi da parte dell’associazione mafiosa nonchè il reimpiego in attività economiche dei proventi delittuosi; infine, andava escluso che il ruolo del M. potesse considerarsi marginale.

Quanto ai fratelli P., la Corte di Appello, ripercorse le vicende della Sicilcalcestruzzi s.r.l. (compartecipazione di fatto alla stessa da parte di P.F., padre degli imputati;

immissione nella società da parte di costui di una notevole somma di denaro con acquisizione nel 2001, dopo la confisca del suo patrimonio a seguito di misura di prevenzione, del 50% delle quote societarie;

ingresso come soci nel 2003 degli attuali imputati P.S. e P.R. con acquisizione di una quota del 10% ciascuno), ha rilevato che i due imputati non avevano in realtà versato alcuna somma di denaro all’atto del loro ingresso nella società e che gli utili societari, pur dopo il loro ingresso, continuavano ad essere ripartiti – come nel passato – nella misura del 50% in favore di P.F. e dell’altro 50% in favore dei vecchi soci fondatori O..

La Corte, poi, ricordati i principi di diritto in relazione al reato contestato a tali imputati (elementi costitutivi, condotta, elemento soggettivo, etc.) e richiamate le argomentazioni svolte al proposito dal primo Giudice, ha inteso condividere le conclusioni alle quali questi era pervenuto, sottolineando che, dopo la già verificata attribuzione fittizia di quote da parte di P.F. nel 2001, quest’ultimo aveva attuato altra condotta elusiva nel 2003, a mezzo di un apparente esborso di denaro (lecitamente pervenutogli quale risarcimento da ingiusta detenzione) e di una fittizia intestazione di quote societarie ai figli, al fine di impedire che si potesse ricondurre a lui l’originaria proprietà ed al fine di evitare eventuali conseguenze in sede di prevenzione avuto riguardo alla provenienza delittuosa della somma originariamente investita.

Ebbene, ad avviso della Corte, di tutto ciò erano pienamente consapevoli i figli, che avevano quindi concorso nel reato agendo con il richiesto dolo specifico ed a carico dei quali poteva affermarsi che sussistesse l’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7:

i predetti imputati avevano infatti aderito consapevolmente alla condotta del padre e pertanto avevano consentito allo stesso di perseguire oltre che la finalità specifica della L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies anche quella di cui al D.L. n. 152 del 1991, citato art. 7.

Non avevano, infine, alcun fondamento le residue censure in punto di pena e di sequestro dei beni della Sicilcalcestruzzi s.r.l..

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso tutti gli imputati sopra indicati, e, segnatamente, il difensore di M.G.M. con atto del 2/10/2010 articolato su due motivi, i difensori di A.M. con atto del 20/10/2010 fondato su quattro motivi, il difensore di P.S. e P.R.A. con atto del 27/10/2010 esponente due profili di censura.

Motivi della decisione

Ritiene il Collegio che nessun fondamento abbiano le censure articolate nei ricorsi A. e M. nel mentre debba essere accolto in parte qua il ricorso proposto nell’interesse dei fratelli P.. Si esaminano, dunque, separatamente, le tre impugnazioni.

Ricorso proposto dai difensori dell’imputato A..

Con il primo motivo i ricorrenti hanno riproposto le eccezioni di inutilizzabilità delle intercettazioni ambientali prospettate dinanzi alla Corte di merito e dalla stessa disattese. Hanno al proposito osservato:

A) che dal combinato disposto delle norme codicistiche e costituzionali emerge che nella materia intercettiva non sono consentite attività che, una volta autorizzata l’intercettazione, non possono essere controllate, nel corso di svolgimento, dall’Autorità giudiziaria e, successivamente, con l’ostensione di tutti gli atti connessi all’intercettazione, dall’indagato;

B) che la tecnica della "remotizzazione" rendeva ingiustificata la registrazione in deroga motivata dalla necessità di far cessare al più presto l’attività criminosa in atto o dal pericolo di pregiudicare le indagini;

C) che, quanto alla motivazione dei provvedimenti autorizzatoli dell’attività captativa, non erano stati nella specie rispettati i principi che presiedono alla motivazione, anche per relationem.

Quanto al profilo di censura sub A) la Corte di merito ha rettamente richiamato la pronuncia di questa Corte n. 38716 del 2007 che espressamente, quanto condivisibilmente, esclude alcuna arbitrarietà od irragionevolezza nella adozione di tecniche intercettive intra moenia affermando essere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 266 c.p.p., comma 2, in relazione all’art. 14 Cost., posto che la collocazione di microspie all’interno di un luogo di privata dimora costituisce una delle naturali modalità di attuazione delle intercettazioni, le quali sono un mezzo di ricerca della prova funzionale al soddisfacimento dell’interesse pubblico all’accertamento di gravi delitti, tutelato dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost., che induce una indiscutibile limitazione del principio di inviolabilità del domicilio (al pari di quanto previsto dall’art. 15 Cost. in tema di libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione).

La stessa richiamata pronunzia di questa Corte ha infine osservato, altrettanto condivisibilmente, che l’autorizzazione a disporre le operazioni di intercettazioni rende superflua l’indicazione da parte del giudice delle modalità da seguire nell’espletamento dell’attività da parte della polizia giudiziaria, nel mentre la registrazione delle conversazioni intercettate offre la prova delle operazioni compiute nel luogo e nei tempi indicati dal giudice stesso e dal P.M..

E la censura in disamina che dichiaratamente è mera riproposizione di quella dispiegata in appello, neanche si fa carico di dissentire espressamente dall’argomentare della decisione di questa Corte puntualmente richiamata dal giudice del merito.

Quanto al profilo sub B), attingente i Decreti 24 e 26 gennaio 2006, la Corte di merito ha richiamato (pag. 41), per l’identica doglianza formulata dall’ A., le argomentazioni dispiegate in relazione all’appellante P. ed ha affermato essere stata prospettata nei decreti la assoluta attuale indisponibilità degli impianti siti presso l’Ufficio del P.M. e la impossibilità di attendere una prossima disponibilità degli stessi.

Ebbene, il ricorso, da un canto ignora come i requisiti afferenti la inidoneità degli impianti debbano essere affermati in relazione alla fase della registrazione delle conversazioni e non a quella dell’ascolto delle stesse (cfr. Cass. sent. n. 38160 del 2010 e S.U. n. 36359 del 2008) e, dall’altro canto, affaccia considerazioni e proposte sulla "scomparsa" del profilo dell’urgenza una volta applicate le tecniche della remotizzazione e del rimbalzo: pare appena il caso di notare come in tal modo vengano sottoposti profili di fatto e di valutazione tecnica che non hanno alcun ingresso in questa sede.

Quanto, poi, al profilo sub C) esso appare contenere una censura affatto inammissibile posto che, meramente riproduttivo di un motivo di appello, nè si confronta con il decisum della Corte (infatti censura solo quanto a pag. 12 della prima sentenza) nè allega con piena autosufficienza quali sarebbero state le doglianze sulla inconsistenza delle ragioni addotte nel decreto del P.M..

Con il secondo motivo i difensori ricorrenti hanno lamentato vizi di motivazione relativamente all’affermazione di responsabilità dell’imputato quale partecipe di una associazione ex art. 416 bis c.p., essendosi sostanzialmente basata la statuizione sul passato giudiziario dell’imputato e su elementi di nessuna valenza indiziaria, non potendo le conversazioni intercettate, per l’incompletezza dei colloqui registrati, per la cattiva qualità dell’intercettazione, per la cripticità del linguaggio e per la non sicura decifrabilità del contenuto assurgere a dignità di prova, nè potendo le stesse, pur non provando il fatto a cui ineriscono, di contro provare la fattispecie associativa come se la stessa fosse ipotesi succedanea o residua.

La censura riproduce gli argomenti impugnatori prospettati in appello (vd. pag. 44 della sentenza) e non riesce ad evidenziare, a carico della decisione della Corte di merito, nè violazioni di legge nè illogicità argomentative ma si traduce in una (riproposta) espressione di irricevibile dissenso dalle valutazioni che sui dati acquisiti la sentenza ha organicamente offerto ed illustrato.

Ed infatti, dopo una corretta analisi dei rapporti tra delitto di cui all’art. 416 bis c.p. e reati-fine rimasti allo stadio della progettazione o previsione e della indiscutibilità della prova della adesione al sodalizio desunta dalla piena condivisione dei progetti associativi (pagg. 44-46), la sentenza articola attente valutazioni sui colloqui tra l’ A. e P.F., M.G., P.F. (pagg. 46-53), rispetto ai quali, come dianzi detto, il motivo in disamina esprime solo un articolato quanto irrilevante dissenso.

Con il terzo motivo si sono quindi prospettati vizi di motivazione con riferimento alla qualità di promotore e reggente del sodalizio attribuita all’ A., rilevando in proposito che vari collaboratori erano stati concordi nel ritenere l’ A. solo "vicino" alla famiglia di Castellamare ma non "organico a "cosa nostra", che la precedente condanna lo aveva descritto come mero "partecipe", che dagli atti di causa non era emerso alcun elemento o condotta rilevante ai fini del ruolo di promotore, solo apoditticamente affermato. Anche a tale doglianza non può che rispondersi – come dianzi fatto – notando il carattere aspecifico che essa assume: la Corte territoriale ha preso in esame le non recenti qualificazioni che i collaboranti Br., M. e S. avevano riservato all’ A. (reputato solo vicino alla famiglia) e la loro anteriorità ai fatti dell’epoca alla quale le intercettazioni davano riscontro (2005-2006), fatti che consentivano di evidenziare a carico dell’imputato i tratti dell’effettivo referente di Castellammare del Golfo (pag. 54).

La censura posta nel motivo è espressione ancora una volta di indifferenziato dissenso dal decisum dei due gradi di merito, senza far emergere un solo punto nel quale esso sia affetto da omissione grave od illogicità di argomentazione.

Il motivo appare quindi inammissibile.

Con il quarto motivo, infine, la difesa ha lamentato l’eccessività della pena irrogata avuto riguardo ai reati presi in esame ed al rito applicato.

La doglianza non appare addurre alcun elemento che evidenzi violazioni e incongruità nelle attente considerazioni che sul trattamento sanzionatorio la Corte di merito ha formulato alle pagine 55 e 56 della sentenza.

Ricorso proposto dal difensore dell’imputato M..

Il ricorrente ha con un primo motivo (da ritenersi evidentemente subordinato rispetto alla seconda doglianza avanzata) prospettato violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche ed al trattamento sanzionatorio, rilevando al proposito gli elementi che evidenziavano una chiara disparità di trattamento rispetto al coimputato P.F..

La doglianza è priva di alcuna consistenza. La Corte di merito con attenta e accurata motivazione (pagg. 72, 73 e 74) ha preso in esame, alla luce delle censure riservate alle statuizioni del GUP sulle circostanze attenuanti generiche (negate) e sulle aggravanti di cui all’art. 416, commi 4 e 6 (riconosciute), la situazione emergente ex actis ed ha delineato il quadro della consapevole appartenenza alla associazione mafiosa "cosa nostra", con l’espletamento di compiti, nè direttivi nè organizzativi ma nondimeno di rilievo per l’affidabilità riconosciuta al soggetto.

E la congruità della valutazione non è attinta da alcuna seria critica da parte del ricorrente.

Affatto inconsistente è poi la doglianza di "disparità di trattamento" formulata con riguardo al tertium comparationis costituito dal riconoscimento delle attenuanti generiche al coimputato P. (disparità motivatamente esclusa dalla sentenza alla pag. 74).

Con il secondo motivo il difensore ricorrente ha parimenti lamentato violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla affermata responsabilità ex art. 416 bis c.p. Il ricorrente ha sottolineato in proposito:

1) che la mancata individuazione di un reato-fine avrebbe dovuto imporre alla Corte di merito una più attenta disamina degli elementi probatori;

2) che non erano stati dimostrati alcun inserimento dell’imputato nel tessuto organico del sodalizio, ovvero un suo contributo al mantenimento od al rafforzamento dello stesso, o comunque la volontà del M. di far parte della associazione criminosa per apportare un concreto contributo alla realizzazione dello scopo comune;

3) che non si era tenuto conto di elementi di favore (sostanziale incensuratezza dell’imputato, positivo stile di vita, assenza di riferimenti alla sua persona da parte di collaboratori di giustizia);

4) che l’unica fonte di prova costituita dalle conversazioni intercettate era assolutamente inidonea a comprovare l’accusa, considerata la poco percettibilità dei colloqui, l’impossibilità di una interpretazione univoca degli stessi e comunque la loro sostanziale irrilevanza a fini accusatori.

Nessuno degli esposti rilievo pare al Collegio colga nel segno.

Quanto a quello sub 1), basti rammentare che la sentenza, come già fatto per la posizione dell’ A., ha inteso espressamente farsi carico del problema della configurabilità dell’adesione al sodalizio da parte del M. pur in difetto di prova della consumazione di reati fine e lo ha risolto (pagg. 60 e 61 ) affermando che ex actis risultava una adesione nè rituale nè formale alle finalità del sodalizio, e quindi una disponibilità effettiva e non apparente.

Il che rende ultroneo il diffuso richiamo contenuto nel motivo a precedenti di questa Corte (sovente privi di effettiva pertinenza alla questione in disamina).

Quanto a quello sub 2), che costituisce la base fattuale della affermazione di rilevanza della adesione del M., la Corte analizza gli elementi che facevano emergere il ruolo del M. non limitato a quello di autista del B. ma esteso alla tenuta di collegamenti con i vertici delle varie famiglie mafiose nel territorio e segnato dalla piena condivisione dei progetti estorsivi palesatigli dai vertici del sodalizio (pagg. da 61 a 68).

E tale analisi non è fatta segno a censure di illogicità o contraddizione di sorta, ma solo a (generiche) proposizioni di dissenso.

Con riguardo ai profili sub 3), si tratta, all’evidenza, di inammissibili proposte di rivalutare il quadro probatorio sulla base di elementi "sottovalutati" dai giudici del merito (quali quelli afferenti la incensuratezza del M., il suo inserimento sociale, la mancanza di una sua affiliazione "rituale", la mancata commissione di reati-fine, la assenza di misura di prevenzione a suo carico), elementi che o sono stati ampiamente valutati o sono di evidente irrilevanza nell’ottica del controllo di completezza e congruità della motivazione afferente l’accertamento della responsabilità in ordine allo specifico delitto contestato.

Quanto infine al profilo sub 4), ed al di là del generico richiamo alla "irrilevanza" delle registrazioni acquisite, si deve prendere atto della attenzione che la Corte di merito ha riservato alle identiche censure rassegnate in appello sulla questione e del rigore analitico con il quale il giudice del merito ritiene di affermare una comprensibilità sostanziale delle conversazioni e la significatività del richiamo ad altrettanto analitici riscontri della lettura che dalle conversazioni era ragionevole trarre (pagg. da 68 a 72).

Le censure esprimono solo irrilevante dissenso da tale lettura affermando, con proposizioni irricevibili in questa sede, che da sussurri o mormorii non era lecito trarre conclusioni di sorta.

Ricorso del difensore degli imputati P.S. e P. R.A..

Il difensore ricorrente ha sotto un primo profilo denunziato come la tesi della simulazione del versamento del denaro di lecita provenienza fosse smentita dalla circostanza, non contraddetta in atti, della copertura da parte dei fratelli P., all’atto del loro ingresso nella società, del deliberato aumento di capitale, comportante un effettivo versamento di denaro del quale, anche a prendere atto delle dichiarazioni dei soci O. (che peraltro sarebbero dovute essere sottoposte a riscontro), non era emersa alcuna restituzione.

La censura non ha fondamento posto che la disponibilità da parte di P.F. di Euro 129.998,00 quale risarcimento per ingiusta detenzione è elemento acclarato ma di nessun rilievo, dato che non si scorge come da tale disponibilità possa ritenersi acclarata o quantomeno presumibile una sottoscrizione "paterna" dell’aumento di capitale del luglio 2003 e che la versione della restituzione immediata del denaro ricevuto dai germani (alla quale è correlata la affermazione del carattere simulato della loro sottoscrizione dell’aumento di capitale) è basata sulle precise ed attendibili dichiarazioni degli O. (fatte segno a generiche accuse di non persuasività in difetto di riscontri).

Il ricorrente ha con un secondo profilo sottolineato come nella specie, considerata la sottoponibilità alla misura ablatoria anche dei beni intestati ai familiari del soggetto raggiunto da misura di prevenzione, la condotta incriminata non fosse idonea a mettere in pericolo l’interesse protetto dello Stato e dovesse quindi essere ritenuta inoffensiva e non punibile.

La censura è priva di consistenza in diritto, posto che l’esistenza di una mera presunzione relativa di elusività nella intestazione di beni ai familiari del proposto ( L. n. 575 del 1965, art. 2 ter) non è certo elemento idoneo ad escludere ex se l’offensività del contestato delitto di concorso L. n. 356 del 1992, ex art. 12 quinquies commesso al deliberato scopo di eludere, appunto attraverso la propria interposizione fittizia, la efficacia di adottande misure di prevenzione patrimoniale.

Il ricorrente infine con un terzo profilo di censura ha rilevato, in ordine alla contestata aggravante, che, pur a seguire la ricostruzione dei fatti quale operata in sentenza, l’intestazione fittizia risultava finalizzata solo alla salvaguardia dei privati interessi della famiglia P. mentre l’ulteriore finalità mafiosa era stata indebitamente tratta dal curriculum vitae di P. F. ed automaticamente estesa ai figli.

La censura è fondata, sotto il prospettato profilo della erronea applicazione agli imputati della contestata aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7.

Che detta aggravante possa "convivere" con il contestato delitto di cui alla L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies è dato incontestabile, giusta il principio di recente rammentato da questa Corte (cfr. Cass. sent. n. 3472/2010) per il quale la circostanza aggravante del metodo mafioso – ovvero l’agevolazione mafiosa -, di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 convertito nella L. n. 203 del 1991, può trovare applicazione anche in relazione al delitto di trasferimento fraudolento di valori ( D.L. n. 306 del 1992, art. 12 quinquies conv. in L. n. 356 del 1992), non potendo la stessa ritenersi assorbita nella condotta integrante la predetta fattispecie incriminatrice. Ma tale situazione di compresenza è collegata ad una fondamentale condizione di compatibilità, quella per la quale il concorso nel delitto di trasferimento fraudolento (tramite intestazione fittizia) sia diretto alla consapevole agevolazione non solo del concorrente soggetto interponente ma anche dell’intera associazione mafiosa (della quale l’interponente faccia parte).

E’ stato del resto più volte precisato da questa Corte che in tema di favoreggiamento personale, l’aggravante di cui all’art. 378 c.p., comma 2 è compatibile con quella prevista dal D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7 convertito nella L. 12 luglio 1991, n. 203, quando il favoreggiamento si riferisca non solo alla persona facente parte dell’associazione di stampo mafioso ma sia diretto anche ad agevolare l’intera associazione (cfr. Cass. sentenze n. 16556 del 2010 e n. 35680 del 2005).

Nella specie, la Corte di Appello di Palermo ha applicato l’aggravante de qua con un automatismo vietato perchè basato su di un solo dato irrilevante ai fini della suddetta valutazione di "compresenza": il rapporto di filiazione tra interponente ed interposti. Si è infatti erroneamente affermato che l’avere concorso nella fraudolenta intestazione di quote sociali al fine di eludere le garanzie delle misure di prevenzione patrimoniali, in quanto effettuata in favore di un interponente-padre partecipante al sodalizio mafioso (il quale padre da tale interposizione riteneva potesse consolidarsi il sodalizio e la sua posizione in esso) comportasse la coscienza e volontà degli interposti-figli di agevolare non solo l’operazione elusiva ma le sue finalità ulteriori di rafforzamento del sodalizio mafioso.

L’arbitrarietà di siffatta applicazione della norma ad ipotesi nella quale, ex actis, mancavano le minime premesse applicative impone quindi, in accoglimento del ricorso, di annullare la sentenza nella parte in cui ha riconosciuto detta aggravante e di rinviare allo stesso Ufficio per la conseguente rideterminazione del trattamento sanzionatorio.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di P.R. A. e P.S. limitatamente all’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Palermo.

Rigetta nel resto il ricorso di P.R.A. e di P. S..

Rigetta i ricorsi di A.M. e di M.G.M. che condanna al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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