Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 18-05-2011) 11-08-2011, n. 31878

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza 12/7/10 la Corte di Appello di Bari confermava la sentenza 11/12/09 del Gip del Tribunale di Bari che in esito a giudizio abbreviato, con le attenuanti generiche, la continuazione e la diminuente del rito condannava i cittadini sudanesi E.M. A. e A.S.A. alla pena rispettiva di anni 16 e mesi 6 e di anni 13, mesi 3 e gg 10 di reclusione per i reati (commessi nel territorio nazionale dal marzo al maggio 2006) di associazione per delinquere transnazionale (aggravata dal ruolo direttivo degli imputati, dal numero dei partecipi e dalla finalità di violazione delle leggi sull’immigrazione) e concorso in plurime condotte di sequestro di persona a scopo di estorsione, di favorito ingresso (aggravato dal numero dei soggetti passivi del reato e dal loro trattamento inumano o degradante) e permanenza illegale dello straniero nel territorio dello Stato, di ricettazione e falsità materiale in certificazioni o autorizzazioni amministrative commessa da privato.

Giusta la ricostruzione degli inquirenti accolta dai giudici di merito, un rilevantissimo numero di intercettazioni telefoniche disvelava l’esistenza sul territorio italiano di un’organizzazione criminale gerarchizzata che aveva come prevalente attività quella di gestire la sistemazione o il passaggio sul territorio di un gran numero di immigrati clandestini arrivati in Italia dalle coste dell’Africa del Nord. In particolare il sodalizio criminoso, che aveva contatti con soggetti operanti in Libia (come M.S., separatamente giudicato), che organizzavano la raccolta e la partenza dei clandestini verso l’Italia, si occupava di favorire la fuga dai centri di accoglienza temporanea del Sud dell’Italia dei clandestini, i quali, con la promessa di essere aiutati e condotti in luoghi dove li attendevano parenti o amici già residenti in altre parti del territorio, si affidavano all’organizzazione stessa, della quale divenivano invece ostaggi, venendo loro richiesto, per essere liberati, il versamento di somme di denaro varianti tra i 250 e gli 800 Euro.

Per ottenere il riscatto l’organizzazione contattava direttamente i parenti o amici dei clandestini sequestrati, spesso col tramite delle stesse vittime che rappresentavano le condizioni di disagio e di segregazione in cui si trovavano e li invitavano a versare quanto prima il denaro richiesto. Solo allora venivano forniti di biglietto di viaggio e collocati su un treno che li portava a destinazione (per lo più a Milano). Altre volte, saputo dello sbarco, erano gli stessi parenti e amici, già a conoscenza del "sistema", a contattare i responsabili dell’organizzazione. In tali casi ad essere contattato era l’odierno imputato E.M. (o altri suoi sodali), mentre il versamento del denaro richiesto avveniva o a mani dell’altro odierno imputato A.S., residente a Milano, o a mezzo di bonifico eseguito sul circuito finanziario della Finint-Western Union o di società consimili.

Il giudice di appello, nel confermare il giudizio di primo grado, disattendeva tutte le doglianze difensive, processuali e di merito.

Ricorrevano personalmente per cassazione gli imputati con distinti atti a loro firma. E.M.A. deduceva: 1) violazione di legge (art. 63, comma 2. e art. 351 c.p.p.) e vizio di motivazione per la ritenuta utilizzabilità erga omnes delle dichiarazioni rese da parenti e amici dei clandestini (il giudice d’appello, nel silenzio in proposito di quello di primo grado, aveva inaspettatamente attribuito ai soggetti escussi, per escludere l’inutilizzabilità delle loro dichiarazioni, la scriminante dello stato di necessità: citava a conforto la sentenza di legittimità a S.U. n. 1282 del 9/10/96 e considerava come lo stato di necessità, peraltro assente nei non infrequenti contributi economici di amici e parenti prima ancora del viaggio, veniva comunque a cessare con la liberazione degli "ostaggi", mentre anche in seguito la condotta dei parenti e amici si configurava come favoreggiatrice della permanenza del clandestino in territorio italiano); 2) vizio di motivazione per la ritenuta inequivocità delle conversazioni intercettate e la loro attribuzione all’imputato (il giudice di merito si era basato su conversazioni, sms e ricevute di pagamento dove era presente il nome " A.", senza considerare che l’utenza telefonica non era a suo nome e che non era stata provata alcuna riscossione di denaro da parte sua; l’imputato era stato arrestato solo mesi dopo che il suo nome era comparso la prima volta nelle intercettazioni;

inutilizzabili, come detto nel primo motivo, le dichiarazioni di parenti e amici dei clandestini; si era sorvolato – spostando l’attenzione sul dato quantitativo degli indizi e su generali considerazioni sul modus operandi delle organizzazioni criminali – sugli errori in cui era incorso l’interprete di lingua araba nell’attribuire alcuni alias all’ A. ed in particolare il nome H. a lui invece che ad un non meglio identificato " K.", fermo restando che il formale intestatario dell’utenza telefonica, A.A., era stato prosciolto in primo grado); 3) violazione di legge in ordine al sequestro di persona, laddove dalle intercettazioni (inutilizzabili le interessate dichiarazioni di parenti e amici) non risultava alcuno stato di coercizione (e specialmente una sorveglianza armata) dei clandestini, mentre il denaro liberamente pagato dai parenti e dagli amici era solo il corrispettivo dei servizi resi ed ottenuti; 4) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento (a cominciare dalla fuga dai centri di accoglienza) dell’attenuante del concorso del fatto doloso della persona offesa nel determinare l’evento ( art. 62 c.p., n. 5). Concludeva in conformità.

Al S.A. (confesso in ordine al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina) deduceva vizio di motivazione per il difetto di qualsiasi elemento di prova in ordine alle modalità della sua partecipazione ai reati di sequestro di persona a scopi estorsivi e di associazione per delinquere e comunque alla sua consapevolezza di partecipare a tali reati: quanto ai sequestri di persona, la stessa sentenza dava atto che egli risiedeva a centinaia di chilometri dai luoghi delle fughe e poi delle pretese segregazioni, occupandosi solo della riscossione del denaro; quanto all’associazione, il suo rapporto era unicamente con l’amico e connazionale E.M.A.. Concludeva in conformità.

Alla pubblica udienza fissata per la discussione il PG concludeva per la declaratoria di inammissibilità di entrambi i ricorsi (in solo fatto il primo, generico il secondo), la difesa di A.S. per l’accoglimento del relativo ricorso. Nessuno compariva per A..

Entrambi i ricorsi, manifestamente infondati, sono inammissibili.

Col primo motivo A. contesta l’utilizzabilità erga omnes (ritenuta dal giudice d’appello, nel silenzio in proposito di quello di primo grado) delle dichiarazioni rese dai parenti e dagli amici dei clandestini fatti entrare in Italia, a giudizio del ricorrente non potendosi ravvisare per loro lo stato di necessità prima dell’ingresso dei familiari in Italia (non infrequenti in questa fase i contributi economici dei terzi) e comunque dopo il rilascio degli "ostaggi", laddove anche in seguito perdurava la loro condotta favoreggiatrice. La deduzione non ha pregio. A parte che le dichiarazioni in questione sono state assunte a riscontro delle numerosissime intercettazioni telefoniche in atti, la scelta del rito abbreviato, come correttamente ha osservato il giudice di merito, ha comportato per gli imputati anche l’accettazione di ogni eventuale inutilizzabilità che non sia patologica: e simile censura certamente non riguarda le dichiarazioni di chi, al momento in cui fu ascoltato, appariva (ed era, per come si dirà) vittima del reato ed agente, per il resto, in stato di necessità. Le situazioni di contributo economico prima del viaggio sono marginali: la costante è il versamento a causa del sequestro, laddove (anche se le pretese condotte favoreggiatrici successive di amici e parenti affermate dal ricorrente sono solo congetturali) il timore e l’assoggettamento non terminavano con il rilascio, ma fondatamente proseguivano finchè fosse perdurata la situazione di illegalità.

Di puro fatto, e pertanto inammissibili, le deduzioni del secondo motivo, a fronte di una sentenza di merito correttamente e congruamente motivata in ogni sua parte. Idem per il terzo motivo, dove si sovrappongono le vantazioni della parte a quelle debitamente e motivatamente espresse dal giudicante.

Manifestamente infondato il quarto motivo, mancando, come già rilevato dal giudice di merito, qualsivoglia comportamento delle parti offese (fosse pure la fuga dai centri di accoglienza) che abbia la necessaria valenza causale (materiale e psicologica) in relazione ai reati per i quali l’imputato è perseguito. Perchè ricorra l’attenuante in parola occorre che il fatto cosciente e volontario della persona offesa sia compiuto con l’intento (non imputabile all’agente) di aggravare le conseguenze del reato (e non quindi su sollecitazione dell’agente stesso) e non è comunque ravvisabile quando il consenso dell’offeso sia elemento costituivo della fattispecie criminosa o il suo stato di illiceità il presupposto per la commissione del reato da parte dell’agente.

Manifestamente infondato anche il ricorso A.S.. Con unico motivo egli, che pure ammette la condotta favoreggiatrice dell’immigrazione clandestina in concorso con l’amico e connazionale E.M.A., deduce carenza di prova in ordine alla propria consapevolezza di accedere ad un’organizzazione criminale ed ancor più alle modalità criminali, privative della libertà personale a scopo estorsivo, poste in essere dall’organizzazione medesima a centinaia di chilometri da Milano, ove egli risiedeva e si occupava solo di riscuotere il denaro.

L’argomento, deduttivo di una generale insufficienza probatoria nei suoi confronti, si risolve per un verso in una generica censura di fatto e per altro verso non tiene conto (risultando, per ciò, anche manifestamente infondata) delle complessive valutazioni fattuali e logiche che possono trarsi dall’ampia disamina delle prove in atti fatta dai giudici di merito. L’indistinto uso da parte dell’imputato di più utenze telefoniche, quella personale ed altra "di servizio" (messagli a disposizione dall’organizzazione per i suoi fini criminosi) e il suo diretto coinvolgimento in più telefonate con parenti delle vittime (la sentenza cita sei interlocutori) sono tali da far ritenere appieno la coscienza e la volontà del soggetto di accedere ad un’organizzazione più complessa di una semplice collaborazione a due con l’ A.. L’adesione all’associazione e le modalità stesse del suo agire erano tali da non consentire che un elemento dal ruolo così nevralgico e in provato contatto con i parenti delle vittime ignorasse gli antefatti delle telefonate di costoro, causa dei pagamenti che andava a ricevere.

Alla dichiarazione di inammissibilità segue per legge la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese e ciascuno di una congrua sanzione pecuniaria.

P.Q.M.

Visti l’art. 606, comma 3 e art. 616 c.p.p., dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del processo e della somma di 1.000 Euro ciascuno alla cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *