Cons. Stato Sez. V, Sent., 19-09-2011, n. 5281 Destituzione e dispensa dall’impiego Procedimento e punizioni disciplinari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La sig.ra F., dipendente della A.U.S.L. di Campobasso sottoposta a suo tempo ad un procedimento penale definito con l’applicazione della pena di un anno e dieci mesi di reclusione in applicazione dell’istituto del c.d. patteggiamento, impugnava dinanzi al locale T.A.R. il provvedimento del 27 novembre 1995 con il quale l’Amministrazione, in dipendenza di quanto emerso, le aveva inflitto la sanzione disciplinare della destituzione dal servizio.

A sostegno del gravame venivano articolati cinque mezzi, con i quali si deducevano i vizi di violazione di legge e di eccesso di potere sotto molteplici profili. In particolare, l’interessata si doleva: con il secondo motivo, del fatto che, pur avendo essa presentato le proprie dimissioni il 25/9/1995, confermandole il successivo 18/10/1995, il procedimento disciplinare a suo carico fosse proseguito senza conseguenze; con il terzo motivo, del mancato rispetto del termine di 90 giorni prescritto per la conclusione del procedimento disciplinare dall’art. 9 della legge n. 19 del 1990.

Il T.A.R. con la sentenza in epigrafe accoglieva il ricorso, in quanto reputava fondata quest’ultima censura, assorbendo le restanti doglianze.

Avverso tale decisione l’Amministrazione proponeva il presente appello.

L’appellante argomentava, come già nel giudizio di primo grado, sull’infondatezza del motivo accolto dal Tribunale, criticando quindi, sul rilievo della tempestività del provvedimento destitutorio, la pronuncia di accoglimento del relativo mezzo. L’Amministrazione esprimeva peraltro anche l’avviso che il Tribunale, ancor prima della disamina del motivo da esso reputato fondato, avrebbe dovuto valutare la precedente censura, asseritamente propedeutica, con la quale l’interessata si era doluta dell’omessa pronuncia in merito alle proprie dimissioni.

Si costituiva in giudizio in resistenza all’appello l’interessata, che svolgeva le proprie ragioni con controricorso e successiva memoria.

La medesima eccepiva l’intervenuta acquiescenza da parte dell’Amministrazione alla decisione del T.A.R, versando agli atti il provvedimento dell’8 marzo 1999 con il quale l’A.U.S.L. di Campobasso, nel richiamare la sentenza appena resa dal Tribunale precisando di doverne prendere atto, soggiungeva quanto segue:

"Rilevato, altresì, che la sig.ra F., nel corso della procedura disciplinare, aveva presentato istanza di dimissioni, e, con lettera del 18/10/1995, aveva ribadito e confermato la volontà di dimettersi;

Ritenuto pertanto che, nel caso di specie, in accoglimento dell’istanza della sig.ra F. e giusta sentenza sopra richiamata, la cessazione del rapporto di lavoro, con la stessa decorrenza del 27/11/1995, debba ricondursi alla fattispecie delle dimissioni;…

DELIBERA:

– prendere atto della sentenza TAR Molise n. 18/1999, con la quale è stato annullato il provvedimento n 28 del 27/11/1995 riguardante la destituzione…;

– dichiarare estinto, per dimissioni, il rapporto di lavoro della stessa A. F. con decorrenza 27/11/1995."

L’appellata argomentava, inoltre, a difesa della piena correttezza della sentenza in epigrafe, e riproponeva i motivi d’impugnazione dichiarati assorbiti dal Tribunale.

L’appellante, dal canto suo, con successiva memoria insisteva per l’accoglimento dell’impugnativa.

Alla pubblica udienza del 5 luglio 2011 la causa è stata trattenuta in decisione.

1 La Sezione non ritiene di poter accogliere l’eccezione di inammissibilità dell’appello articolata, dall’originaria ricorrente, sul fondamento di una supposta, precedente acquiescenza alla decisione da parte dell’Amministrazione appellante.

Si deve infatti osservare che, una volta annullato dal TAR il provvedimento destitutorio, e non essendo evidentemente più pendente il precedente procedimento disciplinare, l’accettazione delle dimissioni che l’interessata aveva da tempo presentato integrava, in pratica, un atto dovuto da parte dell’Amministrazione.

Tale atto di accettazione, quindi, non può essere considerato come espressione di una volontà incompatibile con la contestazione della sentenza e con l’interesse a vedere confermato il proprio originario provvedimento estintivo.

Costituisce, invero, pacifico insegnamento giurisprudenziale quello secondo il quale l’acquiescenza alla sentenza di primo grado presuppone atti o comportamenti univoci posti liberamente in essere dall’Amministrazione soccombente, che dimostrino la sua chiara, irrefutabile e definitiva volontà di accettarne gli effetti e l’operatività, e pertanto di non rimettere in discussione l’atto lesivo (cfr., fra le tante: C.d.S., IV, 28 marzo 2011, n. 1867; V, 21 settembre 2010, n. 7031; VI, 24 settembre 2010, n. 7125), estremi che non sono rinvenibili nella condotta assunta dall’Amministrazione nel caso concreto.

2 Nel merito, l’appello è fondato.

Merita di essere condivisa l’assorbente contestazione mossa dall’Amministrazione alla sentenza appellata a difesa della tempestività del proprio provvedimento destitutorio.

Il primo Giudice ha ritenuto meritevole di accoglimento la doglianza dell’interessata riflettente una violazione del disposto dell’art. 9, comma 2, della legge 7/02/1990 n. 19, a norma del quale "La destituzione può sempre essere inflitta all’esito del procedimento disciplinare che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni."

La giurisprudenza ha tuttavia definitivamente chiarito, nel frattempo, che la previsione appena trascritta va intesa nel senso che il termine perentorio di novanta giorni per l’irrogazione di sanzioni disciplinari comincia a decorrere non già dalla data dell’effettivo avvio del procedimento disciplinare, ma da quella della "scadenza virtuale" del termine di 180 giorni fissato dallo stesso art. 9 legge n. 19 cit., che definisce il periodo temporale massimo entro il quale – avuta conoscenza della sentenza penale di condanna – deve avere inizio (o proseguire) il procedimento. In altre parole, i termini di 180 giorni più novanta giorni sono destinati a cumularsi, indipendentemente dal momento in cui l’Amministrazione abbia avviato in concreto l’azione disciplinare: il legislatore ha inteso sollecitare la definizione della posizione del dipendente prevedendo un complessivo termine di 270 giorni, decorrente dall’avvenuta notizia della sentenza irrevocabile, entro il quale l’Amministrazione può legittimamente attivare e concludere il procedimento.

Il lasso temporale che non può essere superato, a pena di violazione della perentorietà del termine, è quindi quello totale di 270 giorni (v. fra le tante: C.d.S., VI, 15 dicembre 2010, n. 8918; 8 giugno 2010, n. 3632; IV, 18 marzo 2009, n. 1605).

Poste queste coordinate ermeneutiche, è immediato notare che la comunicazione della sentenza penale è pervenuta all’Amministrazione in data 17 giugno 1995, e la misura destitutoria da questa assunta è stata adottata il successivo 27 novembre 1995, e dunque con largo anticipo sulla scadenza del termine perentorio di cui si è detto.

Da qui l’infondatezza del motivo di gravame accolto dal primo Giudice. E solo per completezza si soggiunge che, sempre secondo la giurisprudenza, in caso di procedimento disciplinare conseguente a sentenza penale di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. l’Amministrazione non sarebbe neppure vincolata al rispetto dei termini di cui all’art. 9 comma 2, l. 7 febbraio 1990 n. 19, in tema di destituzione, essendo invece chiamata all’osservanza, in loro vece, dei termini dinamici di cui all’art. 120 t.u. 10 gennaio 1957 n. 3 (tra le tante: C.d.S., V, 23 giugno 2008, n. 3102; IV, 17 maggio 2010, n. 3128).

3 Non meno infondati sono i restanti mezzi a base del ricorso di primo grado, in questa sede riproposti.

3a La ricorrente lamenta che le norme disciplinari non fossero state portate a conoscenza del personale mediante affissione, giusta quanto previsto dall’art. 7 legge n. 300 del 1970 e dall’art. 59, comma 2, d.lgs. n. 29/1993.

Questo Consiglio, al riguardo, non può però che richiamarsi alla propria giurisprudenza, la quale ha già puntualizzato: per un verso, che, stante la mancanza di espresse comminatorie, non costituisce causa invalidante delle sanzioni inflitte la mancata affissione del codice disciplinare nel luogo di lavoro accessibile a tutti (IV, 27 marzo 2002, n. 1728); per altro verso, che la necessità di dare massima pubblicità, mediante affissione, alle norme relative alle infrazioni disciplinari, alle sanzioni e alle procedure di contestazione incontra un limite allorché si tratta di comportamenti, in se stessi, manifestamente lesivi dell’interesse dell’Amministrazione, quali quelli consistenti nella violazione di un obbligo penalmente sanzionato (IV, 23 ottobre 1998, n. 1382), la cui perseguibilità disciplinare è sotto questo profilo incondizionata.

Tale è, del resto, anche l’insegnamento della Suprema Corte di Cassazione (cfr. Sez. lav., 9 marzo 1995, n. 2762), la quale pure da ultimo ha ribadito (Sez. lav., 27 gennaio 2011, n. 1926) che, in tutti i casi nei quali il comportamento individuale sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al cosiddetto minimo etico o a norme di rilevanza penale, non è necessario provvedere all’affissione del codice disciplinare, in quanto il lavoratore può ben rendersi conto della illiceità della propria condotta, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare.

E non pare seriamente possibile dubitare della circostanza che gli addebiti ascritti all’interessata rientrassero nella categoria di illeciti da ultimo indicata. In presenza di fatti tanto pregnanti, qualsiasi ipotesi di buona fede legata alla mancata affissione del codice di disciplina diventa, allora, evidentemente insostenibile.

3b Venendo al secondo mezzo dell’originaria impugnativa, rileva il Collegio che il procedimento disciplinare legittimamente è proseguito, pur in presenza delle dimissioni dell’interessata, stante il disposto dell’art. 124, comma 4, T.U. imp. civ. Stato, che prevede che l’Amministrazione possa ritardare o rifiutare l’accettazione delle dimissioni in pendenza di un procedimento disciplinare ("quando sia in corso procedimento disciplinare a carico dell’impiegato"; analoga previsione è contenuta nell’art. 54, comma 3, del d.P.R. n. 761/1979).

Questo Consiglio ha avuto modo di precisare, d’altra parte, che nemmeno l’intervenuta accettazione delle dimissioni comporta necessariamente la improcedibilità del procedimento disciplinare (IV, 3 febbraio 2006, n. 477).

Quanto al profilo di disparità di trattamento dedotto con lo stesso mezzo, è agevole osservare che l’Amministrazione, nell’esercizio della discrezionalità riconosciutale dall’ordinamento, può legittimamente regolarsi caso per caso in modo diverso, a seconda della gravità degli addebiti mossi ai dipendenti rispettivamente interessati, della posizione individualmente ricoperta, e così via: e l’originaria ricorrente ha mancato di dimostrare l’effettiva assimilabilità della propria posizione a quella dei colleghi che avrebbero fruito di un trattamento asseritamente più benevolo. Anche questo profilo di doglianza si rivela, quindi, infondato.

3c Con il motivo successivo l’interessata ha prospettato una violazione dell’art. 59, comma 6, del d.lgs. n. 29/1993, per il fatto che non sarebbe stata data effettività alla sua facoltà di optare per una sanzione ridotta, con rinuncia all’impugnazione.

La norma così invocata, relativa al c.d. patteggiamento disciplinare, prevede, peraltro, semplicemente che "con il consenso del dipendente la sanzione applicabile può essere ridotta, ma in tal caso non è più suscettibile di impugnazione". E questo Consiglio ha già chiarito che solo ove l’Amministrazione ritenga discrezionalmente, in concreto, di poter ridurre la sanzione applicabile, essa, in tal caso dunque, indipendentemente da una richiesta del dipendente, deve chiedere il suo consenso (e può ridurre la sanzione solo ove ottenga tale consenso, la cui necessità è giustificata dal fatto che, ove esso sia prestato, il dipendente è privato della possibilità di impugnare il provvedimento sanzionatorio) (C.d.S., IV, 15 dicembre 2000, n. 6646).

Nella specie, tuttavia, l’Amministrazione, nella propria discrezionalità, non ha ritenuto di poter esprimere alcun giudizio favorevole alla riducibilità della sanzione applicabile, con la conseguenza che su di essa non gravava alcun onere di comunicazione al dipendente.

3d L’originaria ricorrente ha anche lamentato, in modo del tutto apodittico, una violazione dei termini previsti dal T.U. imp. civ. agli artt. 107 e 111, comma 3, rispettivamente, per la trasmissione degli atti alla Commissione di disciplina e per l’avviso all’incolpato della facoltà di prendere visione degli atti.

Si tratta però di scadenze delle quali la giurisprudenza ha già chiarito la natura non perentoria, ma semplicemente ordinatoria, in quanto non è comminata alcuna decadenza per la loro inosservanza, ed esse attengono ad adempimenti della procedura non funzionali ad essenziali esigenze di tutela del dipendente, per le quali soccorre invece il limite temporale perentorio di novanta giorni di cui all’art. 120 dello stesso T.U. (C.d.S., IV, 25 luglio 2007, n. 4142; 9 maggio 2010, n. 3169; 1° marzo 2010, n. 1178; 12 giugno 2009, n. 3799).

Solo per completezza si aggiunge che l’avviso indirizzato all’interessata ai sensi dell’art. 111 T.U. è stato inviato il 1924 ottobre 1995, e quindi comunque con congruo anticipo rispetto alla data della seduta del successivo 14 novembre, onde nessun vulnus sostanziale potrebbe dirsi arrecato alle sue esigenze difensive.

3e Riguardo al mezzo che residua, infine, si rileva: che il provvedimento destitutorio poneva espressamente a propria base la proposta di destituzione assunta dalla Commissione di disciplina; che i verbali di tale collegio nn. 21 e 22 del 1415 novembre 1995 (all. n. 11 all’atto di appello), e segnatamente le motivate conclusioni del suo membro relatore, approvate all’unanimità, recavano, in particolare, una sottolineatura della genericità delle difese che l’interessata aveva opposto alle precise domande rivoltele, riflettenti gli addebiti che costituivano materia del procedimento.

La proposta della Commissione era, dunque, motivata, e così pure, per relationem, il provvedimento finale che ad essa aveva fatto seguito. Il che smentisce la critica che l’Amministrazione avrebbe assunto la sentenza di patteggiamento a fondamento della propria misura senza alcun proprio autonomo apprezzamento, e senza nemmeno valutare le difese svolte dall’interessata.

4 Per le ragioni esposte, in conclusione, deve essere accolto l’appello dell’Amministrazione, e per l’effetto, in riforma della pronuncia del T.A.R., respinto il ricorso di primo grado.

Si ravvisano ragioni tali da giustificare la compensazione delle spese tra le parti in causa.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe, lo accoglie, e per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, respinge il ricorso di primo grado.

Compensa le spese del doppio grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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