Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 24-06-2011) 25-08-2011, n. 32842

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propone ricorso per cassazione L.M. avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame di Palermo in data 29 dicembre 2010 con la quale è stata confermata l’ordinanza applicativa della misura cautelare della custodia in carcere emessa in relazione alla contestazione provvisoria ex art. 110 c.p., e L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies, aggravato L. n. 152 del 1991, ex art. 7.

Al prevenuto è stato contestato – per quanto qui di interesse- di avere, in concorso con L.C.G. e Z.F. nonchè con L.A., accettato di assumere fittiziamente la titolarità di una ditta individuale di costruzioni, al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione, agendo con il fine di avvantaggiare la organizzazione mafiosa Cosa nostra. Il fatto si assume commesso il (OMISSIS), data di costituzione della detta società.

Il Tribunale ha posto a fondamento del provvedimento cautelare, quali gravi indizi di colpevolezza della sussistenza dell’elemento oggettivo del reato:

– le dichiarazioni del collaboratore di giustizia F. F. (reggente della famiglia mafiosa di P.M., cui apparteneva anche L.C.G.) il quale aveva riferito in più occasioni di una società dei L. ( A. il padre e M., il figlio), con soci occulti L.C.G. e Z. F., i quali però avevano imposto un rapporto di sfruttamento acquisendo tutti gli utili;

– a riscontro delle dichiarazioni, un pizzino del giugno 2006 trovato nel covo dei latitanti L.P. (all’epoca esponenti del comando della articolazione provinciale di Palermo della detta associazione mafiosa), documento nel quale si richiedeva l’intervento degli stessi destinatari per porre termine alla descritta esperienza imprenditoriale che, era nata, si diceva nel pizzino, per "essere messa a disposizione" e aveva portato anche ad utili che i soci occulti avevano trattenuto per inviarli, come dicevano, ai L. P., ma che era inutile continuare perchè ragione ormai solo di sfruttamento per essi;

– le intercettazioni ambientali eseguite nel 2005 in un immobile di R.A. a conferma del fatto che uno dei soci occulti con ampi poteri di gestione della società dei L. fosse L.C. G. (circostanza confermata anche da tale G.V.).

Quanto all’elemento soggettivo, nella specie della consapevole volontà di aiutare gli effettivi intestatari dei beni ad eludere le disposizioni in materia di misure di prevenzione, il Tribunale evidenziava.

– che pochi mesi dopo la costituzione della società di cui sopra, e quindi nell’ottobre 2001, era stata emessa l’ordinanza cautelare per fatti di mafie a carico del L.C., a dimostrazione del fatto che nei suoi confronti erano in corso indagini da tempo;

– che sulla appartenenza di Z. al sodalizio mafioso indicato, nel periodo qui di interesse, vi è la sentenza di condanna per l’art. 416 bis c.p., passata in giudicato.

Il Tribunale ha poi svalutato le dichiarazioni difensive dell’indagato il quale aveva sostenuto di avere stretto l’accodo simulatorio con L.C.I., poi ritenuto estraneo ai fatti con ordinanza del Tribunale del riesame del 2010. Solo in un secondo tempo, L.C.G. e Z. avrebbero esplicitato le finalità vere della nuova compagine societaria, destinata, a loro dire, a portare frutti ai L.P.. Invero, l’accordo risulta stretto con L.C.G., alla luce delle emergenze sopra ricordate, ed I. era subentrato in seguito quando il figlio Giuseppe, nell’ottobre, era stato arrestato.

I giudici del merito hanno ribadito la esistenza di gravi indizi anche a carico di L.M., il quale aveva anche ammesso di avere saputo che l’alleanza con L.C.I. era finalizzata ad ottenere più commesse in virtù della vicinanza con la consorteria mafiosa; e di avere saputo altresì della possibilità che su tale rapporto fosse decisivo intervento dei L.P., esponenti di spicco di Cosa Nostra, intervento da esso espressamente richiesto con il pizzino di cui sopra si è detto.

In ordine alla sussistenza della aggravante speciale L. n. 152 del 1991, ex art. 7, i giudici rilevavano che il più volte richiamato pizzino attestava la finalità dell’agire del ricorrente, che era quella di favorire anche il sodalizio mafioso nel suo complesso, "considerato che una parte degli utili di impresa era destinata direttamente ai L.P.".

Quanto alle esigenze cautelari, il Tribunale si rifaceva al disposto dell’art. 275 c.p.p., comma 3.

Deduce il ricorrente:

1) La violazione dell’art. 273 c.p.p., nonchè della L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies, e il vizio di motivazione;

I giudici si erano solo appiattiti sulla tesi del Gip senza fornire risposta ai numerosi rilievi difensivi.

In particolare era stata sollecitata la valutazione dell’interrogatorio del ricorrente il quale aveva negato l’addebito.

Non era vero che F. l’avesse accusato del reato in contestazione in tutti i suoi elementi costitutivi, compreso cioè quello,cioè, dell’essere stata, la impresa dei L., costituita al fine di consentire ai soci occulti la elusione delle norme di prevenzione.

Il F. si era limitato infatti a parlare della costituzione di una società con soci occulti.

Il c.d. pizzino del giugno 2006, d’altra parte, non dimostrava se non la ingerenza dei soci di fatto e la situazione pesante, ma di mera vessazione, che si era venuta a determinare a carico dei L..

Della stessa situazione erano testimonianza gli altri elementi indiziari indicati dal Tribunale (intercettazioni e deposizione di G.V.).

Quanto alla obiettiva esistenza delle pendenze per reati mafiosi a carico di L.C. e Z., la difesa sottolinea come non risulti che alla data di costituzione della ditta individuale (aprile 2001) – da tenere in considerazione in ragione della natura istantanea del reato in discussione – le indagini a carico di L.C. per il reato ex art. 416 bis fossero già avviate.

Relativamente alla posizione di Z., poi, la difesa evidenzia che la sentenza di condanna citata dal Tribunale non fa parte degli atti procedimentali.

Soggettivamente, poi non è dimostrato che il ricorrente fosse a conoscenza di tali eventuali pendenze considerato che la cattura di L.C. è stata eseguita mesi dopo la costituzione della società e che la sentenza di condanna a carico di Z. non è chiaro se "copra" fatti anche del 2001.

La verità, secondo la difesa, è quella rappresentata dai due L. negli interrogatori di garanzia e cioè che la società era stata di fatto costituita con L.C.I. per ottenere commesse.

Il Tribunale nel negare tale fatto, adduce argomenti tratti da una ordinanza (peraltro di annullamento della misura custodiale di L. C.I.) resa in un separato incidente cautelare.

In secondo luogo anche il pizzino valorizzato dal Tribunale risalirebbe a parecchi anni dopo la costituzione della società e starebbe ad indicare un rapporto con i L.P. da parte dei L., da questi percepito ed apprezzato solo dopo la costituzione della società di fatto (vedi dichiarazioni di F.).

Il coinvolgimento del ricorrente nel delitto de quo, d’altra parte, era stato stabilito sulla base della redazione del pizzino del 2006, avvenuta, come detto, parecchi dopo l’avvio della società e senza che si sia data prova alcuna della reale cointeressenza del M. nella gestione della ditta del padre;

2) I a violazione della L. n. 152 del 1991, art. 7, e il vizio di motivazione.

Non risulta dimostrata la finalità, del ricorrente di avere volto favorire il sodalizio mafioso di riferimento e non, semmai, soltanto taluni personaggi di vertice come il L.P..

Tale finalità era stata desunta dal rapporto con i L.P. i quali, però, nel contesto degli stessi incidenti cautelari riguardanti la operazione di PG in esame, erano stati riconosciuti dal Gip estranei al reato, non essendovi prova di una intromissione dei L.P. nella gestione della società di fatto.

In ogni caso anche la dichiarazione di disponibilità dell’estensore del pizzino non poteva dimostrare la volontà di favorire la consorteria mafiosa;

3) La violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alle esigenze cautelari.

Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

Non è da condividere l’assunto del ricorrente secondo cui nel provvedimento in esame il Tribunale si sarebbe rimesso alle valutazioni del Gip limitandosi a reiterarle senza considerare le contrarie osservazioni della difesa.

E’ bene ricordare che il Tribunale aveva il dovere di analizzare il materiale indiziario per saggiarne la valenza secondo la standard della "elevata probabilità" dimostrativa ed inoltre era tenuto ad una considerazione del complesso materiale investigativo secondo un modulo opposto a, quello della parcellizzazione dei singoli elementi.

Rispetto a tali canoni generali, la ordinanza impugnata si presenta capace di superare il vaglio del giudice della legittimità, diversamente da quanto rivendicato dalla difesa impugnante.

Invero può darsi per non contestato il fatto obiettivo – desunto in particolare dalle dichiarazioni del collaboratore F. – della accettazione da parte dei ricorrenti di far parte di una società di fatto con esponenti locali della associazione mafiosa cosa nostra:

una società che appare realizzata obiettivamente come espressione di una interposizione fittizia da parte dell’imprenditore apparente ( L.), essendo la ditta individuale intestata ad uno dei componenti della famiglia L., ma corrispondendo, nella sostanza, ad una società destinata ad operare nel campo delle costruzioni, con utili di qualche apprezzabilità acquisiti per la massima parte dai soci occulti L.C. e Z..

Per quanto non censurato dalla difesa, va ribadito il principio secondo cui integra il reato di trasferimento fraudolento di valori, previsto dalla L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies, comma 1, la fittizia costituzione di una nuova società commerciale volta ad eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale, attraverso l’intestazione delle quote a soggetti utilizzati come prestanome dei reali proprietari, risultati essere amministratori e soci occulti di altra società dichiarata fallita (Rv. 249457).

E’ stato anche sottolineato che commette il reato di trasferimento fraudolento di valori, previsto dall’art. 12 quinquies, citato colui che, per eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale, acquisti la qualità di socio occulto in una società "già esistente", partecipando alla gestione e agli utili derivanti dall’attività imprenditoriale (Rv. 226607).

Val la pena al riguardo subito precisare che, quanto alla cointeressenza da parte del ricorrente L.M. in tale operazione, il Tribunale ha argomentato il proprio convincimento positivo facendo riferimento al "pizzino" che nel 2006, a firma appunto di L.M., era stato recapitato ai L.P. – esponenti di vertice di Cosa nostra – con richiesta di intervento sugli altri "sodali- soci occulti" e reiterazione della promessa della disponibilità e dedizione della propria famiglia. Ed il fatto che la società fosse stata costituita anni prima, nel 2001, si dice tra soggetti terzi (il padre del ricorrente e L.C.I.), è stato giustamente ritenuto dal Tribunale inidoneo a scalfire l’assunto della consistenza obiettiva della condotta penalmente rilevante atteso che ciò che rileva è, dal punto di vista sia oggettivo che soggettivo, per la configurabilità del reato in discussione, il momento della congiunta operatività, in una società anche di fatto ad intestazione fittizia, tra il prestanome e il o i soci occulti che mirino alla elusione delle misure di prevenzione.

Orbene, data la descritta intestazione fittizia della società, destinata a non far figurare tra i propri "domini" proprio coloro ( L.C. e Z.) che, secondo tutte le emergenze descritte nell’ordinanza, erano i percettori della quasi totalità degli utili di impresa, resta da valutare la doglianza residua: quella che investe la motivazione della ordinanza impugnata con specifico riferimento alla bontà o meno dell’assunto secondo il quale il ricorrente agiva al fine di consentire ai correi di eludere le misure di prevenzione antimafia e con la volontà altresì di agevolare la intera associazione mafiosa di riferimento.

Sotto il primo profilo si osserva che – ferma restando la irrilevanza della concreta irrogazione di una misura di prevenzione ai soci occulti (Rv. 243163) – il Tribunale ha posto in risalto come i due soci di tal fatta fossero oggetto di indagini relativamente alla ipotesi di partecipazione ad associazione mafiosa, essendo il L. C. raggiunto successivamente da ordinanza di custodia cautelare e lo Z. condannato con sentenza poi divenuta definitiva.

Si tratta di una attestazione in parte basata su dati storici (la emissione di una ordinanza di custodia cautelare alcuni mesi dopo la costituzione della società di cui si tratta e la adozione di una sentenza di condanna) e in parte su considerazioni di ordine logico, apparendo plausibile ritenere che un titolo custodiale eseguito nell’ottobre 2001 e una sentenza di condanna per fatti di mafia contestati con imputazione c.d. "aperta" fino al 2004, possano essere reputati indicativi della esistenza in corso di indagini per mafia a carico di Z. e L.C. nel periodo qui di interesse, ossia nel 2001.

D’altra parte, proprio il principio sopra ricordato in materia di subentro in società già esistente da parte del socio occulto, con finalità di elusione, rende evidente che la tesi difensiva del ricorrente, secondo cui in origine l’accordo per la società di fatto sarebbe stato preso con L.C.I. (estraneo al disegno criminoso), porta argomenti a favore del rilievo che la data della costituzione della società non è necessariamente quella del commesso reato, ma quest’ultima potrebbe risultare più avanzata, in relazione cioè al momento in cui lo strumento societario è stato concretamente utilizzato per consentire ai nuovi soci occulti implicati in vicende di mafia, di conseguire il risultato di realizzare utili destinati ad essere sottratti alle misure di prevenzione patrimoniali.

In merito poi alla consapevolezza e volontà del duplice fine sopra indicato, il Tribunale ha argomentato in maniera completa ed esaustiva data la sede cautelare in cui si esamina la materia procedimentale.

Bene è stato sottolineato dai giudici,cioè, che il famoso pizzino del 2006, scritto dal ricorrente ai L.P. fosse dimostrativo della piena percezione, da parte del L., della caratura mafiosa dei soci occulti, in riferimento ai quali l’estensore del bigliettino si rivolgeva infatti alle istanze gerarchiche superiori per un intervento a proprio favore.

E conoscere la implicazione dei soggetti rispetto ai quali il L. fungeva da prestanome nella attività imprenditoriale è elemento che evoca, in stretta connessione logica, quello della consapevolezza e volontà anche di agevolarli, con l’accettazione appunto di far parte della società di fatto destinata ad implementare prevalentemente le casse dei soci occulti, nella elusione di norme di prevenzione patrimoniale: norme che, come è noto in tutti gli ambienti malavitosi del genere in esame, si accompagnano alla pendenza di un procedimento per appartenenza ad associazione mafiosa.

Anche la finalità di agevolare la intera consorteria mafiosa, secondo lo schema normativo della aggravante speciale ex art. 7, ha formato oggetto di una disamina adeguata da parte del Tribunale del riesame.

Ancora una volta il biglietto spedito nel 2006 aveva un contenuto giustamente ritenuto altamente indiziante da parte dei giudici.

Questi hanno bene posto in evidenza che con quel biglietto il prevenuto ha esplicitato il proprio pregresso consenso a che gli utili della società di fatto con i mafiosi locali fosse in parte destinato proprio ai L.P..

E il dato della sistematicità dell’invio di tali utili – quantomeno nella rappresentazione del ricorrente, ammessa nel pizzino – rimanda ad uno schema operativo proprio della associazione mafiosa, con flussi di redditi da illecito convergenti verso gli esponenti di vertice: schema che correttamente è stato valorizzato come indice di una consapevole volontà, da parte dei L., di favorire, con gli utili stessi, non già soltanto la persona del capo mafia ma anche l’intero gruppo criminale che, anche dalla sua gestione, dipendeva per la propria vitalità e sopravvivenza.

A fronte di tale complesso schema motivazionale, le doglianze della difesa suonano come volte a insinuare il dubbio di una possibile diversa lettura delle emergenze procedimentali e cioè come una sollecitazione – inammissibile nella presente sede di legittimità – ad una rivalutazione del materiale indiziario.

Priva di rilevanza, per quanto fin qui si è detto, risulta l’ultima delle censure, basata sul rilievo, non accolto, della insussistenza della aggravante speciale e quindi della inapplicabilità della presunzione di adeguatezza dell’art. 275 c.p.p., comma 3.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Manda la cancelleria per le comunicazioni ex art. 94 disp. att. c.p.p..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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