Cass. pen. Sez. feriale, Sent., (ud. 23-08-2011) 02-09-2011, n. 33000

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro, veniva riformata solo in punto pena la condanna inflitta dal Tribunale di Paola, a C.L., per vari episodi di estorsione consumata, compiuti dal 2000 all’anno 2003. Sulla base delle dichiarazioni testimoniali del titolare del locale (OMISSIS) e del suo collaboratore, l’imputato era stato ritenuto autore di numerosi episodi di violenza posta in essere per farsi servire prima degli altri clienti del locale e per farsi somministrare consumazioni gratuitamente.

Quanto alla corretta identificazione dell’imputato, la corte ribadiva che lo stesso era conosciuto come C.L. dalla ristretta comunità di appartenenza e che i due testimoni escussi si erano detti certi della esatta identificazione, a nulla potendo rilevare il mancato espletamento di individuazione fotografica. Venivano poi ritenute ininfluenti le deduzioni difensive volte a scardinare la fondatezza dell’accusa, in ragione del fatto che altro imputato, tale C.M., che si era presentato in aula, era stato scagionato dal teste che lo aveva chiamato in causa, avendosi riguardo a posizioni diverse e non assimilabili.

Il fatto veniva ritenuto correttamente inquadrato in termini di estorsione e non di violenza privata, come richiesto dalla difesa, avendosi riguardo ad atti di violenza mirati al conseguimento di un ingiusto vantaggio economico.

2. Avverso detta sentenza ha interposto ricorso per Cassazione la difesa, per dedurre con unico motivo vizio di carenza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, vizio di violazione di legge ed in particolare degli artt. 192, 194 e 533 cod. proc. pen., nonchè vizio di travisamento della prova.

Secondo la difesa, la corte territoriale sarebbe incorsa in un difetto di motivazione, in quanto le dichiarazioni testimoniali di M.E. e F.G., andavano intese nella loro interezza, emergendo dai loro rispettivi assunti una conoscenza dell’imputato – quanto alle sue esatte generalità- solo "per sentito dire"; le loro dichiarazioni sarebbero fondate su voci correnti incontrollabili, inidonee quindi a fondare una pronuncia in termini di certezza. Non sarebbe un caso che la iniziale identificazione dell’altro imputato, C.M., avvenuta sempre su voci correnti, in sede dibattimentale non trovò conferma, poichè costui non venne riconosciuto dal teste M.E.. Viene quindi chiesto l’annullamento della sentenza.

Motivi della decisione

Va premesso che in relazione a detto ricorso è stato dichiarata l’urgenza della trattazione nella prospettazione dello spirare del termine di prescrizione, quanto al reato di tentata estorsione, per cui invero era intervenuta pronuncia assolutoria. Peraltro, poichè all’odierna udienza la difesa nulla ha opposto, si è provveduto comunque alla celebrazione dell’udienza di discussione.

Il ricorso è manifestamente infondato e deve essere dichiarato inammissibile.

La corte territoriale ha infatti compiutamente argomentato sulla corretta identificazione dell’imputato. Indicato da più voci come L. e specificatamente menzionato come C.L. dai testi più direttamente interessati dai fatti delittuosi, M.E. e F.G.: i medesimi hanno precisato di aver conosciuto l’imputato con quel nominativo, nel comune ristretto ambiente di appartenenza. Tale rappresentazione non consente -come opinato dai giudici di merito – di ricondurre la identificazione dell’imputato a mere voci correnti non verificabili, non potendosi trascurare che il dato era patrimonio conoscitivo non di una sola persona in quel preciso contesto. Il fatto che su C.M. il teste M. E. si sia confuso non poteva condurre automaticamente a dubitare dell’affidabilità dell’identificazione dell’imputato, perchè come ha spiegato la corte territoriale, il teste ha dato ampia ragione della sovrapposizione che ebbe ad operare e che superò, una volta avuta la presenza dell’interessato, presenza che invece l’imputato non ritenne di assicurare. Si deve quindi concludere che non solo l’iter argomentativo della sentenza impugnata non è illogico, ma che la sentenza non sconta alcun deficit motivazionale.

Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso, riconducale a colpa del ricorrente, consegue la sua condanna al pagamento delle spese del procedimento e di somma che congruamente si determina in Euro 1000,00 a favore della cassa delle ammende, giusto il disposto dell’art. 616 c.p.p., così come deve essere interpretato alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 186/2000.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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