Corte Suprema di Cassazione – Penale Sezione III Sentenza n. 34422 del 2006 deposito del 13 ottobre 2006

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. e B. F. erano imputati entrambi: a) del reato previsto e punito dagli articolIl10, 323 cpv. Cp perché nella loro qualità di dirigenti della comunità per il recupero di tossicodipendenti denominata Gente Nostra, iscritta provvisoriamente nell’elenco riconosciuto dalla Regione Lazio con delibera g.r. n. 7945 del 17 ottobre 1990 e pertanto di incaricati di pubblico servizio, gestendo tale comunità in modo contrario alla legge ed in particolare non fornendo agli ospiti alcun sostegno terapeutico o psicologico, non garantendo le condizioni igieniche minime non sottoponendo gli stessi ad alcun trattamento riabilitativo e fornendo cibi avariati e scaduti, abusavano del proprio ufficio al fine di procurarsi un ingiusto vantaggio patrimoniale, consistente nelle somme di denaro e beni in natura corrisposti dagli ospiti e dalle loro famiglie (in Sezze fino al 14 febbraio 1995).

Inoltre il solo C. era imputato: b) del reato previsto e punito dagli articoli 81 cpv, 519 Cp perché con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso si congiungeva carnalmente con B. Ermelinda, quando la stessa non era in grado di resistergli a cagione delle proprie condizioni di inferiorità psico, fisiche, essendo la B. tossicodipendente in cura presso la comunità Gente Nostra, diretta dal C. ed avendo quest? ultimo in diverse occasioni provveduto a somministrare alla B. sostanze stupefacenti ed alcooliche proprio al fine di ridurne la capacità di resistenza. Con l’aggravante di aver commesso il fatto con abusi di poteri e violazione di doveri inerenti ad un pubblico servizio (in Sezze fino all’agosto 1994).

In particolare con decreto emesso il 1 luglio 1996 dal locale Gup C. L. e B. F venivano rinviati dal giudizio del Tribunale di Latina per rispondere dei reati suddetti.

All’esito del dibattimento il tribunale con sentenza del 15 maggio 2001 dichiarava C. L. colpevole dei reati a lui ascritti in rubrica e lo condannava per l’imputazione di cui al capo A) alla pena di mesi quattro di reclusione e per l’imputazione di cui al capo B) alla pena di anni tre e mesi due di reclusione determinando in complessivi anni tre e mesi sei di reclusione la pena finale da applicarsi, oltre al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare in carcere; dichiarava il predetto imputato interdetto dai pubblici uffici per la durata di anni 5; assolveva B. F. dall’imputazione ascrittagli per non aver commesso il fatto.

2. La Corte d’appello con sentenza del 15 dicembre 2003 riformava la sentenza del Tribunale di Latina, del 15 maggio 2001, appellata da C. L., e per l’effetto dichiarava non doversi procedere, nei confronti dell’imputato, in ordine al reato sub A, perché estinto per prescrizione; eliminava la relativa pena. Determinava la pena, per il reato sub B, concesse le attenuanti generiche prevalenti, in due anni e un mese di reclusione. Revocava l’interdizione dai pubblici uffici. Confermava nel resto l’impugnata sentenza.

5. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione l’imputato con sette motivi di impugnazione.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è articolato in sette motivi.

Con il primo motivo il ricorrente si duole del fatto che la Corte d’appello si sarebbe limitata a motivare per relationem alla sentenza di primo grado e comunque erroneamente avrebbe ritenuto la qualità di incaricato di pubblico servizio.

Con il secondo motivo si duole del rilievo probatorio dato ad atti di polizia giudiziaria senza delega.

Con il terzo motivo contesta, quanto al contestato abuso d’ufficio, l’esistenza del vantaggio patrimoniale che condizionava la sussistenza del reato prima della legge 234/97.

Con il quarto motivo censura l’impugnata sentenza per non aver tenuto in adeguato conto la ritrattazione del teste F. e la contraddittorietà della deposizione della parte offesa B..

Con il quinto motivo contesta la ritenuta soggezione psichica della parte offesa.

Con il sesto motivo si duole della mancata assunzione di ulteriori testimonianze.

Con il settimo motivo pone in rilievo che la qualità di incaricato di pubblico servizio era venuta meno nel 1992.

2. Deve premettersi che della comunicata adesione del 12 luglio 2006 del difensore di fiducia, avv. A. F., all’astensione dalle udienze indetta dal Consiglio Nazionale forense dal 10 al 21 luglio 2006 non può tenersi conto perché successiva alla comunicazione (del 6 luglio 2006) di illegittimità dell’astensione medesima da parte della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali in ragione del mancato rispetto del termine di preavviso e del limite di durata della prima azione di sciopero.

Ed infatti, in generale in caso di astensione degli avvocati dall’attività giudiziaria, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’articolo 2, commi 1 e 5, legge 146/90, nella parte in cui non prevede, nel caso dell’astensione collettiva dall’attività giudiziaria degli avvocati, l’obbligo di un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dell’astensione e non prevede, altresì, gli strumenti idonei ad assicurare le prestazioni essenziali, nonché le procedure e le misure conseguenziali nell’ipotesi di inosservanza (Corte costituzionale 171/96; cfr. anche ordinanze 273 e 318/96, 105 e 106/98), vige l’obbligo di preavviso la cui funzione tipica consiste nel consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili ai fini del godimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati e di favorire lo svolgimento di eventuali tentativi di composizione del conflitto.

3. Il primo ed il settimo motivo del ricorso, che possono essere trattati congiuntamente in quanto connessi, sono infondati.

Da una parte, come ha già affermato questa Corte (Cassazione, Sezione sesta, 14 giugno 2004, Cerone), è legittima la motivazione per relationem della sentenza di appello nel caso in cui le censure formulate a carico della sentenza del primo giudice non contengano elementi di novità rispetto a quelli già esaminati e disattesi dallo stesso, atteso che il giudice del gravame non è tenuto a riesaminare una questione formulata genericamente nei motivi di appello che sia stata già risolta dal giudice di primo grado con argomentazioni corrette ed immuni da vizi logici.

d’altra parte, quanto poi alla qualità di incaricato di pubblico servizio, ai fini del reato di abuso d’ufficio (articolo 323 Cp), deve rimarcarsi che agli effetti della legge penale, sono incaricati di un pubblico servizio coloro i quali, ?a qualunque titolo?, prestano un pubblico servizio (articolo 358 Cp), talché rileva anche l’esercizio di fatto di tale pubblico servizio (cfr. Cassazione, Sezione sesta, 21 gennaio 2005, Tarricone, sulla rilevanza in particolare del c.d. funzionario di fatto in caso di irregolarità dell’investitura). Più specificamente Cassazione, Sezione seconda, 11 ottobre 1994, Bucci, ha affermato che per la qualità d’incaricato di pubblico servizio, sulla scorta del disposto dell’articolo 358 Cp (nella sua formulazione originaria e dopo la sostituzione apportata con la legge 86/1990), bisogna tener conto anche dell’esercizio di fatto del pubblico servizio.

Nella specie la comunità ?Gente nostra?, diretta dal C., era stata iscritta provvisoriamente nell’elenco riconosciuto dalla Regione Lazio con delibera g.r. n. 7945 del 17 ottobre 1990 come comunità idonea a fornire sostegno a tossicodipendenti per il loro recupero; la circostanza che il procedimento di riconoscimento sia rimasto a questo stadio, senza più perfezionarsi, non esclude che rilevi l’attività di fatto comunque svolta dalla comunità in un settore, quale quello del recupero dei tossicodipendenti, che può qualificarsi come pubblico servizio; circostanza questa che assicura il perdurare della qualifica, ai fini della legge penale, di incaricato di un pubblico servizio nel C.. Sicché sussisteva il presupposto soggettivo del contestato reato di abuso d’ufficio, la cui perseguibilità d’ufficio assicurava anche la perseguibilità per il reato di violenza carnale (articolo 519 Cp, prima della riforma di cui alla legge 66/1966) pur in una situazione di tardività della querela della parte offesa (nella specie la B., vittima degli atti di violenza carnale contestati fino al mese di agosto del 1994, ha presentato la querela in data 27 marzo 1995, ossia tardivamente). Cfr., con riferimento al precedente regime giuridico, Cassazione, Sezione terza, 12 ottobre 1995, Savoca, che ha affermato che in tema di violenza carnale, il reato è perseguibile di ufficio ogni qual volta sia connesso, sia pure solo dal punto di vista investigativo, con altri delitti perseguibili di ufficio; in tali casi infatti, poiché sul fatto di violenza l’attività istruttoria deve puntare l’attenzione in relazione a reati perseguibili di ufficio, non permane alcuna ragione per tutelare, attraverso la procedibilità a querela, la riservatezza della persona offesa (giurisprudenza questa che peraltro è stata riaffermata anche con riferimento al nuovo regime di cui alla legge 66/1996).

Anche il secondo motivo del ricorso è infondato.

Questa Corte (Cassazione, Sezione quinta, 17 dicembre 1998, Bartoli) ha già affermato che alla luce della disciplina del nuovo c.p.p., la, polizia giudiziaria, una, volta intervenuto il Pm, deve compiere non solo gli atti ad essa specificamente delegati, ma anche tutte le altre attività di indagine ritenute necessarie nell’ambito delle direttive impartite, sia per accertare i reati, sia perché richieste da elementi successivamente emersi; ne consegue che, ove il Pm, pur avendo ricevuto la notitia criminis, non abbia impartito specifiche direttive, trova esclusiva applicazione l’articolo 348, comma 1, c.p.p., secondo il quale la polizia giudiziaria, senza necessità di specifica delega e agendo quindi di sua iniziativa, nell’ambito della propria discrezionalità tecnica, raccoglie ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto e alla individuazione del colpevole.

Quindi la mancanza di una specifica delega al compimento di atti di polizia giudiziaria non inficia la validità degli stessi.

5. Il terzo motivo è inammissibile.

La censura di mancanza del vantaggio patrimoniale quanto alla configurabilità del reato di cui all’articolo 323 Cp, dopo la novella legge 234/97, non è decisiva, ai fini dell’articolo 129 c.p.p., atteso che la Corte d’appello ha dichiarato l’estinzione del reato per prescrizione. E? vero che questa Corte (Cassazione, Sezione sesta, 14 gennaio 1998, Branciforte) ha affermato che, in tema di abuso di ufficio, a seguito della nuova formulazione dell’articolo 323 Cp ad opera della legge 234/97, occorre verificare, in base all’articolo 2 Cp, riguardante la successione delle leggi penali nel tempo, se le condotte contestate all’imputato sulla base della fattispecie previgente siano tali da integrare reato anche in base al nuovo testo del predetto articolo; e ciò tenendo presente che la nuova fattispecie, al fine di realizzare una maggiore tipicizzazione della condotta del pubblico ufficiale, richiede specificatamente che questi abbia agito intenzionalmente in violazione di leggi o di regolamenti; che essa configura ora un reato di evento, postulando che il comportamento del pubblico ufficiale abbia determinato un ingiusto vantaggio patrimoniale per sé o per altri ovvero un danno ingiusto per altri; che essa contempla la sussistenza del carattere patrimoniale del vantaggio ingiusto, mentre tale carattere, prima della novella, valeva solo a contraddistinguere l’ipotesi più grave di cui al comma 2 dell’articolo 323 Cp previdente. Però, ai fini dell’articolo 129 c.p.p. non può dirsi che risulti ?evidente? la mancanza del vantaggio patrimoniale considerato che lo scarsissimo livello del servizio offerto comportava comunque un assai modesto costo per la comunità diretta dal ricorrente a fronte degli introiti delle rette con un conseguente più favorevole rapporto tra entrate ed esborsi.

6. Il quarto ed il quinto motivo sono anch?essi infondati.

La Corte d’appello ha dato ampiamente conto delle regioni del convincimento raggiunto quanto alla sussistenza della condotta di violenza carnale e alla sua addebitabilità al ricorrente considerando le dichiarazioni della parte offesa e gli indiretti elementi di riscontro offerti dalle risultanze dibattimentali.

Ha in particolare osservato la Corte d’appello che la B., ritornata in comunità, nel 1990, aveva affermato di avere avuto (nuovamente) rapporti sessuali con il C., «perché una volta che stai dentro, le provi tutte no, per un bicchiere di vino in più, per tante cose» e l’odierno imputato le faceva bere alcool e le dava dell’hashish. In sostanza dalla ricostruzione della Corte d’appello emerge che la ragazza ha acconsentito ai rapporti sessuali dopo avere ricevuto dal C. le predette sostanze che quest?ultimo le forniva per renderla debole e accondiscendente ai suoi voleri sessuali.

La Corte poi affronta la problematica dell’attendibilità intrinseca della B. esaminando criticamente tutte le deposizioni testimoniali (dep. Cortiula e Guadagnino, Pennacchio) che non hanno inficiato le dichiarazioni della parte offesa.

Quanto poi allo stato di soggezione psichica della parte offesa, questa Corte (Cassazione, 14 marzo 1984, Germani) ha affermato che in tema di violenza carnale, la condizione di inferiorità psichica, cui si riferisce l’articolo 519 comma 2 n. 3 Cp, non postula una assoluta soggezione e quasi una meccanicità del comportamento del soggetto passivo di fronte alla sollecitazione di prestazioni sessuali da parte del soggetto attivo per cui la soggezione psichica, come situazione eminentemente relazionale, va riconosciuta soprattutto attraverso l’analisi in concreto della dinamica dei fatti; così come nella specie ha fatto la Corte d’appello con motivazione sufficiente e non contraddittoria.

7. Il sesto motivo è inammissibile non avendo il ricorrente argomentativamente dedotto il carattere decisivo delle disposizioni testimoniali di cui ha chiesto, senza esito, l’ammissione. Cfr. Cassazione, sezione sesta, 2 aprile 2004, Santarelli, secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, ai fini della configurazione del vizio previsto dall’articolo 606, lettera d) c.p.p. è indispensabile che la prova decisiva di cui si deduce la mancata assunzione abbia in ogni caso ad oggetto un fatto certo nel suo accadimento, essendo la certezza elemento condizionante della decisività; infatti, un evento dubbio nella sua verificazione non può considerarsi per sua natura idoneo a inserirsi in modo determinante nel quadro degli elementi di fatto su cui si sorregge la decisione, determinando una diversa ricostruzione della vicenda che ha dato luogo alla causa.

8. In conclusione il ricorso deve essere integralmente respinto con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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