Cass. civ. Sez. VI – Lavoro, Sent., 10-01-2012, n. 100 Danno non patrimoniale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

M.P. ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di un motivo, nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze avverso il decreto in data 28 agosto 2009, con il quale la Corte di appello di Trieste ha rigettato la domanda di equa riparazione da lui proposta, L. n. 89 del 2001, ex art. 2, per violazione del termine ragionevole di durata di un giudizio promosso davanti alla Corte dei conti con ricorso del 20 luglio 2000 e conclusosi con sentenza di rigetto del 17 luglio 2007. Il Ministero intimato non ha svolto difese.

Nell’odierna camera di consiglio il collegio ha deliberato che la motivazione della sentenza sia redatta in forma semplificata.

Motivi della decisione

Con un unico motivo il ricorrente si duole che la Corte di merito abbia rigettato la domanda, ritenendo che la inammissibilità della domanda proposta nel giudizio presupposto – dichiarata dalla Corte dei conti per omessa notifica del ricorso all’Amministrazione resistente – consentiva di escludere che l’attesa della definizione della controversia, dall’esito sfavorevole del tutto prevedibile, potesse aver procurato al ricorrente medesimo un patema d’animo indennizzabile. Il ricorso è fondato. Infatti, in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, il diritto all’equa riparazione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti e dalla consistenza economica ed importanza del giudizio, a meno che l’esito del processo presupposto non abbia un indiretto riflesso sull’identificazione, o sulla misura, del pregiudizio morale sofferto dalla parte in conseguenza dell’eccessiva durata della causa, come quando il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui al richiamato art. 2, e dunque in difetto di una condizione soggettiva di incertezza, restando irrilevante l’asserita consapevolezza da parte dell’istante della scarsa probabilità di successo dell’iniziativa giudiziaria. Dell’esistenza di queste situazioni, costituenti abuso del processo, deve dare prova puntuale l’Amministrazione, non essendo sufficiente, a tal fine, la deduzione che la domanda della parte sia stata dichiarata manifestamente infondata (Cass. 2006/7139; 2008/24269; 2010/9938).

La Corte di appello di Trieste – nel rigettare il ricorso, osservando che la inammissibilità della domanda proposta nel giudizio presupposto consentiva di escludere che l’attesa della definizione della controversia, dall’esito sfavorevole del tutto prevedibile, potesse aver procurato al ricorrente un patema d’animo indennizzabile – non si è uniformata all’orientamento sopra enunciato e il decreto impugnato deve essere conseguentemente annullato. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2. Si deve, in primo luogo, osservare che non si rinvengono in atti elementi che, alla stregua del principio in precedenza enunciato, consentano di ritenere che il ricorrente, pur proponendo una domanda priva di fondamento, abbia promosso una lite temeraria in difetto di una condizione soggettiva di incertezza e che pertanto non si sia nella specie verificato il pregiudizio morale conseguente all’eccessiva durata della causa, tenuto conto che questo si verifica di regola come effetto della violazione medesima e non abbisogna di essere provato sia pure attraverso elementi presuntivi (Cass. 2005/21088;

2006/7139).

Rilevato che il giudizio presupposto è stato promosso davanti alla Corte dei conti con ricorso 28 luglio 2000 ed è stato definito con sentenza del 17 luglio 2007, la durata complessiva di tale giudizio va stabilita in sette anni, con conseguente superamento nella misura di quattro anni del termine ragionevole di durata, determinato per il giudizio di primo grado in tre anni alla stregua dei parametri fissati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo e della Corte di cassazione (Cass. 2008/14).

Il parametro per indennizzare la parte del danno non patrimoniale subito va individuato nell’importo non inferiore ad Euro 750,00 per anno di ritardo, alla stregua degli argomenti svolti nella sentenza di questa Corte n. 16086 del 2009.

Secondo tale pronuncia, in tema di equa riparazione per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo e in base alla giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo (sentenze 29 marzo 2006, sui ricorsi n. 63261 del 2000 e nn. 64890 e 64705 del 2001), gli importi concessi dal giudice nazionale a titolo di risarcimento danni possono essere anche inferiori a quelli da essa liquidati, "a condizione che le decisioni pertinenti" siano "coerenti con la tradizione giuridica e con il tenore di vita del paese interessato", e purchè detti importi non risultino irragionevoli, reputandosi, peraltro, non irragionevole una soglia pari al 45 per cento del risarcimento che la Corte avrebbe attribuito, con la conseguenza che, stante l’esigenza di offrire un’interpretazione della L. 24 marzo 2001, n. 89 idonea a garantire che la diversità di calcolo non incida negativamente sulla complessiva attitudine ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, evitando il possibile profilarsi di un contrasto della medesima con l’art. 6 della CEDU (come interpretata dalla Corte di Strasburgo), la quantificazione del danno non patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore a Euro 750,00 per ogni anno di ritardo eccedente il termine di ragionevole durata.

Tali principi vanno confermati in questa sede, con la precisazione che il suddetto parametro va osservato in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, dovendo invece aversi riguardo per quelli successivi, al parametro di Euro 1.000,00 per anno di ritardo, tenuto conto che l’irragionevole durata eccedente tale periodo comporta un evidente aggravamento del danno (Cass. 2009/16086;

2010/819). Nel caso di specie si deve, di conseguenza, riconoscere al ricorrente, in relazione ad una durata non ragionevole di quattro anni, l’indennizzo di Euro 3.250,00, oltre agli interessi legali dalla domanda al saldo, al cui pagamento deve essere condannato il Ministero soccombente.

Le spese del giudizio di merito e quelle del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo, in base alle tariffe professionali previste dall’ordinamento italiano con riferimento al giudizio di natura contenziosa (Cass. 2008/23397;

2008/25352).

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso. Cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna il Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento in favore del ricorrente della somma di Euro 3.250,00, oltre agli interessi legali dalla domanda.

Condanna il Ministero soccombente al pagamento in favore del ricorrente delle spese del giudizio di merito, che si liquidano in Euro 873,00 di cui Euro 378,00 per competenze ed Euro 50,00 per esborsi, oltre a spese generali e accessori di legge.

Condanna inoltre il Ministero soccombente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in Euro 665,00, di cui Euro 565,00 per onorari, oltre a spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 16 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *