Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 04-03-2011) 09-09-2011, n. 33493

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza del 30 settembre 2010 il Tribunale di Napoli, costituito ex art. 309 c.p.p., confermava il provvedimento emesso dal Gip dello stesso Tribunale, in data 21.6.2010, con il quale applicava la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti – tra gli altri – di D.B.P., in relazione ai reati di cui all’art. 416 bis c.p. (capo 1) e art. 629 c.p. aggravato ex D.L. n. 152 del 1991, art. 7 (capo 4), e nei confronti di T.A. in ordine al reato di cui all’art. 416 bis c.p. (capo 25), annullando, invece, l’ordinanza genetica in relazione alla contestazione di cui alla L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies.

Il tribunale, richiamando specifiche parti del provvedimento del Gip, dava conto dell’esito di un quinquennio di indagini svolte nel territorio del comune di Acerra ed, esaminando le risultanze di precedenti provvedimenti giudiziari, ricostruiva le vicende dei sodalizi camorristi in quel contesto territoriale. In specie, affermava l’esistenza e l’operatività dei gruppi Crimaldi e De Sena nonchè di quelli che – di volta in volta – li avevano sostenuti ovvero si erano ad essi contrapposti ( Te., D.F. – D. F., D.B. c.d. marcianisielli).

Nell’ordinanza impugnata veniva richiamata l’ampia descrizione contenuta nel provvedimento del Gip delle rivelazioni dei collaboratori di giustizia M. e D.P., dalle quali era possibile trarre un approfondito, informato e dettagliato excursus della vita e delle alterne fortune di quei sodalizi criminali, nonchè, delle contrapposizioni e delle precarie alleanze con gli altri gruppi che si contendevano quel territorio; segnatamente i clan Crimaldi e De Sena, protagonisti di lunghe storie delinquenziali, costellate da una serie di reati di sangue, anch’essi dettagliatamente descritti nell’ordinanza.

Quanto agli indizi dello stabile inserimento di D.B.P. a livelli apicali nel clan che porta anche il suo nome, venivano in rilievo circostanze espressamente indicate: il rapporto di fratellanza con il capo del clan in questione, D.B.A., ristretto in carcere; il contenuto delle intercettazioni ambientali dei colloqui di quest’ultimo con i propri figli, nelle quali si fa riferimento ad attività di interesse del clan ed espressamente a vicende estorsive che avevano visto la gestione o almeno la partecipazione del ricorrente.

In ordine alla identificazione dell’indagato in "zio P.", cui nei colloqui intercettati si attribuiscono dette attività, il tribunale rilevava che il personaggio così appellato era in attesa di effettuare con il detenuto D.B.A. un colloquio, consentito ordinariamente solo ai familiari dei reclusi.

Per quel che riguarda la posizione del T., ritenuto indiziato della partecipazione al gruppo facente capo ai Te., l’ordinanza del riesame – che pure riteneva la carenza di indizi relativamente al reato di cui alla L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies – indicava e valutava una pluralità di elementi: il rapporto di parentela con il capoclan Te.Da.; la sua presenza in compagnia di quest’ultimo, latitante, al momento dell’arresto; il suo arresto in data 12.9.2008 con oltre 3 kg di hashish; la sua attività di spacciatore di stupefacenti, emergente da alcune telefonate intercettate, svolta in un territorio sul quale il clan Tedesco manteneva un ferreo controllo con conseguente impossibilità che detto commercio avvenisse fuori del contesto camorrista; la significativa funzione di utilizzatore del conto corrente riferibile a Te.Da. e di consegnatario di un libretto di assegni di tale conto corrente.

2. Avverso il citato provvedimento hanno proposto ricorso per cassazione, tramite i difensori di fiducia, D.B.P. e T.A..

2.1. Il primo lamenta la violazione di legge, nonchè, la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, con riguardo ai gravi indizi di partecipazione del D.B. al sodalizio criminoso ed alla consumazione del reato di estorsione aggravata.

Più specificamente, il ricorrente afferma che la partecipazione all’associazione criminosa sarebbe smentita proprio dalle intercettazioni ambientali presso gli istituti penitenziari, atteso che ai colloqui non aveva mai partecipato l’indagato, nonchè, da "numerose indicazioni riportate proprio nella o.c.c. ed ignorate clamorosamente dal T.d.r.".

Lamenta, inoltre, l’assenza di un quadro indiziario affidabile, sia con riferimento all’attività del sodalizio, che alla posizione del D.B., in quanto gli elementi indicati nell’impugnato provvedimento sono insussistenti e farraginosi e la motivazione caratterizzata da assoluta evanescenza in quanto basata su "conversazioni inter alios estrapolate dal loro stesso contenuto".

Contesta che si possa affermare l’appartenenza all’associazione camorristica soltanto sulla base di una richiesta di colloquio carcerario, mai effettuato, senza alcun elemento di riscontro, tenuto conto, peraltro, che nessun collaboratore di giustizia ha indicato il D.B. come soggetto appartenente al clan, e che l’unica fonte della partecipazione dell’indagato ad azione illecite sarebbe rappresentata dalle conversazioni tra i familiari.

Apparente, poi, secondo il ricorrente, è la motivazione circa la consumazione del reato di estorsione di cui neppure erano state identificate le vittime.

2.2. Il ricorrente T. deduce la violazione di legge e la mancanza ed illogicità della motivazione con riguardo ai gravi indizi di partecipazione al sodalizio criminoso.

Ad avviso del ricorrente, il tribunale, pur avendo ritenuti insussistenti i gravi indizi per il reato di cui alla L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies, ha invece confermato l’ordinanza del Gip in relazione al reato associativo, mentre nessun collaboratore di giustizia aveva indicato quale partecipe dell’associazione criminale il T., il quale, peraltro, non compare come Interlocutore, nè viene indicato nelle conversazioni intercettate.

Motivi della decisione

Il ricorsi in esame devono essere dichiarati inammissibili.

Le censure mosse da entrambi i ricorrenti sono fondate su argomenti assolutamente generici tali da precludere qualsivoglia controllo in sede di giudizio di legittimità.

Il requisito della specificità dei motivi trova la sua ragione di essere nella necessità di porre il giudice dell’impugnazione in grado di individuare i punti e i capi del provvedimento impugnato oggetto delle censure: inerisce al concetto stesso di "motivo" di impugnazione l’individuazione di questi punti ai quali la censura si riferisce (Sez. 4, n. 25308, 06/04/2004, Maviglia, rv. 228926). Si tratta di un requisito espressione di un’esigenza di portata generale, che implica, a carico della parte, non solamente l’onere di dedurre le censure che intende muovere a uno o più punti determinati della decisione, ma anche quello di indicare, in modo chiaro e preciso, gli elementi che sono alla base delle censure medesime e le ragioni per le quali si ritiene ingiusta o contra legem la decisione, al fine di consentire al giudice dell’impugnazione di individuare i rilievi mossi e di esercitare il proprio sindacato (Sez. 4, n. 24054, 01/04/2004, Distante, rv. 228586).

Detta condizione non può dirsi assolta, all’evidenza, laddove viene sostenuto che la partecipazione all’associazione criminosa sarebbe smentita "numerose indicazioni riportate proprio nella o.c.c. ed ignorate clamorosamente dal T.d.r.".

Va ribadito, altresì, che "gli indizi raccolti nel corso delle intercettazioni telefoniche possono costituire fonte diretta di prova della colpevolezza dell’imputato e non devono necessariamente trovare riscontro in altri elementi esterni, qualora siano: a) gravi, cioè consistenti e resistenti alle obiezioni e quindi attendibili e convincenti; b) precisi e non equivoci, cioè non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto verosimile; c) concordanti, cioè non contrastanti tra loro e, più ancora, con altri dati o elementi certi". (Sez. 4, n. 22391, del 02/04/2003, Quehalliu Luan, rv. 224962). All’evidenza, detto principio vale a maggior ragione con riguardo alla sussistenza dei gravi indizi di cui all’art. 273 c.p.p. per i quali non è richiesta la gravità, precisione e concordanza necessarie al fine di ritenere la c.d. prova indiziaria. Tanto vale anche nel caso di conversazioni tra terzi cui non partecipa l’indagato dalle quali ben possono trarsi elementi dai quali desumere un idoneo compendio indiziario senza la necessità di riscontri esterni. Di tal che, le circostanze riferite dai dialoganti nelle conversazioni intercettate devono essere valutate esclusivamente sulla base delle regole e dei criteri generali per lo scrutinio dei presupposti di gravità indiziaria di cui all’art. 273 c.p.p..

Invero, come si è detto, nell’ordinanza impugnata vengono sottolineati per quel che riguarda il D.B., il rapporto di fratellanza con il capo del clan D.B.A.; il contenuto delle intercettazioni ambientali dei colloqui in carcere di quest’ultimo con i propri figli, nelle quali si fa riferimento ad attività di interesse del clan ed espressamente a vicende estorsive che avevano visto la gestione o almeno la partecipazione del ricorrente. Inoltre, quanto alla identificazione dell’indagato in "zio P.", cui si attribuiscono dette attività, il tribunale rileva che il personaggio così appellato era in attesa di effettuare con il detenuto D.B.A. un colloquio, consentito ordinariamente solo ai familiari dei reclusi; la rilevanza, sotto il profilo della logica, di detta circostanza non è in alcun modo contraddetta dal fatto che – come sostiene il ricorrente per vero senza allegare la circostanza – il colloquio non si sia concretamente svolto.

Al di là della genericità e non autosufficienza dell’affermazione, nessun rilievo può assumere la dedotta mancanza di propalazioni di collaboratori riguardanti il ricorrente, nè la circostanza che non siano individuate le vittime di estorsione.

Ugualmente a fondamento della valutazione del tribunale in ordine alla posizione del T. viene posto un significativo compendio indiziario costituito da una pluralità di elementi: il rapporto di parentela con il capoclan Te.Da.; la sua presenza in compagnia di quest’ultimo, latitante, al momento dell’arresto; l’arresto in data 12.9.2008 con oltre 3 kg di hashish;

la attività di commercio di stupefacenti, emersa da alcune telefonate intercettate, in un territorio controllato dal clan Te.; l’utilizzazione del conto corrente e del libretto di assegni riferibili a Te.Da..

Alla dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna per legge dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla cassa delle ammende, in mancanza di elementi indicativi dell’assenza di colpa, di una somma, congruamente determinabile in Euro 1000,00 ciascuno.

La cancelleria provvedere alle comunicazioni previste dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 ciascuno alla Cassa delle ammende.

Dispone trasmettersi, a cura della Cancelleria, copia del provvedimento al Direttore dell’Istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

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